L’ente locale diventa un living lab. Utopia o realtà possibile?

L’ente locale diventa un living lab. Utopia o realtà possibile?

Sommario: Premessa – 1. Mobile first, one click! – 2. Verso l’efficientamento digitale – 3. Organizzazione boss-less: nuova frontiera da esplorare –  4. Conclusioni

 

Premessa

Benessere è la parola chiave. Non più il piede ad adattarsi alla scarpa ma la calzatura ad attagliarsi perfettamente all’estremità del corpo. L’ artigiano, prima di iniziare a tagliare il cuoio, è solito ascoltare le preferenze del suo cliente. Il progetto di quello che sarà il prodotto finale viene condiviso fin dall’incontro preliminare, quello in cui si prendono le misure. Non potrebbe essere altrimenti. Lo scopo è quello di evitare sofferenza e di generare il massimo livello di confort. Cucito su misura, sarà un oggetto unico che difficilmente potrà essere usato da altri.

Il ricorso alla metafora è una tappa obbligata in presenza di una situazione inedita che non riusciamo a descrivere[1]. L’uso dell’analogia per costruire nuove idee, partendo da concetti che presentano proprietà simili, agevola il compito. Così, in tale prospettiva, l’ente locale diventa una piattaforma logistica in cui rimodulare i servizi in funzione delle esigenze di tutti gli attori coinvolti. Non un semplice spazio fisico ma un luogo di incontro di culture dove ognuno è chiamato a contribuire alla costruzione del progetto. Un sistema autoreferente che stabilisce le norme di organizzazione, strutturandole di volta in volta.

Tale impostazione consente di scongiurare il rischio della superficialità e dell’improvvisazione. Regole che, giammai definite, possono essere modificate dalla comunità dei dialoganti, per sopravvenute esigenze. Non si parla più di apertura e chiusura all’utenza ma di flessibilità oraria funzionale alle esigenze sia degli operatori pubblici, sia dei destinatari del servizio. In tal senso, proviamo ad immaginare prestazioni che coprano periodi più estesi del consueto (ad esempio dalle 7 alle 22), in regime di smart working e a rotazione.

L’uso delle tecnologie dell’informazione digitale (TIC), sperimentato con successo durante l’emergenza sanitaria, causata dalla pandemia da Covid-19, garantisce elevati standard di qualità, economicità ed efficienza. Limita gli spostamenti (casa-ufficio e viceversa), contiene drasticamente la produzione di carta stampata e riduce la presenza fisica alle attività indifferibili. È un’autentica rivoluzione copernicana del nostro modo di concepire il lavoro nel “pubblico”. Un cambio di paradigma epocale che pone al centro il conseguimento dei risultati piuttosto che la registrazione delle presenze mediante un timbratore.

Ripensare ad una diversa organizzazione consente di raggiungere il punto di equilibrio tra benessere organizzativo interno e un maggiore pregio dei servizi resi alla comunità. Muovendo in questa direzione, l’ecosistema locale che si intende costruire deve essere inserito in una trama che valorizzi fiducia e reputazione, elementi imprescindibili per il buon funzionamento e il mantenimento del sistema. Di qui, l’idea di trasformare l’ente locale in living lab, in una piattaforma “vivente” in grado di sperimentare buone pratiche. La sfida non consiste nell’immaginare ma nel costruire, animare e connettere gli intermediari dell’innovazione in una rete di contatti pubblici e privati, sia in Italia che all’estero.

1. Mobile first, one click!

«Servizi al cittadino? Semplici, immediati e alla portata di tutti». Potrebbe suonare così lo slogan della campagna di rinnovamento. L’elemento fondamentale della strategia è la trasformazione radicale dei canali di comunicazione. La scelta di puntare sul mobile è dettata dalla necessità di raggiungere il maggior numero di cittadini. Non a caso, gli investimenti sulla progettazione di siti web, nati per favorire la visualizzazione dei contenuti da smarthphone e tablet, sono progressivamente aumentati rispetto a quelli per la navigazione da pc desktop.

L’obiettivo da raggiungere è quello di cambiare faccia alla pubblica amministrazione, rendendola più attraente e al passo con i tempi. Occorre creare le condizioni affinché ogni cittadino possa consultare tutte le informazioni che lo riguardano senza recarsi allo sportello. Un solo clic per farsi riconoscere e navigare nel proprio fascicolo personale, evitando di compilare più volte moduli di richiesta. Ogni singolo dato deve essere consultato con estrema facilità e altrettanta sicurezza. Dai tributi alle infrazioni al codice della strada, dal protocollo ai certificati, punto di forza del sistema deve essere il controllo totale dei flussi informatici da parte degli stessi fruitori del servizio.

2. Verso l’efficientamento digitale

L’incremento del livello qualitativo dei servizi offerti dal Comune passa attraverso l’abbattimento degli ostacoli posti da una certa burocrazia e dall’efficientamento del digitale. L’agenda deve contenere due azioni ormai improcrastinabili:

– dotare il territorio di una infrastruttura di rete;

– individuare una regia unica in grado di coordinare tutti gli attori responsabili del processo di cambiamento;

In particolare, la trasformazione digitale del public sector deve essere fondata su tre pilastri fondamentali:

– il supporto delle piccole e medie imprese (Pmi);

– la consapevolezza che valorizzare appieno e mettere a fattor comune tutti i dati a disposizione consentirebbe di snellire i procedimenti;

– la progettazione ex novo di tutti i processi in ottica digitale senza limitarsi a digitalizzare solo quelli che si utilizzavano in maniera analogica.

La condivisione tra i Comuni delle soluzioni sperimentate con successo e delle best practices è il passaggio successivo che favorisce l’accelerazione del processo di cambiamento in un’ottica pienamente collaborativa.

3. L’organizzazione boss-less: nuova frontiera da esplorare

Il processo di costante trasformazione, che caratterizza la nostra epoca, favorisce l’affermazione di una prospettiva nuova. Il dogma delle regole fisse e immutabili è superato da una visione più rispettosa dell’incessante e rapida evoluzione culturale della società. Inoltre, l’instabilità sociale incentiva la maggiore produzione di norme di organizzazione rispetto a quelle di condotta. La diffusione di questa tipologia di regole, contro quella che mira a garantire la mera convivenza dei singoli consociati, conduce ad una concezione del diritto basato sulla cooperazione e diretto al raggiungimento di un obiettivo comune. Tali presupposti favoriscono la nascita di una nuova organizzazione del lavoro basata sulla comunità delle persone dialoganti.

La valorizzazione delle risorse umane deve diventare l’obiettivo principale. Occorre scoprire talenti e attitudini oltre che competenze. Creare le condizioni affinché ognuno si senta parte del progetto elaborato insieme, sedendo allo stesso tavolo dei decisori e dei destinatari dei servizi. Invertire il flusso top-down e incoraggiare processi decisionali che rispondano ad una logica bottom-up è la chiave per dare vita ad una governance autenticamente condivisa. Ogni lavoratore deve sentirsi protagonista in questo inedito universo semantico inclusivo. Non si tratta di rispolverare l’utopia marxista[2] di un mondo perfetto che può fare a meno delle gerarchie, dell’indicizzazione e della suddivisione in settori.

Il superamento del mansionario precostituito non è il prodotto di una grigia speculazione ideologica ma il figlio legittimo della evoluzione tecnologica. L’affermazione del digitale rende possibile il miracolo di una comunità senza capi. Pioniere in questo campo è Google. Squadre che si sciolgono alla conclusione del progetto e nelle quali, ciascun componente deve dedicare almeno il 20% del tempo di lavoro retribuito a curare il benessere personale allo scopo di sviluppare nuove idee utili all’azienda.  La tradizionale “catena di comando e controllo”, mutuata degli eserciti, riadattata dal taylorismo[3]è rimpiazzata dalla filosofia del leader, ovvero di quel componente del team che, primus inter pares, si guadagna la stima dei colleghi e viene riconosciuto come aggregatore.

L’applicazione estrema del modello boss-free conduce a rivoluzionare il sistema di reclutamento del personale. La selezione viene realizzata all’interno del gruppo di lavoro sulla base degli obiettivi da raggiungere. La retribuzione varia in funzione dei voti attribuiti “in pagella” dai colleghi chiamati a valutare l’impegno e i risultati conseguiti. Si tratta di  una sorta di peer review[4] ovvero della procedura di controllo-riesame, nella forma aperta, da parte dei pari grado. I licenziamenti, per quanto rari, sono decisi con il consenso della persona che, nell’osservanza delle regole, non riesce ad integrarsi con gli altri. Non esistono “furbetti del cartellino” perché non ci sono orari di ingresso o di uscita da rispettare né tantomeno rilevatori delle presenze.

L’assenza di capi incoraggia l’attivazione del processo di innovazione che conduce al miglioramento della produttività. Non ci sono ruoli predefiniti. Il potenziale di ciascuno viene valorizzato, nella convinzione che le idee migliori non sempre vengono dall’alto. Il lavoro è totalmente flessibile e può svolgersi in uno spazio fisico qualsiasi purché sia disponibile un dispositivo abilitato (telefono, pc, tablet) e collegato alla rete internet. L’individuazione del layout è uno dei fattori essenziali del processo organizzativo. L’ambiente fisico, quando è comune, influenza le dinamiche relazionali di teamwork e incide, in misura variabile, sulla produzione creativa. In tal senso, deve essere modulare, facilmente riconfigurabile a seconda delle esigenze e, soprattutto, strutturato in modo tale da consentire ai lavoratori di isolarsi dalla routine e riflettere sulla prassi in uso.

La fase del time for thinking  deve entrare, a pieno titolo, nella quotidianità delle attività ordinarie. La riflessione sui risultati ottenuti deve essere condivisa con gli altri soggetti dell’ecosistema, con costante regolarità. È la fine della stagione delle gerarchie e l’inizio di una nuova alleanza costruita sulla relazione di soggetti che, portatori di interessi convergenti, collaborano tra loro. Un modello rivoluzionario fondato sull’assunto che lavorare con qualcuno sia meglio che lavorare per qualcuno. Se, parafrasando Wittgenstein[5]«nessuno può pensare al posto di un altro», è altrettanto vero che nessuno può elaborare un progetto in assenza dei destinatari. Il fare per  impone il fare con, due condotte legate da un rapporto sinergico e indissolubile. Ed è la stessa comunità dei lavoratori che deve analizzare i bisogni, riscoprendosi «sorgente e non imbuto da riempire»[6]. Un processo da con-dividere per individuare insieme la soluzione ai problemi emersi.

Di qui, la necessità di avvalersi della maieutica reciproca, strumento che, secondo alcuni eminenti autori[7], consentirebbe di raggiungere l’autodeterminazione  del gruppo.

 4. Conclusioni

In altre parole, la pubblica amministrazione, anziché “calare dall’alto” le sue decisioni, dovrebbe ascoltare prima i destinatari, informandosi sulla operatività delle risorse umane a disposizione. Tale positiva attitudine consentirebbe di:

– conoscere la situazione reale;

– co-programmare le scelte “pratiche”, attraverso un confronto costante e ragionato con gli “operatori” appartenenti a tutti i livelli (dall’apicale dirigente o titolare di “posizione organizzativa” al “semplice” collaboratore professionale);

– uscire, per quanto possibile, dal paradigma bipolare “padrone del vapore – mozzo”;

– orientarsi verso una prospettiva partecipata e rispettosa del personale che punti a valorizzare la motivazione intrinseca di ciascuno, limitando il ricorso al sistema del “comando e incentivi” per conquistare l’impegno dei “subordinati”;

– guardare all’efficienza della macchina comunale sempre come strumento e mai come fine;

– mirare al coinvolgimento dell’intera organizzazione per migliorare i risultati, contribuire al mantenimento di un clima lavorativo sereno e, al tempo stesso, responsabile, tutelare il bene comune.

L’idea regolativa che dovrebbe animare qualsivoglia organizzazione dovrebbe essere quella di valorizzare l’outcome (il processo di soddisfazione ovvero il modo in cui dal punto A si raggiunge insieme il punto B) piuttosto che l’output (ovvero il numero di procedimenti, il mero dato quantitativo o, peggio ancora, il rapporto tra i prodotti e gli obiettivi attesi). È possibile tradurre un’utopia in progetto, senza domandarsi se sia difficile farlo ma soltanto se sia opportuno provarci? Quando questa dimensione sarà compiutamente realizzata non ci sarà più bisogno di dire, parafrasando Brecht, che siamo sfortunati perché abbiamo bisogno di eroi[8].

 

 

 

 


[1] F. Ervas, E. Gola, Che cos’è una metafora, Roma, Carocci, 2016, introd.: «[…]senza le metafore non saremmo in gradi di capirci e comunicare».
[2]  K. MarksF. Engels,  L’ideologia tedesca, Roma, Editori internazionali riuniti, 2018, 24: «[…]Nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’ altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».
[3] «Organizzazione scientifica del lavoro, ideata dall’ingegnere americano F.W. Taylor (1856-1915), basata sulla razionalizzazione del ciclo produttivo secondo criteri di ottimalità economica, raggiunta attraverso la scomposizione e parcellizzazione dei processi di lavorazione nei singoli movimenti costitutivi, cui sono assegnati tempi standard di esecuzione. Più genericamente, il termine indica tutti gli aspetti di un lavoro, sia manuale sia impiegatizio, organizzato secondo criteri ripetitivi, parcellizzati e standardizzati»http://www.treccani.it/enciclopedia/taylorismo/
[4] «Nel mondo della ricerca e dell’università, valutazione critica che un lavoro o una pubblicazione riceve, spesso su richiesta di un’autorità centrale, da parte di specialisti nazionali e internazionali anonimi». Consultabile on line: http://www.treccani.it/vocabolario/peer-review/ «[…]Esistono tre tipi di peer review: a singolo cieco: gli autori dello studio non conoscono i referee che lo giudicheranno che, così, potranno essere liberi di valutare lo scritto senza sentire il timore di influenze esterne; a doppio cieco: gli autori non conoscono i revisori e viceversa. Non sapere l’identità di chi ha svolto la ricerca permette di valutare lo scritto senza pregiudizi di qualsiasi matrice; aperta: i nomi di autori e referee non sono occultati». Documento integrale consultabile on line: http://www.saperescienza.it/news/scienza-societa/cos-e-la-peer-review-29-01-2018/1881-cos-e-la-peer-review-29-01-2018
[5]  L. Wittgenstein, Ricerche filosoficheTorino, Einaudi, 2007:«Nessuno può pensare un pensiero  al mio posto, così come nessuno tranne me può mettermi il cappello in testa».
[6] R. Scarcella, in Sorgente e progettoDanilo Dolci (a cura di), Soveria Mannelli, Rubbettino editore, 1991, 112.
[7] A. Mangano (a cura di)Frammenti della città futura, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita editore, 1990, 1 «[…] Il metodo fondamentale di questo lavoro di animazione è la maieutica di gruppo, della quale vi sono documentazioni costanti nelle opere di D. Dolci e dimostrazioni continue nella sua attività quotidiana». Cfr. anche A. Mangano, Problemi e prospettive della pedagogia sociale, cap IX, Roma, Bulzoni,1989.
[8]  B. Brecht, La vita di Galileo, (trad. a cura di  E. Castellani, Torino, Einaudi, 2005), scena 13: « […] sfortunata quella terra che ha bisogno di eroi».

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Enrico Pintaldi

Messinese d’origine e vimodronese d’adozione, lavora nella pubblica amministrazione da un quarto di secolo. Funzionario responsabile dei tributi in un Comune della città metropolitana di Milano per un decennio, da dicembre 2021, è stato trasferito, per mobilità volontaria, in provincia di Monza e Brianza. Laureato in scienze della formazione continua, specializzato in comunicazione pubblica, è stato più volte richiamato alle armi, in qualità di ufficiale della riserva selezionata dell’Esercito. Giornalista professionista (iscritto all’ordine professionale dal 1996), ha frequentato due master universitari. Uno, di primo livello in diritto tributario e l’altro, di secondo livello, in scienze della pubblica amministrazione. Dottorando di ricerca in scienze giuridiche e politiche è autore di tre saggi e di numerosi articoli, pubblicati su quotidiani e periodici.

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