L’elemento psicologico nel delitto tentato. Il c.d. dolo eventuale
All’interno del nostro codice penale, il Delitto tentato è disciplinato ai sensi dell’articolo 56. Con tale norma, al primo comma, si è inteso dare rilevanza penale alle situazioni in cui l’azione è incompiuta ovvero l’evento non si è verificato, quando il soggetto agente ha posto in essere “atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto“. Si precisa che la mancata perfezione del delitto deve essere imputabile a cause esterne alla condotta e alla volontà del soggetto agente. In altri termini, all’interno del c.d. iter criminis, il tentativo si “perfeziona” quando il soggetto agente pone in essere atti idonei ed univoci, necessari e sufficienti, e si “consuma” quando viene meno la possibilità che l’azione si compia o che l’evento si verifichi. E’, dunque, la perfezione (e non la consumazione) a segnare il momento limite alla configurabilità del tentativo (oltre che della c.d. desistenza o del c.d. recesso attivo).
Al fine di evitare un’avventata parificazione tra “perfezione” e tentativo e per non conferire al giudice l’eccessivo potere discrezionale di applicare la stessa pena del c.d. delitto perfetto o una pena ridotta, in virtù dei principi cardine del diritto penale (primo tra tutti, il principio di legalità), è altresì stabilito espressamente che “il colpevole di delitto tentato è punito: con la reclusione non inferiore a dodici anni, se la pena stabilita (per il delitto) è l’ergastolo; e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto diminuita da un terzo a due terzi“. E’ bene ricordare inoltre che, per il nostro sistema penale misto, la ratio della punibilità del tentativo va ravvisata tanto nella manifestazione di volontà criminosa quanto nella esposizione a pericolo del bene protetto.
Come ogni reato, anche il delitto tentato è costituito dall’elemento oggettivo e dall’elemento soggettivo.
In particolare, l’elemento soggettivo del delitto tentato si discosta parzialmente da quello del delitto perfetto. Innanzitutto, è punito esclusivamente a titolo di dolo. Ciò si evince dal dettato normativo dell’articolo 42, comma 2, cod. pen., in cui manca un’espressa previsione del tentativo colposo e ciò sicuramente perché il concetto comune di “tentativo”, di “tentare”, è incompatibile con il criterio di imputazione psicologico della colpa (articolo 43 cod. pen.), considerato che la condotta deve avere ad oggetto “atti diretti a commettere un delitto“. Il dolo del tentativo è, inoltre, definito dolo di consumazione. In Dottrina e Giurisprudenza, tuttavia, ci si è chiesti se il tentativo ammette tutte le forme del dolo, compreso il dolo eventuale. Al riguardo sono state elaborate due contrapposte tesi: la tesi positiva e la tesi negativa.
La tesi positiva ammette il dolo eventuale per il delitto tentato, considerando gli “atti diretti a commettere un delitto” mero requisito oggettivo della fattispecie tentata e considerando il dolo del tentativo come volontà del delitto perfetto, fermo restando che nel nostro ordinamento non è presente norma alcuna che faccia una distinzione tra le varie forme di dolo.
La tesi negativa, invece, non ammette il dolo eventuale per il delitto tentato poiché considera il dolo del tentativo quale intenzione di commettere il delitto perfetto. “Tentare” non vuol dire accettare il rischio di un possibile evento, bensì voler raggiungere un determinato scopo. Inoltre, tale tesi basa le proprie conclusioni anche sulla nozione legislativa di “direzione univoca” degli atti, che non riguarda solo il comportamento umano, ma anche il corrispondente atteggiamento della volontà. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che va a limitare il dolo del tentativo.
Ad essere preferita e accolta è la tesi negativa, sia in dottrina che in giurisprudenza.
Proprio di recente la Suprema Corte si è pronunciata in questo senso, con la sentenza 17 febbraio 2022, n. 5586, statuendo che “il dolo eventuale non è compatibile con il delitto tentato, il cui elemento soggettivo può essere integrato già dal dolo diretto, anche nella forma alternativa, o dal dolo intenzionale. In particolare, nel delitto di tentato omicidio, ai fini della sussistenza del reato è sufficiente il dolo diretto, rappresentato dalla cosciente volontà di porre in essere una condotta idonea a provocare, con certezza o alto grado di probabilità in base alle regole di comune esperienza, la morte della persona verso cui la condotta stessa si dirige, non occorrendo, invece, la specifica finalità di uccidere, e quindi il dolo intenzionale, inteso quale perseguimento dell’evento come scopo finale dell’azione”.
Pertanto, è necessario distinguere il dolo eventuale dal dolo diretto poiché nel secondo il soggetto agente ha direttamente voluto il delitto, sebbene come mezzo necessario o come passaggio obbligato e non come fine ultimo. Anche in tale ipotesi, dunque, gli atti possono dirsi volontariamente diretti alla commissione del delitto, sebbene in via strumentale e mediata.
Nel caso di dolo alternativo si ha delitto consumato o tentato nei confronti dell’unico bene giuridico rispetto al quale, in concreto, si è realizzato il danno o l’esposizione a pericolo.
Si precisa che non si ha tentativo nel caso della c.d. prova del delitto, ossia quando il soggetto viene colto dalla polizia mentre compie la prova generale del suo delitto, senza avere l’intenzione di realizzarlo in quel momento. In tale ipotesi manca il dolo del delitto tentato, ossia il dolo di consumazione, essendo quegli atti diretti a valutare la loro adeguatezza in vista della successiva consumazione dello stesso.
In conclusione, per quanto riguarda l’accertamento del dolo, non si segue il procedimento ordinario relativo al delitto perfetto. In quest’ultimo si parte dal fatto materiale per accertare, poi, se il soggetto lo ha voluto; nel delitto tentato, invece, va prima accertato l’intento criminoso insito nel soggetto agente per poi valutare l’idoneità e la direzione univoca degli atti.
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Irene Antinozzi
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