L’eredità devoluta ad enti pubblici ed ecclesiastici: la facoltà di accettazione e i suoi limiti
Sommario: 1. La successione per causa di morte e l’acquisto della proprietà – 2. La successione legittima e la successione testamentaria – 3. L’accettazione dell’eredità e le sue forme – 4. Le attribuzioni testamentarie in favore delle persone giuridiche e i limiti alla facoltà di accettazione – 4.1. L’accettazione da parte degli enti pubblici – 4.2. L’accettazione da parte degli enti ecclesiastici – 5. Osservazioni conclusive
Il presente lavoro si pone l’obiettivo di analizzare le vicende inerenti la devoluzione di beni ereditari a particolari categorie di soggetti, quali gli enti pubblici e gli enti ecclesiastici. Dopo una breve ricostruzione sistematica della normativa civilistica in materia successoria, si concentrerà l’attenzione sui limiti impliciti che tali soggetti incontrano nell’accettazione dei lasciti ereditari disposti in loro favore.
1. La successione per causa di morte e l’acquisto della proprietà
L’art. 42 della Costituzione richiama la successione per causa di morte nell’ambito della proprietà privata e rinvia alla legge ordinaria per le norme e i limiti della successione legittima e testamentaria.
Il fenomeno successorio sembra essere concepito dalla Costituzione principalmente in termini di ricchezza essendo strettamente correlato al diritto di proprietà.
La successione configura infatti un modo di acquisto della proprietà che trova la propria causa nell’evento morte. Tale evento rappresenta la giustificazione dello spostamento patrimoniale dal de cuius al soggetto chiamato a succedergli.
Tuttavia, considerare la successione solo come modo di acquisto della proprietà appare riduttivo in quanto il fenomeno successorio comprende una molteplicità di vicende che si inseriscono in un quadro più ampio e generale.
Se globalmente intesa, la successione riguarda non solo l’acquisto della proprietà di beni ma anche la prosecuzione dei rapporti obbligatori che facevano capo al de cuius e che non si estinguono con la sua morte.
I rapporti in questione possono essere molteplici e non sono limitati a quelli di natura reale, comprendendo anche quelli di natura obbligatoria. Le obbligazioni contratte in vita dal de cuius, che non riguardano rapporti intrasmissibili, si trasferiscono in capo all’erede al momento dell’apertura della successione e per effetto dell’accettazione da parte dell’erede medesimo.
L’eredità rappresenta quindi un’universalità di diritto, ossia l’insieme dei rapporti attivi e passivi facenti capo al de cuius. Un rapporto più ampio che non può essere limitato alla successione nella proprietà, anche se nella pratica l’eredità assume spesso questo specifico connotato, venendo a coincidere con l’attribuzione di ricchezza e, quindi, di un’entità patrimoniale che avvantaggia chi la riceve.
Non è altrimenti escluso che l’eredità possa risultare persino dannosa per l’erede, ove nel patrimonio lasciato dal defunto siano presenti solo passività, o comunque le passività siano superiori alle attività. Ciò non impedisce in ogni caso al chiamato di accettare l’eredità medesima, poiché egli può essere mosso dalla volontà di onorare i debiti contratti in vita dal de cuius e di proseguire nei suoi rapporti patrimoniali.
Il trasferimento della proprietà di beni, pertanto, è solo un aspetto del fenomeno successorio, ma è certamente quello più rilevante dal punto di vista sociale e, quindi, oggetto di maggiore attenzione da parte degli interpreti.
In questo senso la successione mortis causa è modo di acquisto della proprietà che si contrappone alla successione per atto tra vivi secondo la classificazione operata dal Codice civile all’art. 922.
2. La successione legittima e la successione testamentaria
Nel nostro ordinamento la successione può essere di due tipi: legittima (quando il de cuius non ha disposto, nemmeno in parte, della sua eredità) e testamentaria (quando è presente un testamento con cui il de cuius ha disposto del suo patrimonio, o di parte di esso, in favore di determinati soggetti).
La bipartizione, oltre che dall’art. 42 Cost., è stabilita dall’art. 457 Cod. civ. Ai sensi di tale disposizione la successione testamentaria prevale su quella legittima, posto che si fa ricorso a quest’ultima solo quando manca in tutto o in parte la prima.
L’ordine dato dal Legislatore attribuisce la preminenza al testamento quale atto di espressione della volontà del soggetto di disporre dei suoi beni per il tempo in cui avrà cessato di vivere.
La successione legittima dei parenti non opera se il testatore abbia disposto una sostituzione ai sensi degli articoli 688 e ss. Cod. civ., cioè abbia indicato un’altra persona per il caso in cui l’erede istituito non possa o non voglia accettare l’eredità.
Se non è stata prevista una sostituzione, trova applicazione in subordine la successione per rappresentazione ai sensi 467 e ss. Cod. civ.
Se con lo stesso testamento siano stati istituiti più eredi senza determinazioni di parti o in parti uguali del patrimonio ereditario e uno di essi non possa o non voglia accettare l’eredità, opera l’istituto dell’accrescimento tra coeredi ai sensi degli articoli 674 e ss. Cod. civ., sempre che non sia possibile la rappresentazione.
Solo in assenza dei presupposti della sostituzione, della rappresentazione e dell’accrescimento, si fa luogo alla successione legittima delle categorie di successibili indicate agli articoli 565 e ss. Cod. civ.
In mancanza di successibili entro il sesto grado di parentela con il de cuius, o qualora questi ci siano ma rinuncino all’eredità, questa si devolve automaticamente allo Stato che non può rinunciarvi (586, comma primo, Cod. civ.). In questo modo, la legge garantisce che il patrimonio del de cuius non resti senza titolare, anche al fine di soddisfare le pretese dei creditori dell’eredità e la complessiva sistemazione dei rapporti giuridici in itinere.
In ogni caso, lo Stato risponde dei debiti ereditari e dei legati entro i limiti dell’attivo ereditario (586, comma secondo, Cod. civ.).
Il testamento è l’atto tipico negoziale a causa di morte, essendo dal nostro Codice vietati i patti successori con cui taluno dispone della propria successione quando è ancora in vita (458 Cod. civ.). Il testamento, quale atto mortis causa, produce i suoi effetti solo con la morte del disponente; effetti che si espandono nella sfera giuridica dell’istituito con la successiva accettazione da parte di quest’ultimo.
La successione legittima e quella testamentaria possono anche concorrere nella medesima vicenda successoria. Ciò accade quando il de cuius abbia disposto con il testamento solo in parte del suo patrimonio, aprendosi per la restante parte la successione dei parenti entro il sesto grado e secondo l’ordine di legge (v. Cass. 15239/2017).
La successione testamentaria vede come unico limite la quota di eredità che la legge riserva a determinate categorie di soggetti che prendono il nome di legittimari. Ai sensi dell’art. 536 Cod. civ. sono legittimari il coniuge, i figli e gli ascendenti del de cuius.
L’art. 549 Cod. civ. stabilisce infatti il divieto per il testatore di imporre pesi o condizioni sulla quota di eredità riservata ai legittimari. La lesione della quota per effetto di disposizioni testamentarie non determina la nullità dell’attribuzione ma rende la stessa inefficace e soggetta all’azione di reintegrazione della quota di legittima esperibile dai legittimari ai sensi degli articoli 553 e ss. Cod. civ.
Va precisato che la successione dei legittimari, detta anche necessaria, non configura un terzo tipo di vocazione dell’eredità bensì un limite legale della successione legittima e testamentaria.
3. L’accettazione dell’eredità e le sue forme
L’accettazione dell’eredità è un negozio giuridico personale e a contenuto patrimoniale, mediante il quale il chiamato all’eredità manifesta la sua scelta di accettare la delazione e di continuare nei rapporti giuridici del de cuius.
Nel nostro ordinamento, infatti, l’eredità, quale successione a titolo universale, si acquista con l’accettazione.
La dichiarazione di accettazione ha sempre effetto retroattivo in quanto è fatta risalire al momento dell’apertura della successione (459 Cod. civ.), che coincide con la morte del de cuius. In tal modo la legge assicura il principio di continuità dei patrimoni giuridici che non tollera interruzioni temporali. Pertanto, anche se la dichiarazione interviene a distanza di anni (in ogni caso entro il termine di prescrizione di dieci anni: 480, comma primo, Cod. civ.), essa si considera avvenuta al tempo in cui si è aperta la successione, in modo che sia sempre individuabile un titolare del patrimonio senza soluzione di continuità.
L’accettazione è negozio c.d. puro o legittimo, in quanto non tollera condizioni o termini (475, comma secondo, Cod. civ.); non è parimenti consentita un’accettazione parziale dell’eredità (475, comma terzo, Cod. civ.).
Dalle norme del Codice si ricava che per l’acquisto dell’eredità non basta la delazione, ossia la chiamata a succedere nelle forme della successione legittima o testamentaria, essendo necessario un atto del chiamato con cui si dichiari la volontà di subentrare nel patrimonio del de cuius. Tale atto rappresenta un segmento necessario, pur se autonomo e indipendente, che si combina con la precedente delazione ai fini della produzione dell’effetto giuridico ultimo, consistente nell’acquisto del patrimonio ereditario.
L’accettazione è atto necessario in quanto l’erede, come tale, risponde dei debiti ereditari oltre il valore di quanto ricevuto dal de cuius. Si è visto, infatti, che l’eredità può presentarsi anche come negativa nel caso in cui nel patrimonio del defunto le passività siano superiori alle attività. Ecco perché l’ordinamento rimette al soggetto interessato, ossia l’erede, la facoltà di far propria l’eredità, che ben può essere dallo stesso rinunciata nei modi stabiliti dalla legge (519 ss. Cod. civ.).
A differenza dell’eredità, il legato, quale attribuzione a titolo particolare, si acquista automaticamente senza bisogno di accettazione, salva la facoltà per il soggetto di rinunciarvi (649, comma primo, Cod. civ.). Il legatario, a differenza dell’erede, non risponde dei debiti ereditari ed è tenuto ad adempiere il legato solo nei limiti del valore della cosa legata (671 Cod. civ.). Il legatario, inoltre, sopporta ogni peso imposto sul fondo oggetto del legato che sia gravato da servitù o altro onere reale (668 Cod. civ.). La limitazione di responsabilità per il legatario, a differenza della posizione dell’erede, è dunque evidente e ciò giustifica la non necessità dell’accettazione.
L’accettazione dell’eredità può essere pura e semplice o con beneficio di inventario (470 Cod. civ.). La differenza tra l’una e l’altra forma è notevole, in quanto l’erede che accetti puramente e semplicemente l’eredità risponde dei debiti ereditari oltre il valore di quanto ricevuto, mentre l’erede che ha accettato con beneficio di inventario risponde limitatamente al valore dell’attivo ereditario (490 n. 2, Cod. civ.). L’accettazione con beneficio d’inventario rappresenta sotto questo aspetto una forma consentita di limitazione della responsabilità patrimoniale generica di cui all’art. 2740 Cod. civ., in quanto il patrimonio personale dell’erede è tenuto distinto da quello del de cuius. La legge assicura peraltro che i diritti dei creditori dell’eredità e dei legatari siano soddisfatti con preferenza sul patrimonio ereditario rispetto ai creditori personali dell’erede (490 n. 3, Cod. civ.). A differenza dell’accettazione con beneficio d’inventario, l’accettazione pura e semplice determina invece la confusione del patrimonio del defunto con quello dell’erede.
Per quanto riguarda i modi di accettazione, questa può essere espressa o tacita (474 Cod. civ.).
L’accettazione espressa consiste nella dichiarazione contenuta in un atto pubblico o in una scrittura privata, ove il chiamato manifesta l’intenzione di accettare l’eredità o assume il titolo di erede (475, comma primo, Cod. civ.).
Ai sensi dell’art. 476 Cod. civ., l’accettazione tacita avviene per comportamento concludente del chiamato dal quale si evinca la volontà di accettare l’eredità incompatibilmente con una volontà contraria.
I comportamenti che presuppongono la volontà di accettare possono essere molteplici e la loro significatività ai fini dell’accettazione è rimessa all’apprezzamento del giudice. Sono previste anche delle forme tipizzate di accettazione tacita o presunta, dal momento che il giudizio positivo sull’equazione “comportamento = accettazione” è effettuato a monte dal Legislatore. Si fa riferimento ai casi di donazione, vendita e cessione dei diritti ereditari (477 Cod. civ.), nonché alla rinuncia dell’eredità verso corrispettivo (478 Cod. civ.), che è negozio bilaterale ai sensi dell’art. 1321 Cod. civ. Se il chiamato compie uno di tali atti, l’effetto giuridico dell’accettazione si produce senza necessità di dichiarazione espressa.
L’accettazione con beneficio d’inventario richiede invece sempre una forma espressa e specifica. Essa, ai sensi dell’art. 484, comma primo, Cod. civ., deve farsi mediante dichiarazione ricevuta da un notaio o dal cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione e deve essere inserita nel registro delle successioni conservato presso il tribunale medesimo.
La legge pone inoltre delle precise e stringenti tempistiche per tale forma di accettazione a seconda che il chiamato sia o meno nel possesso dei beni ereditari.
Ai sensi dell’art. 485, comma primo, Cod. civ., il chiamato che è a qualsiasi titolo nel possesso dei beni ereditari deve fare l’inventario entro tre mesi dall’apertura della successione o da quando ha avuto notizia della devoluta eredità. Se il chiamato omette di fare l’inventario entro il termine stabilito, è considerato erede puro e semplice con tutte le conseguenze sulla responsabilità viste sopra.
Il chiamato all’eredità che non è nel possesso dei beni ereditari può invece fare la dichiarazione di accettare con beneficio d’inventario nel termine di prescrizione ordinario di dieci anni (487, comma primo, e 480, comma primo, Cod. civ.). Una volta fatta la dichiarazione, il chiamato deve poi procedere all’inventario nel termine di tre mesi dalla dichiarazione (487, comma secondo, Cod. civ.).
4. Le attribuzioni testamentarie in favore delle persone giuridiche e i limiti alla facoltà di accettazione
Si è visto come il testamento rappresenti il tipico negozio mortis causa con cui un soggetto dispone dei propri beni per il tempo in cui avrà cessato di vivere, in modo che la volontà manifestata in vita nelle forme prescritte dalla legge esplichi i suoi effetti al momento dell’apertura della successione.
L’autonomia testamentaria consente al soggetto di inserire nell’atto di ultima volontà disposizioni di carattere patrimoniale (587, comma primo, Cod. civ.) e anche non patrimoniale (587, comma secondo, Cod. civ.). Le disposizioni possono essere a titolo universale, tramite l’istituzione di erede, nonché a titolo particolare, tramite l’istituzione di legati (588 Cod. civ.).
Il testamento privilegia la volontà del de cuius che vede come unico limite la quota di eredità spettante ai legittimari i quali, in caso di lesione della quota medesima, potranno agire con l’azione di riduzione. La determinazione della quota di patrimonio disponibile è effettuata, ai sensi dell’art. 556 Cod. civ., mediante un calcolo matematico che riunisce fittiziamente l’attivo patrimoniale (relictum), sottraendo le passività e aggiungendo le eventuali donazioni effettuate in vita dal de cuius (donatum). In ogni caso, l’esistenza di legittimari non toglie validità alla disposizione testamentaria lesiva dei loro diritti, fungendo solo come limite di efficacia del testamento per la parte non disponibile in caso di positivo esperimento dell’azione di riduzione.
All’interno di tale quadro normativo, con il testamento è possibile istituire erede o legatario anche una persona giuridica.
In passato per l’acquisto dell’eredità e dei legati da parte delle persone giuridiche era necessaria l’autorizzazione governativa.
L’art. 17 Cod. civ., che conteneva tale previsione, è stato poi abrogato. Pertanto, ogni persona giuridica può oggi decidere in piena autonomia se accettare o meno i lasciti ereditari disposti da qualsiasi soggetto con testamento.
L’art. 473 Cod. civ. stabilisce però che l’accettazione dell’eredità da parte delle persone giuridiche diverse dalle società debba farsi necessariamente con beneficio d’inventario. Si comprende bene la ratio della norma, che è quella di limitare la responsabilità della persona giuridica per i debiti ereditari.
Tale limite non si applica alle società atteso che le medesime svolgono in ogni caso un’attività economica nella quale è ordinariamente consentito il ricorso all’indebitamento, che rappresenta una normale fase dell’esercizio dell’impresa per il reperimento dei beni e il raggiungimento degli scopi sociali. In questo quadro non sorgono problemi circa l’acquisizione di un’eredità passiva, anche se qualche difficoltà sussiste per le società di persone in quanto le stesse non godono di autonomia patrimoniale perfetta, ossia il patrimonio dei soci non è pienamente separato da quello della società. Se invece è chiamata a succedere una persona giuridica che non rivesta la struttura societaria o anche un’associazione, una fondazione o un ente non riconosciuto, la responsabilità per i debiti ereditari è soggetta ad una necessaria limitazione che la legge garantisce richiedendo l’accettazione beneficiata.
Se queste sono le regole del Codice applicabili alle persone giuridiche per la devoluzione ed accettazione dell’eredità, occorre ora focalizzare l’analisi sui lasciti ereditari indirizzati ad un ente di diritto pubblico (ad es. un Comune) e ad un ente ecclesiastico (ad es. Chiese, Parrocchie, strutture diocesane). Tali attribuzioni sono contenute nel testamento che può disporre in favore dei soggetti indicati sia a titolo di eredita, in una quota del patrimonio, sia a titolo di legato (di specie), attribuendo la proprietà di uno o più beni determinati.
Si vedrà che, oltre ai limiti stabiliti dal Codice civile, sono poste ulteriori condizioni all’accettazione dell’eredità da parte di enti pubblici ed ecclesiastici: limiti ulteriori che potremmo definire “impliciti” in quanto connaturati alla struttura e alla funzione pubblica, sociale ed ordinamentale del soggetto istituito.
4.1. L’accettazione da parte degli enti pubblici
Un soggetto di diritto pubblico può essere istituito erede a titolo universale o particolare. L’istituzione trova necessariamente fondamento in un testamento e si distingue nettamente dalla successione dello Stato in mancanza di altri successibili ai sensi dell’art. 586 Cod. civ. Quest’ultima, come visto sopra, trova fondamento nella legge ed è irrinunciabile, posto che va sempre individuato un titolare dell’eredità in ossequio al principio di continuità dei rapporti giuridici.
Lo Stato chiamato a succedere non è invece obbligato ad accettare l’eredità. In ogni caso, la dichiarazione di accettazione deve essere fatta con beneficio d’inventario ai sensi dell’art. 473 Cod. civ.
Si è detto che l’accettazione dell’eredità è atto negoziale con cui il chiamato decide di far propri gli effetti giuridici dell’attribuzione disposta in suo favore e di proseguire nel complesso dei rapporti giuridico-patrimoniali del de cuius. La natura di atto negoziale non cambia se il chiamato all’eredità è un ente pubblico.
Occorre pertanto indagare la capacità negoziale generale delle persone giuridiche di diritto pubblico.
L’art. 1, comma 1 bis, della Legge 241/1990 stabilisce che “la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente”. Fra le norme di diritto privato rientrano anche gli articoli 1321 e ss. Cod. civ. in materia di capacità negoziale. La p.a. è innanzitutto un soggetto dell’ordinamento giuridico generale che gode della stessa capacità dei privati di stipulare negozi giuridici ed è soggetta alle medesime regole. La capacità dell’ente pubblico di concludere contratti con i privati è confermata altresì dall’art. 11, Legge 241/1990 che disciplina gli accordi integrativi e sostitutivi del provvedimento amministrativo, ove si prevede espressamente che si applicano le regole del Codice civile in materia di obbligazioni e contratti, nonché dal Codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 50/2016). Possono essere stipulati anche contratti atipici purché meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 Cod. civ: norma che si applica anche alla p.a.
Tuttavia, la capacità generale di diritto privato, di cui certamente gode l’ente pubblico, deve essere coordinata con le funzioni istituzionali dell’ente medesimo. In altri termini, la causa del negozio stipulato dalla p.a., che in astratto non può dirsi precluso, deve necessariamente coincidere con l’interesse pubblico che la p.a. stessa è tenuta per legge a perseguire.
Pertanto, l’accettazione dell’eredità manifestata dall’ente, quale atto negoziale, non è sempre libera come accade per le persone fisiche. Essa deve rispondere alle regole di diritto pubblico che sono individuate, in primo luogo, dalle norme costituzionali: l’art. 97 Cost., che afferma i principi di buon andamento ed imparzialità, nonché l’art. 81 Cost. per quanto concerne il principio dell’equilibrio di bilancio.
A queste si aggiunge il rispetto delle norme di legge che attribuiscono e, al tempo stesso, delimitano l’ambito di potere riservato alla p.a. (c.d. norme di relazione), nonché le norme che disciplinano le modalità di esercizio di tale potere (c.d. norme di azione).
L’accettazione dell’eredità è dunque subordinata alle finalità istituzionalmente perseguite dall’ente, e ciò a prescindere dalla volontà espressa dal de cuius nel testamento. È pur vero infatti che va privilegiata al massimo la volontà del testatore di destinare una parte del proprio patrimonio ad un determinato soggetto, ma tale libertà non può influire sull’assetto ordinamentale dell’ente e sulla funzione da questi svolta. L’accettazione di un’eredità da parte di un Comune, ad esempio, non può comportare per l’ente medesimo uno sviamento del potere o un dispendio di risorse pubbliche. In questi casi l’ente dovrebbe rinunciare all’eredità, non essendo sufficiente la mera accettazione beneficiata.
Sotto il profilo tributario va segnalato che, ai sensi dell’art. 3, comma 1, del D.Lgs. 346/1990 (e successive modifiche), i trasferimenti a favore dello Stato e degli enti pubblici sono esentati dal pagamento dell’imposta di successione.
Per gli enti pubblici economici trasformati, per effetto di privatizzazione, in società per azioni a partecipazione pubblica la facoltà di accettare l’eredità è in astratto soggetta a limiti meno stringenti. Ciò in quanto si tratta di un soggetto che svolge attività economica e che quindi è istituzionalmente in grado di gestire e investire nel raggiungimento dell’oggetto sociale i beni ricevuti a titolo di eredità. Inoltre, alla società privata partecipata da un ente pubblico si applicano le regole del Codice civile in materia di società, rivestendo essa la forma societaria di diritto privato. Ne deriva che le società partecipate da enti pubblici, che esercitano in comune un’attività economica per il raggiungimento di scopi di rilevanza pubblicistica, non sono tenute ad accettare l’eredità con beneficio d’inventario applicandosi a tutti gli effetti l’esenzione prevista per le società dall’art. 473, comma secondo, Cod. civ.
4.2. L’accettazione da parte degli enti ecclesiastici
A differenza degli enti pubblici, che operano all’interno dell’ordinamento generale dello Stato, le confessioni religiose appartengono ad un ordine autonomo e distinto con regole sue proprie.
I rapporti tra lo Stato italiano e le confessioni religiose trovano la propria base normativa negli articoli 7 e 8 della Costituzione.
Tali rapporti sono regolati da accordi o intese con le singole confessioni nel pieno rispetto del principio della distinzione degli ordini.
Le confessioni religiose acquistano rilevanza per l’ordinamento giuridico statale a seguito del loro riconoscimento, che avviene di norma attraverso il procedimento amministrativo descritto dalla Legge n. 222 del 1985. Con il riconoscimento l’ente ecclesiastico ha l’obbligo di iscrizione nel registro delle persone giuridiche, al fine di rendere pubblica e conoscibile la sua attività nei confronti dei terzi che vengono in contatto con esso.
I rapporti tra lo Stato e la Santa Sede sono regolati dall’Accordo di Villa Madama del 18 febbraio 1984, reso esecutivo in Italia con Legge n. 121 del 1985. L’accordo modifica e sostituisce il Concordato del 1929 che, insieme al Trattato e alla Convenzione finanziaria, costituisce i Patti Lateranensi.
L’Accordo tra Stato e Chiesa cattolica, che trova fondamento costituzionale nell’art. 7 Cost., è negozio bilaterale di diritto internazionale tra due ordinamenti autonomi e indipendenti.
Anche le intese stipulate con le confessioni religiose diverse da quella cattolica hanno fonte bilaterale ai sensi dell’art. 8 Cost.
Oltre alle fonti bilaterali, lo Stato regola il fenomeno religioso con norme di produzione unilaterale. Tra queste, per quanto concerne gli enti ecclesiastici, figura la norma costituzionale dell’art. 20 Cost. secondo cui “il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”.
La distinzione degli ordini, infatti, non impedisce allo Stato di regolare il fenomeno religioso. Non è comunque consentito influire in alcun modo sull’organizzazione e sul funzionamento interno delle singoli ordinamenti confessori.
La gestione dei beni ecclesiastici e le decisioni sull’acquisto e la vendita degli stessi rientrano pertanto nell’autonomia e nei poteri decisori interni dell’ente di riferimento.
Per quanto riguarda i rapporti tra lo Stato italiano e le confessioni religiose cattoliche, la normativa pattizia di riferimento prevede che “l’amministrazione dei beni appartenenti agli enti ecclesiastici è soggetta ai controlli previsti dal diritto canonico. Gli acquisti di questi enti sono però soggetti anche ai controlli previsti dalle leggi italiane per gli acquisti delle persone giuridiche” (art. 7, comma 5, dell’Accordo di Villa Madama).
Ne risulta che l’ente ecclesiastico riconosciuto secondo le leggi dello Stato, oltre ai controlli derivanti dal diritto canonico, è soggetto alle leggi italiane sui controlli per gli acquisti delle persone giuridiche.
La normativa pattizia è integrata dalla Legge n. 222 del 1985 (Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi) che, all’art. 17, ribadisce l’applicazione delle leggi civili relative alle persone giuridiche per gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.
Per la capacità negoziale dell’ente ecclesiastico, in cui rientra anche la facoltà di accettare lasciti ereditari, occorre fare riferimento in primo luogo alle regole interne dell’ordinamento confessionale. Per quanto riguarda gli enti ecclesiastici cattolici, la disciplina degli acquisti di beni, quale espressione del potere temporale, è contenuta nel Codice di Diritto Canonico del 1983 in cui si stabilisce che “la Chiesa può acquistare beni temporali in tutti i giusti modi di diritto sia naturale sia positivo, alla stessa maniera di chiunque altro” (canone 1259). Inoltre, si prevede che i fedeli possono liberamente devolvere beni temporali alla Chiesa (canone 1261).
La normativa dello Stato non può pertanto interferire sui controlli effettuati dalle autorità di diritto canonico e sulla gestione dei beni ecclesiastici. Tuttavia all’art. 18 della Legge n. 222 del 1985 si prevede che “ai fini dell’invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici non possono essere opposte a terzi, che non ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche”. La norma è volta a tutelare il principio di affidamento dei terzi, stabilendo l’inopponibilità delle previsioni interne al diritto confessionale che non rispettino i requisiti di pubblicità richiesti. Tale previsione costituisce l’unico limite all’efficacia dei controlli delle autorità canoniche sulla gestione dei beni ecclesiastici e sull’autorizzazione all’acquisto e alla vendita degli stessi.
Il D.P.R. 33 del 1987 (Approvazione del regolamento di esecuzione della legge 20 maggio 1985, n. 222, recante disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi), all’art. 10, prevede che “per gli acquisti delle persone giuridiche soggette al vescovo diocesano la domanda di autorizzazione (…) deve essere corredata dall’autorizzazione della Santa Sede o del vescovo ovvero dall’attestazione del medesimo che nessuna autorizzazione è richiesta (comma primo). Inoltre, “per gli acquisti degli istituti religiosi e delle società di vita apostolica la domanda di autorizzazione deve essere corredata dall’autorizzazione della Santa Sede o del superiore competente ovvero dall’attestazione del medesimo che nessuna autorizzazione è richiesta (comma secondo).
Per rendere conoscibili gli acquisti effettuati dall’ente ecclesiastico secondo le proprie regole di diritto interno si prevede un onere di comunicazione a carico della Conferenza episcopale italiana la quale, in forza dell’art. 11 del citato regolamento di esecuzione, è tenuta a comunicare al Ministero dell’Interno le deliberazioni adottate in attuazione delle regole di diritto canonico sull’acquisto di beni e sui relativi limiti di valore per il compimento degli atti di disposizione.
Nell’ambito del descritto quadro normativo si inserisce a pieno titolo l’accettazione dell’eredità che, quale atto di acquisizione di beni, è soggetta alle regole e ai limiti stabiliti dall’ordinamento confessionale di cui è parte il soggetto chiamato a succedere per testamento.
Trattandosi di enti riconosciuti con personalità giuridica si applica altresì la regola dell’art. 473 Cod. civ., la quale richiede che l’accettazione dell’eredità avvenga con beneficio d’inventario. Sotto questo profilo sussiste, pertanto, un’equiparazione con gli enti pubblici.
Per quanto concerne l’aspetto tributario, la normativa pattizia (art. 7, comma terzo, prima parte, dell’Accordo del 1984) equipara gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto a quelli con fine di beneficenza o di istruzione. Tali soggetti sono esentati dal pagamento dell’imposta di successione, come stabilito dall’art. 3 del D.Lgs. 346/1990 (e successive modifiche). Ciò comporta che l’esenzione trova a tutti gli effetti applicazione anche per gli enti ecclesiastici.
5. Osservazioni conclusive
Alla luce di quanto esposto, si osserva come l’acquisto dell’eredità da parte di enti pubblici ed ecclesiastici sia sottoposto a condizioni più stringenti che non risiedono soltanto nella disciplina civilistica.
Per quanto riguarda gli enti pubblici, i limiti impliciti alla capacità negoziale hanno fonte nelle regole di diritto pubblico, ed in particolare nei principi costituzionali del buon andamento e dell’equilibrio di bilancio. In applicazione di tali principi, espressione dell’ordinamento generale dello Stato, è possibile sindacare la scelta dell’ente di accettare un’eredità (o di non rinunciare ad un legato) quando tale atto negoziale non risponda all’interesse pubblico che l’ente medesimo è tenuto per legge a perseguire.
La sindacabilità della scelta non è invece possibile per gli enti ecclesiastici, poiché in questo caso trovano applicazione le regole proprie dell’ordinamento confessionale di riferimento: regole con cui si stabiliscono poteri e limiti per l’acquisto e la vendita di beni, fra cui rientrano quelli oggetto di un’eredità o di un legato. Il riconoscimento dell’ente e la sua iscrizione nel registro delle persone giuridiche non impedisce però all’ordinamento dello Stato di esercitare il proprio controllo. Quest’ultimo trova la propria fonte nella normativa pattizia in applicazione del principio di distinzione degli ordini di cui agli articoli 7 e 8 della Costituzione.
Bibliografia generale
BONILINI G., Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, II ed., Torino, Utet, 2003
GAZZONI F., Manuale di diritto privato, XVIII ed., Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017, pag. 437 ss.
CHIEPPA R. – GIOVAGNOLI R., Manuale di diritto amministrativo, IV ed., Milano, Giuffré, 2018, pag. 739
VITALI E. – CHIZZONITI A.G., Manuale breve di diritto ecclesiastico, XV ed., Milano, Giuffré, 2020, pag. 5 ss. e 113 ss.
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Emanuele Ventura
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