L’errore nella scelta del rito nel processo civile

L’errore nella scelta del rito nel processo civile

L’errore nella scelta del rito e i rimedi per attenuarne le conseguenze pregiudizievoli per le parti hanno da sempre suscitato la massima attenzione del legislatore processuale. Dall’analisi del codice di rito e delle riforme ad esso apportate negli anni, è chiara la tendenza ad affievolire gli effetti della patologia de qua, disciplinando le ipotesi di mutamento dal rito “errato” a quello legalmente prescritto, onde evitare che l’errore dell’attore nell’instaurazione della controversia potesse risolversi in un vizio invalidante l’intero procedimento, ossia che il processo si chiudesse con mera pronuncia in rito. Non a caso la correttezza del rito non ha mai costituito un presupposto processuale. Il leitmotiv è far ottenere alle parti la tutela giurisdizionale del diritto (sostanziale) controverso in tempi ragionevoli, vale a dire garantire l’effettività della stessa tutela.

Alla luce di ciò, l’accento si pone sulla ratio del diverso atteggiamento del legislatore nel disciplinare le conseguenze dell’adozione di un rito erroneo nei procedimenti a cognizione piena e in quelli a cognizione sommaria, fermo che, in ogni caso, il predetto errore non determina alcuna nullità bensì la sola conversione nel procedimento virtuoso. A parità di esito processuale -la salvezza delle attività compiute prima dell’ordinanza di mutamento- e coerentemente con il principio di economia, il distinguo si fonda sulla diversa funzione cui assolvono le due tipologie procedimentali. Nella fattispecie, il rito del lavoro è scandito da una rigida sequenza procedimentale in forza della natura delle vicende sostanziali che regolamenta; la peculiarità del vincolo contrattuale disciplinato dal rito de quo implica necessariamente l’esigenza che determinati interessi siano tutelati alla stregua di un iter processuale legislativamente predeterminato.

Nell’ipotesi in cui la parte, per errore (anche incolpevole) sulle regole del processo, incardini un giudizio con un atto che è a tutti gli effetti una citazione, quando la legge avrebbe imposto l’adozione del ricorso (o viceversa), si pone la problematica oggetto d’esame. Il rimedio predisposto dal legislatore è il mutamento del rito; fermo che, le attività processuali, pur integrate, non valgono a ricondurre il processo ad una fase anteriore rispetto a quella già posta in essere. Infatti, dopo la trasformazione del rito, anche qualora il procedimento seguisse nuove regole processuali, gli atti precedentemente compiuti saranno valutati, dal punto di vista formale, in base alle norme del rito erroneamente selezionato. Detta conversione non può tollerare alcuna condizione o limitazione, per la semplice ragione che il legislatore, pur avendo espressamente disciplinato il citato errore, nulla ha previsto in tal senso.

Allo stato, le conseguenze dell’adeguamento del sistema delle preclusioni a quanto previsto per il rito ordinario sono, in concreto, piuttosto modeste, essendo venuta meno la distinzione tra prima udienza di comparizione e prima udienza di trattazione (artt. 180 – 183 c.p.c.) e la possibilità di concedere, in una successiva udienza (art. 184), ulteriori termini per formulare istanze istruttorie. Corollaricamente, vengono meno anche i profili più critici del mutamento di rito legati ai pregiudizi connessi all’esercizio di attività processuali altrimenti precluse.

Unica nota problematica si registra in punto di efficacia delle prove acquisite durante lo svolgimento del processo nelle forme del rito del lavoro, avvenuta la conversione ai sensi dell’art. 427 c.p.c.; e ciò in quanto le prove acquisite durante il rito speciale avranno l’efficacia consentita dalle norme ordinarie.

Volgendo lo sguardo alla ratio ispiratrice dell’introduzione del rito sommario di cognizione, ciò che rileva è la volontà del legislatore di uscire dai rigidi confini previsti per il procedimento ordinario di cognizione, consentendo l’adattamento, caso per caso, delle forme del giudizio alla complessità della lite. L’effettiva applicazione del procedimento de quo, alla luce della pressoché generalizzata assenza di limitazioni quoad petita, presenta, dunque, la caratteristica innovativa per il nostro ordinamento di non essere predeterminabile a priori: la scelta del rito sommario da parte del ricorrente sarà, di norma, operata senza alcuna effettiva certezza in merito all’evoluzione futura del procedimento e, poiché tale evoluzione dipende da una valutazione non sindacabile e ad esclusivo appannaggio dell’autorità giudicante, è del tutto imprevedibile il destino di un ricorso proposto ex art. 702 bis c.p.c. La scelta del rito (sommario piuttosto che ordinario) consiste, pertanto, in un’anticipazione ipotetica degli sviluppi processuali da adattare alla semplicità della materia del contendere, a prescindere dal convincimento del giudice sui fatti dedotti dalle parti. Dunque, secondo l’id quod plerumque accidit, tale decisione è ex ante solo pronosticabile, posto che l’idoneità della causa ad essere sottoposta ad una trattazione sommaria deve essere verificata ex post, all’esito della costituzione del convenuto e della prima udienza. Il rito sommario, quindi, non possiede carattere residuale rispetto all’ordinario giudizio a cognizione piena, bensì costituisce un modello di procedimento semplificato, a cognizione sommaria, che l’attore può discrezionalmente impiegare come alternativa nelle cause sottoposte alla decisione del tribunale in composizione monocratica. Per converso, la prosecuzione nelle forme del rito sommario è soggetta ad un ampio potere discrezionale del giudice, al quale è rimessa la decisione di effettuare il mutamento nel rito a cognizione piena. Pertanto, gli unici interrogativi ruotano attorno alla valutazione di procedibilità della lite secondo il rito sommario che presuppone una prognosi di case management sugli atti di istruzione da compiere; ferma una sorta di passerelle dal rito ordinario al rito sommario consentita ai sensi dell’art. 183 bis c.p.c.

In altri termini, l’ipotesi di mutamento da / in rito del lavoro a cognizione piena è prevista al fine di evitare di incorrere in un errore processuale in senso stretto, mentre nel caso di procedimento sommario di cognizione onde incorrere in un iter processuale inidoneo alla complessità della situazione sottoposta all’attenzione del giudice. Emerge, con tutta evidenza, che lo scopo cui si tende è la “flessibilizzazione” del rito ordinario per quelle controversie per le quali tale sovrastruttura risulti sovrabbondante.

Nonostante gli sforzi del legislatore nel regolamentare la materia e la copiosa attività giurisprudenziale, non sembra che, allo stato dell’arte, il nostro sistema processuale possa vantare una soluzione univoca e soddisfacente.

Il più recente intervento normativo sul punto, il d.lgs. n. 150 del 2011, pur avendo di mira la semplificazione e riduzione dei riti civili, si è risolto, in sostanza, in una duplicazione dei riti e, quindi, in una proliferazione ulteriore di riti speciali. E ciò in quanto al programmatico intervento di razionalizzazione delle regole processuali ha fatto da contraltare un modus procedendi contorto e farraginoso che si è dimostrato esclusivamente idoneo a ridurre il numero dei modelli ai quali ciascun rito deve riferirsi. Non si intravede ancora il capo del bandolo della matassa: la materia processuale continua ad essere regolata in maniera disomogenea e frammentaria. E, tralasciando i numerosi dubbi di eccesso di delega -anche sul piano del rispetto delle garanzie costituzionali-, l’operazione compiuta dal legislatore delegato risulta più che di semplificazione, di riadattamento. Pertanto, la riconduzione ad uno dei modelli di destinazione nei limiti di compatibilità finisce, di fatto, per obbligare l’interprete ad un’immeritata attività di decoupage. La disciplina applicabile al caso di specie, infatti, non è frutto di una lineare attività ermeneutica, bensì di una lettura, per così dire, “in multitasking” delle disposizioni del codice di procedura civile e del d.lgs. 150/ 2011. E’ evidente che l’auspicato risultato di semplificazione ha lasciato il posto ad una faticosa attività ricostruttiva dell’interprete.

Volendo azzardare quella che sarebbe potuta essere la chiave per una effettiva e vincente semplificazione della giurisdizione civile speciale, non si può non avere di mira la soluzione che predilige l’adozione di un rito unico. Ma essendo obbligato il confronto con il reale (e non con l’auspicabile), è opportuno soffermarsi sull’esistente. Accanto alle suesposte criticità, si deve dar atto che il risultato della citata (e propagandata) semplificazione, è il sostanziale depotenziamento del peso specifico della diversità tra i riti, almeno in quanto ciascuno di essi garantisce, in ogni caso, il giusto processo. In questo senso, si potrebbe parlare di relativa fungibilità tra i riti. A conforto di ciò basti pensare che, onde evitare oscillazioni in merito al regime delle preclusioni, restano ferme quelle maturate prima del mutamento. Se si fosse seguita una strada alternativa, a prevalere sulla certezza degli effetti della litispendenza (ma ancora più sulla tutela dell’affidamento delle parti), sarebbe stata l’esigenza di perpetuare le differenze di disciplina. Il chiaro sotteso a questa normativa capovolge quello per cui le regole del gioco processuale non sono intercambiabili, bensì devono essere quelle previste ad hoc dal legislatore per ciascuna fattispecie. Approdo questo che appare sostenibile, senza correre il rischio che l’attore possa abusarne, atteso che, appunto, ogni rito garantisce con sufficienza costituzionale ogni parte. La costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo ha accentuato la crescente rilevanza che la tutela processuale differenziata ha dato al criterio della proporzionalità nell’uso della risorsa giudiziaria e, di conseguenza, al diverso valore ponderale istruttorio della lite coinvolta, prima che alle peculiarità della situazione soggettiva contesa. La controprova di ciò si ha alla luce della diffusione sempre più insistente di riti deformalizzati e la pressoché generalizzata applicabilità del procedimento sommario di cognizione grazie alla assenza di limitazioni quanto all’oggetto. Dall’adozione di una simile prospettiva, deriva l’abbandono di schemi fissi e predeterminati al fine di configurare una tutela giurisdizionale tale da garantire un trattamento individualizzato, proprio per neutralizzare il tempo della durata (pur fisiologica) del processo civile. In questa ottica, la differente declinazione delle regole processuali perde rilievo, purché siano rispettati, sostanzialmente, i valori essenziali della dimensione avversariale tipica del processo, cioè, in sintesi, quelli del contraddittorio. La prospettiva che si presenta è quella per cui il differenziale dato dal rito diviene “debole”: non si ha tanto diritto ad un rito, quanto alla integrità della difesa. Da qui ne discende anche l’esclusione di ogni retroattività, pur propriamente dichiarativa, degli effetti del mutamento del rito. Tale soluzione, che evoca l’unitarietà dei valori processuali piuttosto che una rigida identità del rito, non può che dirsi imposta alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale, vale a dire della protezione funzionale e non formale dei diritti.

Tale è la filosofia sottesa anche al principio dell’ultrattività del rito in appello posto che, a prescindere dall’eventuale inesattezza del rito adottato con l’instaurazione del giudizio, le parti soccombenti dovranno seguire in secondo grado la disciplina del rito individuato dall’attore in relazione alla domanda. Sarà, poi, il giudice dell’impugnazione, se ritenuto opportuno, a disporne il mutamento. Pertanto, nel caso prospettato, lo stato di fatto merita pari dignità dello stato di diritto, se non altro in forza della legittima, perché incolpevole, aspettativa del terzo davanti ad una situazione ragionevolmente attendibile, pur non conforme alla realtà, e non altrimenti accertabile. Diversamente opinando, il “diritto di difesa in ogni grado del processo” risulterebbe dimidiato, in quanto ostacolato nel suo concreto esercizio dall’incertezza delle modalità di impugnazione, il che si tradurrebbe in una denegata giustizia per il soccombente e, quindi, verrebbe disatteso il fine (anche costituzionale) di assicurare la massima garanzia di tutela giurisdizionale. Pertanto, il principio di affidamento declinato nella sua dimensione processualcivilistica e applicato alla natura del rimedio impugnatorio si accompagna inevitabilmente alla regola dell’ultrattività del rito. Si rileva una piena applicazione del principio di strumentalità delle forme nella sua massima estensione e dei suoi corollari, esaltando la prospettiva del procedimento complessivamente considerato rispetto alla dimensione (riduttiva) del singolo atto processuale. E ciò in quanto, come dimostrato, le violazioni della legge processuale perdono rilevanza, almeno nel senso che non precludono la decisione di merito, se, indipendentemente dal mancato rispetto delle forme legalmente prescritte, il procedimento ha, in concreto, soddisfatto gli interessi protetti dalle norme violate. Ancora una volta emerge l’attenzione rivolta dal legislatore alla tutela della parte estranea alla scelta del rito, posto che calibra la propria attività difensiva sulla base delle forme per come effettivamente le sono state presentate, e non per quelle che sarebbero dovute essere. L’assoluta preminenza del raggiungimento dell’obiettivo finisce per ricomprendere perfino il rilievo giuridico dell’esigenza di tassatività, escludendo la necessaria esistenza di fattispecie inderogabilmente vincolanti; sacrificio questo che il sistema, con tutta evidenza, guarda come valore subordinato rispetto all’esigenza di conservazione degli effetti del potere processuale esercitato insieme con la garanzia ad una difesa integra e consapevole.


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Valeria Gangemi

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