L’errore determinato dall’altrui inganno

L’errore determinato dall’altrui inganno

Col presente contributo si intende esaminare la disciplina dell’errore nell’ambito dell’ordinamento penale e metterla a confronto con i reati propri, ossia quei reati che considerano la qualifica soggettiva del soggetto agente come elemento essenziale della fattispecie penale.

Per comprendere il modo in cui opera la disciplina dell’errore occorre dapprima considerare la struttura del reato: infatti, nell’ottica della cd teoria tripartita il reato è un fatto tipico, colpevole ed antigiuridico. Particolare rilievo assume, ai fini della presente indagine, la categoria della colpevolezza, dato che il fatto tipico può essere imputato soggettivamente al soggetto agente solo se ricorrono taluni elementi quali la suitas (coscienza e volontà del fatto) imputabilità ed elemento soggettivo in senso stretto. In questa sede ci si soffermerà sull’elemento soggettivo in senso stretto, posto che ai sensi dell’art. 42 comma 2 c.p. nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge. Il dolo, costituito dalla rappresentazione e volontà del fatto tipico rappresenta, dunque, l’elemento di imputazione normale del fatto all’autore: il delitto è doloso o, secondo l’intenzione, quando il soggetto che ha materialmente causato il reato l’ha anche preveduto e voluto come conseguenza della sua condotta attiva od omissiva.  A tal proposito si può fare un esempio: un soggetto, avendo intenzione di cagionare la morte di un individuo, esplode un colpo di pistola nei suoi confronti, uccidendolo. In tal caso egli ha realizzato il fatto tipico, poiché la propria condotta ha causato la morte di un uomo. Ma ai fini della sua punibilità è anche necessario l’accertamento della colpevolezza e, in particolare del dolo: occorre cioè che egli abbia preveduto e voluto quel fatto e, quindi, che si sia rappresentato ogni elemento costitutivo di esso.

È però possibile che il soggetto agente, che abbia materialmente posto in essere la condotta causativa dell’evento (e quindi il fatto come descritto dall’art. 575 c.p. “è punito chiunque cagiona la morte di un uomo”) sia caduto in errore nel momento della rappresentazione del fatto. È cioè possibile che sussista una divergenza tra quanto accaduto realmente e quanto oggetto di rappresentazione da parte del soggetto agente. Considerando l’esempio di sopra, è cioè possibile che il soggetto agente (che ha causato la morte della persona) non si sia rappresenta la morte della persona. Si pensi al caso di colui che, nell’ambito della battuta di caccia, accortosi di alcuni movimenti dietro un cespuglio, credendo di trovarsi innanzi ad un animale selvatico, abbia esploso un colpo di fucile, cagionando invece la morte di una persona. È chiaro che lo scollamento tra quanto verificatosi e quanto oggetto di rappresentazione nella mente del soggetto agente impedisce il riconoscimento del dolo. A tal proposito stabilisce l’art. 47 c.p. che l’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente. Va però osservato che l’errore sul fatto può anche rinvenire la propria genesi nella colpa del soggetto agente, il quale avrebbe cioè potuto prevedere ed evitare l’errore: in tal caso l’errore sarebbe determinato da colpa, con conseguente imputazione del delitto colposo (ipotesi contemplata dall’art. 47 comma 1 c.p.).

L’ipotesi contemplata va poi tenuta distinta da quella in cui l’errore di rappresentazione sia determinato da erronea comprensione della legge extrapenale, contemplata dall’art. 47 comma 3 c.p. Ci si riferisce cioè al caso in cui tra gli elementi costitutivi del fatto tipico siano presenti elementi considerati da norme diverse da quella penale. Si pensi al caso di colui che si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene: sarebbe in errore colui che ha acquisito la disponibilità materiale della cosa credendo erroneamente che, dopo la stipulazione del contratto preliminare la cosa sia già di sua proprietà. In tal caso, il soggetto non si rappresenta l’altruità della cosa e crede di esserne già proprietario: pertanto va esclusa la sua punibilità in ragione dell’erronea comprensione della norma che disciplina il contratto preliminare.

Occorre ora considerare una particolare ipotesi di errore, ossia quella in cui detta condizione psichica sia determinata dal fatto del terzo. Stabilisce a tal proposito l’art. 48 c.p. che le disposizioni dell’articolo precedente (ci si riferisce all’art. 47 c.p., che contempla tanto l’errore di fatto quanto l’errore di diritto) si applicano anche al caso in cui l’errore sul fatto è determinato dall’altrui inganno, per tale intendendosi una qualunque condotta artificiosa, diretta a sorprendere l’altrui buona fede. Buona fede che si sostanzia nell’ignoranza del soggetto agente di porre in essere condotte lesive del diritto altrui. L’art. 48 c.p. fissa dunque due regole: il soggetto ingannato (cd decipiens) che materialmente pone in essere il fatto illecito non risponde del reato, mentre ne risponde colui che ha perpetrato l’inganno (cd deceptus). Affinché si configuri l’ipotesi contemplata dall’art. 48 c.p. è innanzitutto necessaria la realizzazione di una fattispecie penalmente rilevante da parte del deceptus. Occorre poi che vi sia divergenza tra quanto materialmente realizzato e quanto oggetto di rappresentazione nella psiche del soggetto agente. Si richiede poi che l’erronea rappresentazione da parte del soggetto che ha perpetrato il reato (che non si rappresenta uno o più elementi del fatto tipico) sia legata, da un punto di vista causale, alla condotta del terzo. La condotta del terzo deve dunque porsi in rapporto di causalità rispetto al fatto tipico posto in essere secondo le regole proprie dell’art. 40 c.p.: occorre quindi che in forza di un giudizio controfattuale di eliminazione mentale della condotta ingannevole, sia possibile ritenere la sua efficacia condizionante (che cioè in assenza di essa il deceptus non sarebbe caduto in errore). Si pensi al caso del medico che deve sottoporre al paziente il farmaco e che, per via dell’inganno esercitato dall’infermiere decipiens, gli sottopone una sostanza velenosa, con conseguente causazione della morte.

A questo punto è possibile interrogarsi sulla compatibilità dell’art. 48 c.p. con i cd reati propri. Con l’espressione reati propri ci si riferisce a quei casi in ci la norma incriminatrice, cioè la norma che eleva ad illecito penale un determinato fatto, considera la qualifica del soggetto agente come elemento costitutivo del fatto stesso. Nell’ambito dei reati propri è poi possibile distinguere il caso dei reati propri esclusivi, che si configurano quando il fatto, se posto in essere da un soggetto privo della qualifica indicata dalla norma, non avrebbe alcuna rilevanza penale; dai reati propri semi esclusivi, che ricorrono quando l’assenza della qualifica permette comunque di apprezzare un reato diverso (come nel caso del peculato che, in assenza della qualifica di pubblico ufficiale, configura comunque una appropriazione indebita); dai reati non esclusivi (in tal caso l’assenza della qualifica in capo al soggetto agente esclude la rilevanza penale del fatto, configurandosi però illecito di altra natura). Si faccia l’esempio del pubblico ufficiale che commette peculato, poiché si appropria della cosa mobile altrui della quale ha la disponibilità in ragione del suo ufficio: occorre considerare l’ipotesi che il pubblico ufficiale, che materialmente pone in essere il fatto tipico, non si sia rappresentato l’altruità della cosa per via di inganno posto in essere dal decipiens (interessato a conseguire la disponibilità del bene altrui). In tal caso la punibilità del decipiens ex art. 48 c.p. presuppone, sotto il profilo della colpevolezza, che il delitto di peculato sia stato da esso preveduto e voluto: pertanto occorre anche la consapevolezza della qualità di pubblico ufficiale del deceptus.

Di recente si è posto il problema della compatibilità dell’errore determinato dall’altrui inganno ex art. 48 c.p. rispetto all’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p. Ricordiamo che la norma punisce il pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto. A ben vedere l’abuso di ufficio si inquadra nell’ambito dei reati propri esclusivi, posto che l’assenza della qualifica di pubblico ufficiale (o di incaricato di pubblico servizio) priva il fatto di ogni rilevanza penale. Si ipotizzi dunque che un pubblico ufficiale tiene condotta in violazione di regole di condotta previste dalla legge o da atti con forza di legge, determinando poi un ingiusto vantaggio patrimoniale a sé o ad altri od un danno ingiusto: occorre chiedersi se l’errore in cui egli cada per effetto della condotta ingannatoria del terzo (es mancata rappresentazione del fatto che quella condotta è tenuta in violazione di regola di condotta) possa conciliarsi con l’art. 48 c.p. Ciò che appare ictu oculi è l’impossibilità di conciliare l’abuso d’ufficio con la disciplina dell’errore determinato dall’altrui inganno, essendo richiesto ai fini dell’art. 323 c.p. il dolo intenzionale (occorre cioè che il pubblico ufficiale agisce col precipuo fine di cagionare il vantaggio patrimoniale o il danno ingiusto).


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