L’ergastolo ostativo e il detenuto a 41 bis O.p.

L’ergastolo ostativo e il detenuto a 41 bis O.p.

I motivi per i quali la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani è tanto discussa e travisata persino dagli addetti ai lavori hanno radici lontane.

L’ergastolo non ha avuto la stessa sorte della pena di morte. L’abolizione della capitale è passata per una battaglia che ha visto schierate legioni di giuristi, filosofi, scrittori e intellettuali di varia estrazione. Nulla di tutto questo è avvenuto per l’ergastolo.

Abolita la pena di morte l’ergastolo ne prese il posto nella gerarchia delle pene senza alcuna discussione e trovò ospitalità nel Codice Zanardelli, che pure era un codice complessivamente mite nella previsione delle pene.

I costituenti, fatta eccezione per l’accorato appello di Togliatti di abolire l’ergastolo, non si soffermarono sul problema lasciandolo alla competenza del legislatore ordinario.

La dottrina maggioritaria riteneva che, stante il silenzio della Costituzione, e, ci permettiamo di aggiungere l’ambiguità dei costituenti, la pena perpetua fosse del tutto compatibile con il principio della rieducazione  affermato dall’articolo 27.

Certo non mancarono giuristi che presero posizione contro la pena perpetua, primo tra tutti Francesco Carnelutti che la definiva plasticamente “pena di morte diluita giorno per giorno”,e, che nel 1956, sulle colonne della Rivista di diritto processuale, pubblicava provocatoriamente un articolo dal titolo eloquente: La pena dell’ergastolo è costituzionale?

Alla provocazione di Carnelutti seguì il famoso congresso di Perugia del 1956 presieduto da Alfredo De Marsico ma fu un congresso di giuristi, avvocati e magistrati che ebbe poca risonanza nella società civile, inoltre si concluse in larga misura per la legittimità dell’ergastolo.

Dunque nel nostro paese non si è mai discusso seriamente dell’ergastolo e della sua compatibilità con il principio rieducativo. Nella stessa manualistica di ieri e di oggi molte pagine sono dedicate alla ormai abolita pena di morte e poche all’ergastolo e comunque senza mai metterne in discussione il fondamento. Quasi nessuno si domanda se la pena perpetua sia legittima eppure nei codici di molti paesi dell’Europa e del mondo non è prevista nel novero delle pene.

L’ergastolo non ha mai avuto il suo Beccaria, il suo Victor Hugo, il suo Albert Camus.

Da questa breve premessa appare dunque evidente il motivo per cui in Italia ogni tentativo di abolizione dell’ergastolo ha trovato l’opposizione dell’opinione pubblica e di gran parte degli stessi operatori del diritto. Si spiega così il perché la sentenza della Corte europea ha incontrato tanta ostilità, anche da parte della magistratura e dei suoi organi rappresentativi.

La sentenza tocca alcuni temi caldi nel nostro paese: l’ergastolo, la lotta alle mafie e al terrorismo, la collaborazione con la giustizia.

LA SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI

La tanto discussa sentenza della Corte europea relativa al caso Viola v. Italia afferma in realtà un principio che è in sintonia con i precedenti della stessa Corte (Kafkaris v. Cipro; Vinter v. Regno Unito; Hutchinson v. Regno Unito) ma soprattutto, ci permettiamo di aggiungere, è in sintonia con i principi della nostra Costituzione.

Che l’ergastolo incomprimibile, senza alcuna possibilità di sottoporre la pena a riesame, fosse contrario all’art. 3 CEDU,  era principio già affermato dalla Corte e del tutto conforme al principio rieducativo sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione.

D’altronde per i reati non elencati dall’articolo 4 bis O.p. l’ergastolo non si traduce in una pena perpetua stante la possibilità di ottenere permessi premio, liberazione condizionale, semilibertà.

Dunque nulla di scandaloso.

La novità è che la Corte europea perviene alla illegittimità dell’ergastolo ostativo affermando l’illegittimità della presunzione di pericolosità del detenuto che decida di non collaborare con la giustizia.

La collaborazione con la giustizia, secondo la Corte, non può essere indice assoluto del cambiamento del detenuto al punto che la sua assenza possa impedirgli la possibilità di ottenere i benefici penitenziari previsti per gli ergastolani ordinari.

La scelta collaborativa infatti può essere, oltre che impossibile e inesigibile, anche  dettata da mere strategie calcolanti e dunque inaffidabile indice rivelatore del pentimento morale del detenuto. Inoltre il rifiuto di collaborare può essere dettato dal timore di esporre i propri familiari a pericoli di vendette trasversali e ritorsioni.

Dunque viene a cadere la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora con la giustizia; principio questo che non dovrebbe essere estraneo al nostro ordinamento che ha bandito ogni forma di presunzione di pericolosità.

Anche sul punto pertanto nulla di nuovo è stato affermato dal giudice sovranazionale.

La sentenza in commento stabilisce che non esistono delinquenti incorreggibili, immeritevoli di coltivare la speranza di poter un giorno uscire dal carcere ma esistono solo delinquenti che vogliono rimanere tali e delinquenti che invece vogliono risocializzarsi. Questo vale anche per i mafiosi e i terroristi in quanto la lotta alle mafie e al terrorismo è una necessità dello Stato ma non un principio giuridico idoneo a inficiare principi costituzionali e convenzionali.

La rieducazione si pone dunque come un’offerta doverosa da parte dello Stato nei confronti del reo, lasciando alla libertà dello stesso scegliere se accettarla o meno.

Tale assunto non ha nulla di rivoluzionario ma discende pacificamente dai nostri principi costituzionali e bastava una lettura onesta e scevra da pregiudizi della Costituzione per accorgersene.

IL DETENUTO SOTTOPOSTO AL REGIME DI CUI ALL’ARTICOLO 41 BIS O.P.

Se il principio affermato nella sentenza Viola vale per il detenuto sottoposto a regime ordinario, quale sorte invece attende il detenuto sottoposto a regime di cui all’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario? Al detenuto Marcello Viola era stato revocato il regime di carcere duro ma il detenuto sottoposto ancora a quel regime quali argomenti potrà addurre per dimostrare la sua rieducazione?

Per il detenuto sottoposto a regime differenziato è estremamente difficile dimostrare la sua volontà di rieducarsi dal momento che è escluso da quasi tutte le attività rieducative. Altrettanto difficile è per il giudice valutare i progressi di un detenuto sottoposto a carcere duro.

Rebus sic stantibus troverebbero applicazione quei criteri valutativi tanto criticati quanto vaghi che solitamente applica il Tribunale di Sorveglianza in sede di reclamo: la capacità del detenuto di mantenere contatti con l’organizzazione criminale e l’operatività dell’associazione criminale di appartenenza. Entrambi elementi esterni alla vita carceraria e indipendenti dalla volontà del detenuto.

Il destino del detenuto a regime differenziato finisce così per dipendere da quanto dichiarano gli organi di polizia operanti sul territorio sui quali si attesta generalmente la magistratura inquirente.

Un destino, dunque, sul quale il detenuto non può incidere in nessun modo.

Il rischio è quello che la permanenza in regime di 41 bis possa, ex se, costituire indizio di pericolosità sociale del detenuto, con il pericolo, ancora più grave, che per una fascia di detenuti l’ergastolo resti, di fatto, ancora ostativo e dunque incomprimibile.

Una tale discriminazione tra detenuti è contraria ai principi convenzionali così come affermato dalla sentenza Viola v. Italia.

Sul punto non resta che auspicarsi un intervento illuminato della giurisprudenza prima che la Corte europea condanni nuovamente l’Italia.


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