L’evoluzione della condizione giuridica della donna in Italia

L’evoluzione della condizione giuridica della donna in Italia

Sommario: 1. Introduzione – 2. Il quadro preunitario – 3. Dall’unificazione alla nascita della Repubblica – 4. Dalla costituzione ad oggi – 5. Considerazioni conclusive

 

1. Introduzione

La principale fonte giuridica su cui si basano i diritti fondamentali in Italia è rappresentata dalla Costituzione. A tale riguardo, infatti, non è possibile poter parlare di emancipazione femminile senza menzionare il concetto di “uguaglianza”, pilastro dell’articolo 3 della Carta costituzionale, dove si asserisce che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociali e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.».

Il principio di uguaglianza e di parità giuridica, elemento cardine della maggior parte degli ordinamenti giuridici contemporanei, ha ottenuto il riconoscimento solamente nei tempi più recenti in seguito a secoli di lotte contro le discriminazioni nei riguardi delle donne e delle minoranze etniche e religiose1.

2. Il quadro preunitario

Il percorso che ha condotto all’emancipazione femminile affonda le radici nell’Italia preunitaria all’epoca dei primi moti risorgimentali ai quali parteciparono anche le donne. Queste rivestirono un ruolo politico recando coccarde tricolori, lottando sulle barricate, organizzando raccolte fondi e in numerose altre modalità. La presenza femminile nel Risorgimento, unito al sentito desiderio di esprimersi in occasione dei plebisciti per l’annessione, fu così forte al punto che si segnalarono persino dei casi di donne ammesse ad esercitare il voto2. Malgrado tale contesto favorevole, quando si costituì il Regno d’Italia, non si registrò alcun mutamento nello status giuridico delle donne3.

Per comprendere la cornice della libertà nella quale si muovevano le donne, è necessario soffermarsi sullo status giuridico instauratosi con l’unità d’Italia.

In ambito di diritto di famiglia, una delle principali fonti del diritto è il codice civile. Il primo codice civile unitario, datato 1865 (noto altresì come “Codice Pisanelli”), ricalca la struttura e la matrice ideologica espressa dal Code civil des français del 1804. Quest’ultimo, ai sensi dell’articolo 213, disciplina il rapporto tra i coniugi col seguente dettame: «il marito deve protezione alla propria moglie, la moglie ubbidienza al proprio marito». L’autorità sui figli è esercitata solo dal padre, i figli naturali non vengono tutelati in nessuna maniera. La gestione del patrimonio familiare è nelle mani del pater familias e alla donna è lasciata solamente l’amministrazione delle incombenze economiche legate alla sfera domestica.

In Italia, il codice Pisanelli attua soluzioni che rispondono a due tendenze opposte: da una parte, inserisce nell’asse ereditario tutti i figli, comprese le donne, agevolando così la perdita di importanza dei beni della dote a vantaggio di quelli ereditari “extradotali”, detti “parafernali”, contribuendo in tal modo alle prime forme di autonomia femminile nella gestione del patrimonio; dall’altra, prevede l’autorizzazione maritale, analogamente a quanto sancito dal Codice Napoleonico: le donne non possono «donare, alienare beni immobili, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l’autorizzazione del marito» (art. 134). L’esigenza per la donna sposata di sottoporsi all’autorizzazione del marito per disporre del proprio patrimonio rispondeva anzitutto alla necessità di tutelare l’unità della famiglia, elemento cardine dell’organismo statale4. In aggiunta, le mogli non hanno libertà di movimento, in quanto devono accompagnare il marito dove egli decide di risiedere (art. 131) e hanno minori poteri riguardo ai figli: la potestà è “patria”5. Altre limitazioni riguardavano la tutela e la curatela (artt. 268 e 273), al fine di fornire adeguata protezione, dato che le donne erano soggetti con ridotta capacità di agire6.

In ottica comparativa pre e post-unitaria, a livello di condizione giuridica femminile, è rappresentativo il fatto che, nel Lombardo-Veneto, le donne presentarono una petizione affinché venissero confermati i medesimi diritti che erano loro stati garantiti nel corso della dominazione austriaca circa la facoltà di disporre delle proprie sostanze in ogni contrattazione e la non soggezione all’autorizzazione maritale7. Infatti, l’unificazione legislativa generalizza l’autorizzazione maritale per gli atti di disposizione dei beni, con un peggioramento in detta materia dello status delle donne, non solo in riferimento a quelle delle dianzi citate ex province austriache divenuti territori italiani (espressione prima del Codex theresianus e successivamente del codice civile austriaco del 1811), ma anche alle donne toscane, passate dall’apertura della legislazione civile toscana alle “turqueries” del modello napoleonico, che concepisce gli stereotipi sociali della moglie contadina, oppure della moglie non lavoratrice del militare di carriera e del borghese possidente. Con l’unificazione, infatti, le donne (fatta eccezione per coloro che fossero «legalmente separate per colpa del marito», che questi fosse «minore, interdetto, assente o condannato a più di un anno di carcere, durante l’espiazione della pena», o esercitassero «la mercatura»8) erano in questa maniera parificate agli incapaci e, ai sensi dell’articolo 134 del codice Pisanelli, non potevano «donare, alienare beni immobili, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza lautorizzazione del marito» (la legislazione successiva specificherà che detta regola si estendeva altresì alla gestione di conti bancari)9.

Detta richiesta non venne tenuta in considerazione e così le donne sposate, per poter gestire i propri beni, dovettero chiedere il permesso del marito10.

Anche sul campo dei diritti politici si registra un peggioramento della condizione femminile. Mentre in Lombardia e in Toscana, la donna era ammessa al voto amministrativo possidente, col nuovo assetto unitario tutto ciò decade. In particolare, nel contesto lombardo le donne possidenti erano presenti all’assemblea generale della comunità, partecipando con elettorato attivo e passivo al voto per la Deputazione (organo esecutivo) e, riguardo alla Toscana, potevano votare le donne «iscritte nel catasto della possidenza rustica e urbana» per i consigli comunali e provinciali, anche se non personalmente, ma «per mezzo di procura o di scheda suggellata»11. La distanza tra queste posizioni e la disciplina introdotta al momento dell’unificazione si può cogliere, anche per il linguaggio adoperato, nella legge elettorale amministrativa del 17 marzo 1861, dove si prevede che «non possono essere elettori e eleggibili analfabeti, donne, interdetti, detenuti in espiazione di pena e falliti»12. Pertanto, la nascita del Regno d’Italia si apre con un’effettiva limitazione della libertà e dei diritti delle donne, mitigata da alcune aperture nei rapporti con i figli, sulla base del principio di piemontesizzare l’ordinamento, il quale si manifesterà altresì in altri ambiti13.

Fatta quindi eccezione delle donne sposate del Lombardo-Veneto, il codice Pisanelli, malgrado includesse l’autorizzazione maritale, migliorò d’altro canto lo status giuridico delle nubili o vedove, dato che fino a quel momento la maggioranza di queste necessitava del permesso di un familiare di sesso maschile e/o di un giudice per la gestione dei propri averi.

Così, a livello sociale, se da una parte, sin dalle prime fasi dell’elaborazione del codice civile del Regno d’Italia, vi era la presenza di attiviste come Anna Maria Mozzoni rivendicanti una maggiore emancipazione femminile14, dall’altra, la maggior parte delle donne aveva assimilato la concezione di dipendenza e subordine nei confronti dell’uomo. Ad alimentare questa condizione, sin dall’antichità, le teorie di scienziati, giuristi e moralisti, stabilendo un legame fra le caratteristiche fisiche e mentali delle donne, enfatizzavano presunte connotazioni femminili come la levitas, l’infirmitas e l’imbecillitas asserendo una condizione di inferiorità del sesso femminile. In questo modo, le donne non si potevano emancipare da ciò che era ritenuta la loro natura e il loro differente trattamento risultava pertanto legittimo secondo le prospettive giuridica e sociale15.

3. Dall’unificazione alla nascita della Repubblica

Effettuando un’analisi in chiave comparativa con gli altri ordinamenti, è possibile affermare che le novità apportate dai codici civili e dal diritto di famiglia in relazione alla condizione delle donne sono state complessivamente scarse. Numerose erano ancora le lacune: non vi era la separazione dei beni (diffusa nei Paesi anglosassoni), era ancora presente la rappresentanza legale del marito nei confronti della moglie; la gestione dei beni avveniva da parte del marito senza il consenso della moglie; non vi era la facoltà per la moglie di non seguire il marito, senza che questa dovesse fornire giustificazioni a un consiglio di famiglia composto da entrambi i sessi16.

La testimonianza delle donne era ancora generalmente vietata per la redazione dei testamenti. Tuttavia, nel XIX secolo, alcuni Stati iniziano ad apporre modifiche alla legislazione consentendo le donne come testimoni negli atti pubblici e privati: in Italia nel 1877, in Francia nel 1897, mentre in Spagna le donne sono testimoni ammissibili solamente in caso di epidemie e in Austria nella sola circostanza in cui ci si trovi in alto mare17.

Per quanto attiene all’istruzione, verso la fine del XIX secolo, quella elementare obbligatoria era ormai diffusa in tutta Europa18. A tale riguardo, degne di citazione, in Italia, sono il Regio Decreto Legislativo del 13 novembre 1859 n. 3725 del Regno di Sardegna, noto come Legge Casati, esteso dopo l’Unificazione a tutta la penisola, il quale istituisce un biennio di scuola elementare per entrambi i sessi, e la Legge Coppino del 1877, che eleva l’obbligo effettivo a tre anni19.

Solamente nel 1874 venne concesso alle donne di accedere ai licei e alle università, sebbene nei fatti le iscrizioni femminili continuarono ad essere respinte20. Nel 1900, risultarono comunque iscritte all’università in Italia 250 donne, 287 ai licei, 267 alle scuole di magistero superiore, 1178 ai ginnasi e quasi 10.000 alle scuole professionali e commerciali. Nel 1914 le iscritte agli istituti di istruzione media (compresi gli istituti tecnici) ammonteranno a circa 100.000. Tuttavia, il titolo di studio non sarà ancora in grado di garantire l’accesso alle professioni21.

Nel medesimo periodo venivano presentati diversi disegni di legge, fra i quali è possibile annoverare quelli di Bettino Ricasoli (1861), Ubaldino Peruzzi (1863) o Agostino Depretis (1880, 1882), per concedere alle donne il voto amministrativo, che tuttavia non ebbero alcun seguito22. Lo stesso esito ebbero i disegni di legge finalizzati ad estendere il voto politico, come quello di Salvatore Morelli nel 1867 e 1875 e di Roberto Mirabelli nel 190323. In epoca fascista, venne promulgata la Legge 22 novembre 1925, n. 2125 (Ammissione delle donne all’elettorato amministrativo) la quale tuttavia non venne mai applicata per via delle successive riforme che eliminarono de facto la rappresentanza popolare24 25.

Nella sostanza, tuttavia, le donne continuavano ad essere discriminate anche nel campo dell’istruzione per via delle difficoltà e dei costi legati alla predisposizione di sezioni separate per maschi e femmine. L’accesso delle donne alla scuola pubblica rimane limitato per molto tempo: la cultura dominante dell’epoca sosteneva che le donne dovessero acquisire conoscenze e competenze differenti da quelle dell’altro sesso, finalizzate maggiormente alla gestione della casa e della famiglia26.

Risulta di rilievo l’orientamento sotto il profilo penalistico della legge nei riguardi delle donne per la sua bivalenza, almeno fino alla seconda metà del XX secolo. Da un lato, la donna veniva ritenuta imputabile parimenti agli uomini e in grado di commettere crimini, sebbene con determinate attenuanti (degno di nota è il caso inglese fino al 1870, situazione nella quale è il marito a rispondere dei reati della moglie). Il principio dell’infirmitas sexus condiziona ancora la cultura giuridica del periodo: si discute infatti della presunta inferiorità delle donne (tesi all’epoca sorretta dal dibattito medico-scientifico) e pertanto dell’esigenze di disciplinare delle forme di attenuazione o di vera e propria esclusione dall’imputabilità. Dall’altro, i nuovi codici penali ribadiscono le presunte peculiarità della devianza femminile e perciò la concezione della donna come soggetto destinato alla funzione materna e familiare, disciplinando specificamente il controllo sul corpo femminile. Pertanto, se dal punto di vista normativo generalmente non vi sono delle differenze previste sulla base del sesso riguardo all’imputabilità e alla capacità, la cultura giuridica e criminologica maggioritaria sostiene l’esigenza di una diseguale considerazione delle donne dalla prospettiva processuale nonché del trattamento durante l’esecuzione delle pene.

In Italia, lo stupro (qualificato come delitto contro la moralità pubblica e il buon costume), il delitto d’onore (che prevede l’attenuazione della pena in ragione dell’impeto d’ira provocato dal disonore subito) e il matrimonio riparatore (che consente l’estinzione del reato qualora lo stupratore accetti di sposare la vittima) diventano dei nuovi istituti del codice penale. Ai sensi dell’articolo 350 del codice Zanardelli del 1889 si stabilisce, infatti, l’attenuazione di pena nel caso di violenze perpetrate a danno di una «pubblica meretrice», sancendo la tutela attenuata nell’ipotesi in cui la donna sia «di tutti», non appartenente ad alcuno, ad «ulteriore riprova della natura indiretta della tutela apprestata alla donna […J, che viene tutelata in quanto dipendente dall’uomo (padre o marito)»27.

Ciononostante, iniziano ad esserci dei tentativi al fine di frenare la violenza domestica.

I codici introducono il reato di «maltrattamenti in famiglia», a querela di parte: il codice penale italiano del 1889 e ancora prima il codice del Regno di Sardegna del 1839 all’art. 561 affermava che: «i cattivi trattamenti fra i coniugi quando siano gravi o frequenti saranno puniti con l’ammonizione, con comminatoria degli arresti in caso di recidiva»28.

Il volgere del nuovo secolo, in Italia, è testimone di un avanzamento in termini di acquisizione dei diritti. Nel 1902 viene approvata la legge sulla tutela delle lavoratrici madri29. Le radici del percorso che ha portato all’approvazione di tale disposizione affondano al congresso di Bologna del 1897, quando il partito socialista decise di promuovere la compagna per la legge di tutela. L’ordine del giorno venne proposto da Anna Kuliscioff, una delle principali attiviste del partito, da tempo sensibile alla situazione delle operaie. Questi poneva in risalto l’esigenza di organizzare le masse lavoratrici e, a sua detta, la legge di tutela doveva servire a tale fine. Il suo progetto di legge prevedeva: la riduzione della giornata lavorativa (meno di 48 ore settimanali), il divieto di lavorare in ambienti pericolosi o insalubri, il divieto del lavoro notturno, il congedo in caso di maternità per le quattro settimane precedenti e successive al parto, e garanzia, del 75% del salario. Questa tutela si sarebbe dovuta applicare non solo nelle fabbriche, ma anche nelle piccole officine, nel lavoro a domicilio, nel settore commerciale ed agricolo. All’epoca le operaie, in numerosi casi tessitrici o filatrici, non potevano occuparsi di altri lavori se non di quelli non qualificati e mancanti di organizzazione, e dovevano lavorare in misura maggiore rispetto agli operai. Per tale ragione molte di loro soffrivano di tubercolosi o di alcune malattie di natura ginecologico. Lo scopo della proposta della legge di tutela teneva altresì in considerazione tale contesto ed ottenne il favore dalla maggior parte delle associazioni operaie. Tuttavia, alcune attiviste del movimento femminile, dalla prospettiva dell’uguaglianza di genere, manifestarono la loro opposizione. Fra queste, vi era Anna Maria Mozzoni, la quale, ritenendo il diritto al lavoro quale elemento essenziale dell’emancipazione femminile, intuiva, dietro la tutela un’occulta intenzione di escludere la donna dal mondo del lavoro. Emilia Mariani, un’altra femminista di quegli anni, ammetteva l’esigenza della tutela, ma considerava maggiormente la parità del salario quale strumento maggiormente efficace per il miglioramento della vita delle lavoratrici. Di fatto le lavoratrici in quel periodo, anche se svolgevano il medesimo lavoro degli uomini, potevano guadagnare solamente la metà. Alla fine, si opterà per l’approvazione della legge Carcano, la quale non trovava applicazione nel settore agricolo, non stabiliva nessuna limitazione dell’orario lavorativo per le donne adulte, ma tutelava il riposo in caso di maternità, pur stabilire alcuna garanzia per il salario30 31.

Nel 1903, le associazioni femminili si riuniscono nel Consiglio nazionale delle donne italiane, affiliato all’International Council of Woman. Nel 1908 a Roma ha luogo il primo Congresso delle donne italiane che le consente di acquisire visibilità e credibilità sulla scena pubblica. Due anni più tardi, l’Unione femminile nazionale acquista a Milano un palazzo per aprire la Casa delle donne. Numerosi mutamenti sono da ricondurre altresì dall’ingresso di numerose delle donne alla professione dell’insegnamento, reso possibile dalla diffusione dell’istruzione femminile e dalle scuole unitarie. Le nuove maestre sperimentano metodi didattici innovativi e supportano le battaglie delle donne in campo politico32.

Un esempio emblematico di queste lotte è rappresentato dalla vicenda delle maestre marchigiane, le quali riescono ad ottenere una vittoria storica grazie alla sentenza emessa il 25 luglio 1906 dalla Corte d’appello di Ancona, dove si riconosce alle donne il diritto di voto grazie ad un’interpretazione estensiva del termine “regnicoli”, presente nello Statuto albertino e che indicava gli ammessi al suffragio. Tale sentenza verrà successivamente ribaltata dalla Cassazione, la quale nel 1906 ribadirà l’esclusione delle donne dall’esercizio di questo diritto, per motivazione di pace sociale e quiete familiare.

Importanti innovazioni giungeranno in seguito alla Prima guerra mondiale: la legge n. 1176 del 17 luglio 1919 riconosce alle donne la totale capacità giuridica, abolendo di conseguenza l’istituto dell’autorizzazione maritale e dunque la subordinazione legale della moglie negli atti economici.

In aggiunta, ai sensi dell’articolo 7, venne stabilito che: «Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento». Pertanto, non era ancora concesso alle donne di accedere ad alcune cariche, come quelle giuridiche e militari.

Tra il 1919 e il 1920 sono molte le donne che possono finalmente iscriversi agli albi dell’avvocatura. Per l’accesso alla magistratura bisognerà ancora attendere33.

È interessante porre in evidenza il fatto che, prima della legge 17 luglio 1919 vigeva il principio che la donna, incapace di regola nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico, non potesse, salvo che vi fosse espressa eccezione, coprire alcun impiego pubblico, né esercitare alcuna pubblica professione. Tuttavia, a prescindere dalle eccezioni legalmente consentite a questo principio, ciò era in realtà scarsamente applicato, con particolare riguardo alle professioni. Infatti, dato che le donne erano ammesse dai regolamenti scolastici a frequentare tutte le scuole e potendo quindi conseguire qualsiasi titolo di studio, si trovavano così nella facoltà di esercitare tutte le professioni per le quali non è richiesto se non il diploma о la laurea inerente. Ma anche nelle professioni il cui esercizio richiedeva l’iscrizione nell’albo dei Collegi od Ordini, gli organi direttivi delle singole corporazioni, in mancanza di un espresso divieto della legge, accoglieva generalmente nell’albo le donne che ne facevano domanda. Peraltro, queste non venivano impugnate. Di tutt’altro tenore erano invece i Consigli degli ordini degli avvocati e di disciplina dei procuratori, i quali, soprattutto in un primo tempo, si mostravano maggiormente restii nell’accoglierle. Ciononostante, in seguito, i medesimi Consigli, osservando ciò che avveniva per le altre professioni, finivano per iscrivere comunque le donne (nel 1883 il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Torino iscrisse una donna). Tuttavia, dato che la professione d’avvocato di svolge, più pubblicamente delle altre, sia perché l’ammissione di una donna all’avvocatura costituiva una novità e sia perché la l’attività forense risulta a contatto con gli organi del potere giudiziario alla cui sorveglianza è sottoposta, il caso accennato aveva suscitato moto rumore, così l’autorità giudiziaria, avvalendosi del suo diritto di controllo, aveva impugnato l’iscrizione che poi, tramite diverse vicende giudiziarie, era rimasta cancellata in maniera definitiva in seguito a sentenze della Corte di cassazione di Torino.

Pertanto, in merito alle professioni l’effettivo divieto aveva riscontro pratico solamente per l’avvocatura e il notariato, mentre per le altre non si è fatto altro che un tardivo riconoscimento de jure di uno stato di fatto preesistente34.

Con l’avvento del fascismo, le donne videro svanire le loro aspirazioni di emancipazione politico-sociale. Invero, in una prima fase, il regime si mostrò favorevole alle rivendicazioni femminili per ragioni propagandistiche, per poi fare un capovolgimento di fronte una volta che si è consolidato al potere.

A conferma di ciò, il programma dei fasci di combattimento del giugno del 1919 aveva chiesto il pieno diritto di voto per tutte le donne oltre i ventuno anni, con pari diritti di accesso alle cariche. Il fascismo, infatti, nella sua fase embrionale rappresentava una forza moderna e liberatrice da alcune donne, e a testimonianza di ciò vi era l’adesione al movimento da parte di diverse figure femminili prima del 192535.

Inoltre, ancora nel 1923 il governo Mussolini riprese quelle proposte di voto non politico alle donne che negli anni antecedenti non avevano completato il loro iter parlamentare36. Sulla base del testo proposto dal sottosegretario Acerbo, le donne scelte per meriti patriottici e per censo, avrebbero potuto far parte dell’elettorato benché solamente di quello attivo. Pertanto avrebbero goduto del diritto di voto, ma non costituendo parte dell’elettorato passivo, non avrebbero potuto ricoprire delle cariche. Detto progetto verrà trasformato in legge due anni dopo37.

Tuttavia, nel 1929, la legge sulla riforma podestarile abolì l’ordinamento elettivo per i comuni e le province, sicché nessun italiano, a prescindere dal genere, non avrebbe più esercitato il diritto di voto38 39.

Al netto delle posizioni iniziali, le politiche fasciste erano orientate alla discriminazione delle donne sotto i profili giuridici, lavorativi e politici. Per quanto concerne il primo di questi aspetti, il padre rappresentava, all’interno della famiglia, lo Stato, e analogamente alla legge romana, donava a questi un cittadino, il figlio, privo di libertà, dato che costituiva proprietà del padre. In merito al rapporto marito-moglie, il nuovo codice civile del 1942 affermava che il marito era il capo famiglia. In particolare, ai sensi dell’articolo 144 c.c., rubricato «Potestà maritale», si affermava che «Il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza»40. Inoltre, la sessualità fuori dal matrimonio era ritenuta un «delitto contro la moralità familiare», sebbene le norme riaffermassero la «doppia morale». A tale riguardo, l’adulterio compiuto dalla moglie, a differenza di quello del marito, era ritenuto un crimine (art. 559 c.p.), e puniva con la stessa pena «il correo delladultera»; si configurava reato da parte dell’uomo solamente dal momento in cui obbligava la moglie a vivere sotto lo stesso tetto con la sua amante (art. 560 c.p.). Perdipiù, per commettere adulterio, per la donna bastava anche solamente un incontro clandestino, mentre un uomo veniva accusato di concubinato solo nell’ipotesi di una relazione di lunga durata. In ultimo, ma non per rilevanza socio-giuridica, il marito poteva uccidere la moglie adultera, ma la medesima azione non era consentita dalla donna41.

Occorrerà attendere fino al 19 dicembre 1968, quando la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 126 dichiarava costituzionalmente illegittima la disposizione che prevedeva la reclusione fino a un anno della moglie fedifraga (pena estesa a due anni nell’ipotesi di relazione adulterina), affermando che se l’adulterio della donna «offende l’unità della famiglia», anche quello dell’uomo inficia quello stesso obiettivo, pertanto risulta illegittimo il reato di adulterio, irragionevolmente differenziato rispetto a quello di concubinato, il quale è stato a sua volta dichiarato illegittimo con la sentenza n. 147 del 196942 43.

La diversità di trattamento a livello giuridico tra uomo e donna in ambito affonda le sue radici dal codice napoleonico, ed era rilevante sia a fini civili (per la richiesta di divorzio, secondo il codice francese, per la separazione, secondo quelli unitari italiani) che penali. Malgrado l’obbligo di fedeltà gravasse su entrambi i coniugi, la violazione del medesimo avrebbe condotto ad esiti differenti. La spiegazione di ciò era la seguente: se è vero a livello morale il dolore fosse identico, a livello sociale era differente. L’adulterio della donna infatti risultava più grave per via delle implicazioni che esso poteva recare: il rischio era quello di introdurre nella famiglia legittima un figlio che non era di colui che agli occhi della legge si presupponeva padre. In aggiunta, il differente trattamento muoveva sulla concezione dominante che la donna infedele fosse maggiormente colpevole in quanto «dovendo essere più ritenuta dallo stesso pudore del suo sesso l’adulterio suppone in lei maggiore depravazione», recando offesa all’onore del marito44.

Il superamento di detta concezione è stato il risultato che si è affermato lentamente e che in Italia la Corte costituzionale realizzò solamente alla fine degli anni Sessanta (servirà attendere un ulteriore decennio prima dell’abolizione del delitto d’onore)45.

In relazione al profilo lavorativo, vennero presi una serie di provvedimenti mirati all’allontanamento della donna dal mercato del lavoro. Invero, tale processo iniziò prima dell’avvento del fascismo, in particolare nel 1919 attraverso la legge Sacchi del 17 luglio, con cui si affermò che le donne non potevano occupare posizioni dirigenziali nell’amministrazione pubblica. Tuttavia, tale processo non si fermò con questo provvedimento ma proseguì per tutti gli anni Venti: col regio decreto 2480 del 9 dicembre 1926, le donne persero il diritto all’insegnamento di filosofia, storia e letteratura italiana nelle scuole superiori, fatta eccezione per gli istituti magistrali dato che erano frequentati principalmente da donne. Il 28 novembre 1933 venne successivamente accolto un provvedimento con il quale si stabiliva che nel pubblico impiego gli uomini dovevano essere assunti in posizioni superiori rispetto a quelle delle donne. L’anno seguente 1934 venne approvata la legge con cui si esclusero le donne dalla posizione di segretario comunale per poi giungere, nel 1938, all’approvazione della legge con la quale si inserì il tetto del 10% dell’occupazione femminile nella pubblica amministrazione.

Pertanto, durante il ventennio, alle donne venne relegato il ruolo di madre, col primario fine di dare figli alla nazione. La centralità della questione dell’aumento della natalità era da ricondurre a due motivazioni: “mercantilistica”, poiché l’incremento demografico si sarebbe espressa in manodopera a buon mercato; e “imperialistica”, perché l’aumento della popolazione italiana avrebbe costituito una ragione di pretesa colonialistica e, al tempo stesso, avrebbe fornito la forza militare per conquistarle. Mussolini ripeteva frequentemente che se l’Italia non si fosse trasformata in un impero, si sarebbe ridotta a una colonia. Tuttavia, in tale maniera, la maternità sarebbe stata ridotta ad un mero atto fisico di generare bambini46. Sin dal principio, i timori del declino del tasso di natalità furono collegati alla minaccia dell’emancipazione femminile. La propaganda fascista costruì due immagini femminili: una era la donna-crisi, cosmopolita, urbana, magra, isterica, decadente e sterile; l’altra era la donna-madre: patriottica, rurale, florida, forte, tranquilla e prolifica. Dette figure in contrasto fra loro, non potevano non avere risonanza fra le donne47.

Per realizzare l’incremento demografico, il regime oscillava fra riforme e repressione, fra l’incoraggiamento dell’iniziativa individuale e l’offerta di concreti incentivi statali. L’ONMI (Opera Nazionale Maternità ed Infanzia), rappresentava perfettamente tale lato riformista: istituita il 10 dicembre del 1925 col vivace supporto di cattolici, dei nazionalisti e dei liberali, esso si occupava principalmente delle donne e dei fanciulli che non rientravano nelle normali strutture familiari.

Per stimolare le nascite vennero anche introdotte forme di esenzioni fiscali concesse ai padri con famiglie numerose a carico, congedi le previdenze statali in caso di maternità, prestiti concessi in occasione di nascite o matrimoni, nonché gli assegni familiari erogati ai lavoratori stipendiati e salariati. In relazione alle misure repressive si fece dell’aborto un crimine contro lo Stato, si mise al bando di controllo delle nascite, si censurò l’educazione sessuale e si introdusse una speciale imposta sui celibi48.

In sintesi, è possibile concludere asserendo che il patriarcato fascista fu il risultato di un’epoca in cui la politica demografica si identificava con l’espressione della potenza nazionale. Il fascismo fronteggiò la questione dalla prospettiva di una coalizione sociale conservatrice e nella cornice di strategie economiche che imposero pesanti oneri sulle risorse dei lavoratori e delle famiglie. Tramite il mercato del lavoro e le gerarchie d’autorità all’interno dell’unità familiare, il regime scaricò sulle donne il maggior onere possibile49.

Per quanto attiene ai diritti politici, il fascismo aveva negato alle donne il diritto di voto.

Sarà necessario aspettare fino al 1945 affinché il diritto di voto venga esteso alle donne, col decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 2 febbraio 1945 da parte del Governo Bonomi, il quale fu adottato in una seduta del Consiglio dei ministri in cui non si registrarono dissensi, né accese discussioni sul tema.

L’elemento da porre in risalto è che il decreto non prevedeva l’elettorato passivo, con la conseguenza che le donne non avrebbero avuto la possibilità di essere elette e ciò per via dell’eccesso di novità che avrebbe rappresentato la figura della “deputata”. L’omissione sull’elettorato passivo verrà sanata da un nuovo decreto del 10 marzo 1946, ma quello che occorre segnalare era l’esistenza di una categoria di donne che dal suffragio risultavano ancora escluse: le prostitute50, nello specifico quelle che esercitavano fuori dai locali autorizzati ma non quelle che lo fanno nelle “case chiuse”, distinzione in seguito cassata nel 194751.

4. Dalla Costituzione ad oggi

Si giunge così all’elaborazione della Costituzione Italiana. Essa segna un netto cambio di passo anche in tema di diritti delle donne, ponendosi in netta discontinuità52 con l’epoca fascista. Infatti, con la Costituzione la donna diventa soggetto titolare di specifici diritti, oltre che di specifici doveri. Nella rilevazione di una nuova piattaforma di diritti femminili innovativa e nella conseguente affermazione di principi all’avanguardia in tema di parità di genere, un ruolo di grande importanza venne rivestito dalle ventuno donne dell’Assemblea costituente, tutte accomunate dall’aver avuto un passato antifascista53.

Inoltre, grazie all’introduzione del suffragio universale, le donne vengono elette sindaco di diverse città nelle prime elezioni amministrative post-belliche54.

La Costituzione del 1948 prevede l’uguaglianza nell’accesso ai diritti e comprende il sesso fra i caratteri individuali che non devono essere all’origine di discriminazioni (art. 3). L’uguaglianza di trattamento fra i sessi viene ribadita in altri articoli inerenti al lavoro (art. 37), al diritto di voto (art. 48) e all’accesso ai pubblici uffici e alle cariche elettive (art. 51). A discapito di queste importanti norme costituzionali il percorso per il compimento dell’eguaglianza giuridica fra uomini e donne si rivelerà tortuoso, e prenderà forma gradualmente tramite riforme legislative e sentenze giurisprudenziali. L’affermazione de iure dei principi affermati dalla Costituzione (come l’uguaglianza) dovrà attendere numerosi anni prima che possa diventare de facto. Un esempio a tale riguardo è dato dall’accesso ai concorsi pubblici, dove sarà necessario attendere la sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 1960 che ne riconosce il diritto di partecipare (per l’accesso delle donne alla magistratura si dovrà attendere ulteriori tre anni, con l’introduzione della legge n. 66 del 9 febbraio 1963), oppure, in relazione al principio della parità dei coniugi, sancita dall’articolo 29, occorrerà aspettare la riforma del diritto di famiglia del 1975 e ancora due anni per la parità giuridica sul lavoro.

È infatti a cominciare dagli anni Sessanta che si dà il via ad una nuova era di riforme finalizzate a sancire l’uguaglianza tra i sessi dichiarata nella Costituzione in tutti i campi. Le battaglie dei movimenti femminili erano improntate a temi legati al divorzio, all’aborto, sulla parità in famiglia e sulle pari opportunità sul lavoro. L’obiettivo era di abrogare quelle norme che impedivano l’accesso delle donne ai diritti o ne sancivano un trattamento discriminatorio.

Successivamente si inizierà anche a parlare di tematiche più specifiche, prettamente femminili, come il diritto del lavoro sulla maternità, la priorità decisionale della donna sul proprio corpo fino ad arrivare a quelle che dispongono misure di sostegno alla presenza femminile in ambito pubblico e privato.

Nel 1958 venne approvata la legge n. 75, nota come «legge Merlin», recante l’«Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui». Tale norma dispone la chiusura delle c.d. “case chiuse” in cui le prostitute erano sottoposte a rigide regolamentazioni e controlli sanitari a tutela dei clienti. Occorre porre in enfasi il fatto che la disposizione non punisce la prostituzione in sé, bensì introduce nel codice penale i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione e abolisce il regime di limitazione della libertà personale che le donne subivano nei “casini”. Gli effetti di detta legge ebbero effetti importanti sotto l’aspetto sociale, fra cui la contestazione della rappresentazione delle donne come individui riducibili a oggetti funzionali alla soddisfazione dei desideri maschili nonché la legittimazione statale del commercio sessuale55.

Ma senza ombra di dubbio, quella che costituisce la battaglia più importante per le donne e gli uomini di attitudine laica e progressista è quella per il divorzio, che entra nell’ordinamento nel 1970 con la legge n. 898, detta «Fortuna-Baslini» dal nome dei suoi principali promotori. Quattro anni più tardi, tale legge venne sottoposta a referendum abrogativo, ma ciononostante i suoi promotori perdono. La loro sconfitta rappresenta il segno del fatto che la società italiana sta cambiando. Nel divorzio, viene vista la possibilità di affrancarsi di un onere da parte di quelle donne sottoposte a situazioni di assoggettamento avendo garantiti diritti sui figli e sui beni56.

Un’altra lotta particolarmente sentita in Italia è quella relativa all’aborto. Tuttavia, diversamente dagli altri Paesi occidentali, riveste una peculiare attenzione sia per la sfida all’autorità della Chiesa cattolica quanto per l’introduzione nella sfera pubblica di una tematica non ritenuta politica: l’intento è quello di sanare una situazione critica dato che l’interruzione di gravidanza viene praticata da tante italiane, tra uno e tre milioni, cagionando il decesso di 20 mila donne l’anno.

Nel 1971 comincia l’iter legislativo, transita attraverso sette anni e nove disegni e si conclude con l’approvazione della legge 22 maggio 1978, n. 194, nota come legge 194 (nel gennaio 1975 la Corte costituzionale depenalizza l’aborto terapeutico): la mobilitazione delle femministe è notevole in un paese che vede contro la legalizzazione, lo schieramento della DC, del Vaticano, del Movimento Sociale Italiano (e il medesimo PCI cambierà posizione); solo il Partito radicale sostiene apertamente il principio di autodeterminazione femminile. La legge concede l’interruzione di gravidanza a spese dello Stato entro i primi 90 giorni; resta illegale l’aborto presso strutture private; la gravidanza o il parto devono comportare seri percoli per l’incolumità psicofisica della donna, tenuta in considerazione la sua situazione socioeconomica e familiare, nonché delle circostanze in cui è avvenuto il concepimento; le stesse malformazioni del feto diventano ragione d’intervento; considerato che il personale sanitario ha la facoltà di dichiarare la propria obiezione di coscienza dinanzi al provvedimento, nel sud Italia, nel 1979, questa viene effettuata dal 79% dei medici. Nel mentre si sono mossi gli oppositori della legge e il 2 febbraio 1980 la formazione cattolica Movimento per la Vita presenta in Cassazione la richiesta di raccolta di firme per un referendum abrogativo di quella parte di testo che permette l’aborto altresì per fini non terapeutici ed elimina le sanzioni penali a chi pratichi interruzione di gravidanza: tale referendum, tenutosi nel 1981, subì una netta sconfitta, col 67,5% dei voti espressi a favore dell’aborto legale57.

Nel 1975, con la legge n. 151 del 19 maggio, si avvia la riforma del diritto di famiglia che stabilisce la parità giuridica fra i coniugi. Muta la concezione della concezione della famiglia: il marito padre non è più il capo (famiglia) bensì un componente fra gli altri. La moglie non è più obbligata a seguire il marito «dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza» ma questa la si stabilisce assieme e ognuno può avere un proprio domicilio. Entrambi i coniugi devono contribuire ai bisogni della famiglia e si introduce la comunione automatica dei beni. In aggiunta viene sancito che «il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo». La potestà sui figli non è più patria ma sono i genitori a decidere insieme e vengono abolite le discriminazioni fra figli legittimi e naturali, facendo sì che le madri nubili possano pertanto cercare e dichiarare la paternità dei loro figli.

A discapito di questi cambiamenti, restano tuttavia alcune norme pongono l’uomo in una posizione preminente. Infatti, ai sensi dell’articolo 316: «se sussiste un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili», la madre quindi non può farlo. Tale disposizione è rimasta in vigore fino all’introduzione decreto legislativo 154/2013, che ha determinato la transizione dalla “potestà” genitoriale alla “responsabilità” genitoriale58. Successivamente sono stati cancellati tutti i riferimenti normativi alla figura paterna nel codice civile ed è rimasta solamente la locuzione «diligenza del buon padre di famiglia» contenuta nell’art. 1176 inerente all’adempimento delle obbligazioni, rubricato «Diligenza nell’adempimento», al cui primo comma si legge: «Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia». Corresponsabilmente padri e madri hanno la stessa diligenza in modo che la figura paterna non venga ulteriormente esautorata o derubricata a livello familiare e sociale59.

Nel 1978 viene introdotta la legge n. 194 che disciplina l’interruzione di gravidanza, depenalizzandola e in questo modo sottraendola alla clandestinità: per la prima volta la donna può determinare una scelta sul proprio corpo assumendosi la decisione finale sulla maternità.

Gli anni Ottanta videro il diffondersi delle c.d. “azioni positive” 60. Si tratta di strumenti politici e giuridici volti a favorire un determinato gruppo sociale rispetto ad altri, la cui motivazione si basa sull’esigenza di porre rimedio a discriminazioni precedenti. Nella sostanza, erano una serie di norme che imponevano una percentuale di presenza di entrambi i sessi nei campi più disparati: liste elettorali, commissioni, al consiglio di amministrazione delle aziende e così via. Il criterio teleologico di tali strumenti normativi era da ricercare nel contrasto all’emarginazione sociale e culturale radicata delle donne e, con la loro introduzione, si andava a garantire la presenza femminile61.

A livello internazionale, nel 1979, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW), in cui si dichiara l’uguaglianza economica, sociale, civile e politica della donna e si sottolinea che qualsiasi forma di discriminazione ai danni delle donne costituisce una violazione dei principi di dell’eguaglianza dei diritti e del rispetto della dignità dell’uomo. In aggiunta, la Convenzione afferma che «tutti gli Stati parti prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne nella vita politica e pubblica del paese, ed assicurano loro il diritto a) di votare, b) di prendere parte all’elaborazione della politica dello Stato, […J; gli Stati parti prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne al fine di assicurare loro gli stessi diritti degli uomini per quanto concerne l’educazione […J; gli Stati parti riconoscono alla donna la parità con l’uomo di fronte alla legge […J.»62. L’Italia ha ratificato la Convenzione con legge del 14 marzo 1985, n. 132.

In ambito di violenza contro le donne, sopraggiungono diverse novità normative. Nel 1981, viene abolito altresì il matrimonio riparatore, che consentiva allo stupratore di evitare la condanna nell’ipotesi in cui avesse accettato di sposare la vittima, come risarcimento del danno arrecato (concepito questo quale onore violato della famiglia della donna)63. Nello stesso anno, viene abolita la norma sul delitto d’onore. Invero, con la legge 5 agosto 1981 n. 442 “Abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore”, lo Stato italiano si era limitato solamente nella cancellazione formale dall’ordinamento di quelle disposizioni che attribuivano giuridicamente la tollerabilità sociale della violenza di genere nei riguardi delle donne, abrogando le specifiche attenuanti dell’omicidio e delle lesioni, anche aggravate, ai danni della coniuge, della figlia o della sorella o di chi sia in illegittima relazione carnale con loro per «stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia» (articolo 587 c.p.)64.

A dimostrazione dell’atarassico approccio delle istituzioni, vi è altresì la testimonianza della deputata del PCI, Romana Bianchi, la quale affermò che tale disposizione «non venne percepita come il grande passo avanti che invece essa ha rappresentato», diversamente dalla legge sull’aborto o dalla conversione nel 1996 con la legge n. 66 della violenza sessuale da «delitto contro la morale» a «delitto contro la persona». A delineare maggiormente il contesto di questa disposizione, Bianchi aggiunse che «gli uomini, questa legge, l’hanno subita. È sempre sbagliato generalizzare dicendo “gli uomini” ma è innegabile che questa sia stata una delle leggi che hanno digerito peggio, che hanno dovuto accettare […J. Il delitto d’onore era considerato una faccenda intima fra coniugi, permaneva la cultura dei diritti delle donne subordinati a quelli maschili e si reputava che la violenza in famiglia andasse risolta in famiglia, senza che altri ci mettessero il naso. In Parlamento qualcuno avanzò l’obiezione che togliere il delitto d’onore significava immischiarsi tra moglie e marito», favorendo così il deterioramento dei costumi e gli adulteri65

Con l’abolizione del delitto d’onore si ha così la caduta de «l’ultimo sigillo del patriarcato»66 67.

Occorre comunque rammentare che già nel 1968 con la sentenza n. 126 della Corte costituzionale si dichiarava costituzionalmente illegittima la norma che puniva l’adulterio femminile68.

Fu solamente in seguito all’adozione del piano di azione a Pechino per mezzo della Quarta conferenza mondiale delle donne (4-15 settembre 1995)69, che il Governo italiano assunse l’impegno di concepire un’azione di prevenzione e repressione della “violenza nelle relazioni personali”, ponendosi quale scopo primario l’istituzione di un osservatorio permanente e l’introduzione legislativa di provvedimenti cautelari urgenti nelle situazioni di “violenza domestica”70.

Nel XX secolo a mutare è persino la concezione di intendere la criminalità femminile, per molto tempo trascurata. Infatti, nella seconda metà del Novecento, si supera la rappresentazione della donna quale soggetto incapace di commettere crimini e di tenere comportamenti devianti. Un esempio eclatante è dato dalle donne mafiose, in precedenza ignorate nei processi per mafia (poiché mogli, madri, figlie, sorelle dei mafiosi, ritenute esterne all’associazione) e in seguito vengono invece considerate responsabili dirette di azioni criminali e traffici illeciti.

Verso la fine del secolo emerge il problema del c.d. “tetto di cristallo”, una formula che indica la persistente difficoltà di accesso per le donne ai vertici delle organizzazioni pubbliche e private, finendo per rivestire, nella maggior parte delle situazioni, dei ruoli di gregari e non di responsabilità. In questo modo vengono adottate azioni positive che impongono, in vari campi, la presenza di quote del genere meno rappresentato, nel tentativo di agevolare nello specifico l’inserimento delle donne nei rami dirigenziali71.

Dopo diciotto anni dalla legge di iniziativa popolare72, tramite la legge 15 febbraio 1996, n. 66 recante «Norme contro la violenza sessuale»73, le fattispecie incriminatrici dell’offesa alla libertà sessuale sono state collocate finalmente fra i reati contro la persona. La prima riforma, espressione di un confronto con i centri antiviolenza femministi, fu la legge 5 aprile 2001, n. 154 recante le «misure contro la violenza nelle relazioni familiari» quali la misura cautelare dell’ordine di allontanamento dalla casa familiare (articolo 282-bis c.p.p.) e gli ordini di protezione dagli abusi familiari (Articolo 342-bis Codice civile). Nel corso degli anni sono seguite integrazioni e modifiche di diritto penale sostanziale e processuale attraverso decreti-legge e interventi conseguenti alla risonanza di casi di cronaca: il D.L. 23 febbraio 2009, n. 11 convertito dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, ha introdotto il reato di atti persecutori, configurato nel codice penale all’articolo 612-bis, la misura cautelare specifica del divieto di avvicinamento alla persona offesa (articolo 282-ter c.p.p.) e l’istituto precautelare atipico dell’ammonimento del Questore, coinvolgendo così le forze dell’ordine all’obbligo di informare le persone offese sui centri antiviolenza disponibili sul territorio.

In aggiunta, è stato previsto l’accesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato per tutte le persone offese dal reato di violenza sessuale a prescindere dalla situazione reddituale come mezzo per semplificare la facoltà per le vittime di avvalersi di una difesa tecnica con esperienza nel settore. Il D.L. 14 Agosto 2013, n. 93, convertito dalla legge 15 Ottobre 2013, n. 119, definita dalla stampa come legge “sul femminicidio”, costituisce la prima iniziativa assunta dopo la legge 27 giugno 2013, n. 77, di ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione e il contrasto della violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (di seguito Convenzione di Istanbul), che tuttavia non ha adempiuto subito, in maniera completa e coerente, gli obblighi che derivano dall’atto internazionale appena ratificato. In particolare, la legge ha introdotto modifiche sia al codice penale che al codice di procedura penale, estendendo l’ammonimento e introducendo il permesso di soggiorno per le vittime cittadine non europee di violenza domestica. Sono stati inseriti criteri di trattazione prioritaria dei procedimenti penali per i reati di maltrattamenti, atti persecutori, violenza sessuale e altri reati spia74.

La medesima Convenzione, inoltre, richiama la nozione di femminicidio definendola come «la morte violenta di una donna per motivi di genere, che avvenga nell’ambito della famiglia, di un’unione domestica o di qualsiasi altra relazione interpersonale, nella comunità, a opera di qualsiasi individuo, o quando è perpetrata o tollerata dallo Stato o da suoi agenti, per azione o omissione.»75.

Ratificata dall’Italia nel 2014, definisce la violenza contro le donne «una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondata sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione e la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata»76.

In seguito, viene approvata la legge 69/2019, definita “codice rosso” dalla stampa, mutuando l’espressione dalla denominazione dei percorsi di emergenza nell’accesso al pronto soccorso, in quanto avente il fine di accelerare nella trattazione dei procedimenti penali in materia (entro tre giorni dalla notizia di reato). Il medesimo strumento legislativo ha altresì esteso il novero dei reati coinvolti dalla trattazione accelerata in fase dibattimentale ai sensi dell’articolo 132-bis disp. att. c.p.p. con nuove fattispecie incriminatrici come il matrimonio forzato (articolo 558-bis c.p.), la deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (articolo 583-quinquies c.p.), la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (articolo 612-ter c.p.), la violazione delle misure cautelari e degli ordini di protezione (articolo 387-bis c.p.)77. In più, viene sancito che i minorenni che assistono ai maltrattamenti sono da considerarsi persona offesa dal reato, così codificando la c.d. “violenza assistita”. Gli interventi sul codice di procedura penale hanno lo scopo di evitare che eventuali stalli fra l’acquisizione della notizia di reato, la sua iscrizione e l’avvio delle indagini preliminari, possano determinare un ritardo nell’adozione di misure a protezione della persona offesa dai reati di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni aggravate commesse in contesti familiari o nell’ambito delle relazioni di convivenza. Gli interventi legislativi testé menzionati sono stati intervallati da altre iniziative le quali, malgrado non fossero esplicitamente dedicate alla questione della violenza di genere nei riguardi delle donne, hanno apportato importanti modifiche al diritto sostanziale penale e processuale in attuazione di obblighi internazionali78 e del diritto europeo79. Nel 2018, con la legge del 16 febbraio n. 4 sono state introdotte misure a sostegno dei figli orfani di femminicidio, e con la legge 7 Luglio 2016, n. 122, viene disciplinato l’indennizzo a favore delle vittime, a prescindere dalla residenza o meno in Italia, di reati dolosi commessi con violenza alla persona, nonché del reato di cui all’articolo 603 bis c.p. (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro), con l’esclusione dei reati di cui agli articoli 581 e 582 c.p. (percosse e lesioni), salvo che ricorrano le circostanze aggravanti di cui all’articolo 583 c.p..

Viene pertanto a realizzarsi così una cornice di interventi, principalmente di natura penale, con la formulazione di nuovi reati, un graduale incremento delle pene e declinazione ulteriore per mezzo delle circostanze aggravanti delle specificità delle condotte illecite.

Con la dianzi menzionata legge n. 69/2019 sono state altresì ridelineate le misure di prevenzione e misure di natura amministrativa, è stata prevista la sospensione della pena condizionata all’accesso a percorsi di recupero dedicati, e poi, tramite la riforma “Cartabia” sono state introdotte particolari disposizioni volte a garantire una tempestiva risposta del giudice civile finalizzata al principio della più estesa e veloce protezione nell’ipotesi di “allegazioni di violenza”80, in aggiunta alle ulteriori modifiche processuali penali, comprensive di istituti di giustizia riparativa, campo di indagine e riflessione ancora aperto, anche alla luce dei ritardi nell’implementazione del sistema di servizi necessari.

In ultimo, fra le novità legislative, vi è la legge n. 168/2023. L’obiettivo della norma è di garantire la speditezza della trattazione dei casi, l’adeguatezza della protezione prima, durante e dopo il procedimento penale, senza tuttavia trascurare le questioni attuative dei percorsi di recupero degli autori di violenza. Perdipiù, sono state introdotte indicazioni inerenti alla specializzazione degli uffici e alla formazione degli operatori, compresa la magistratura, in aggiunta alla facoltà di richiedere, se la vittima è in stato di bisogno, un’anticipazione dell’indennizzo a carico dello Stato81.

In relazione al ruolo delle donne della famiglia all’interno della Costituzione, vi è da menzionare l’art. 29, c. 2, il quale afferma che «Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare». Il criterio teleologico consiste pertanto nel ribadire chiaramente il principio di parità fra i coniugi. Detto principio non può tuttavia essere temperato al fine di assicurare l’unità della famiglia: questo implica che non è escluso che in determinate circostanza, in mancanza di consenso, e quando, per il bene della medesima famiglia, risulta comunque indispensabile una decisione, il legislatore individui delle modalità che permettano alla volontà di uno dei due coniugi di prevalere sull’altra. La regola della parità fra i coniugi è stata nondimeno interpretata per molto tempo in senso restrittivo: basti pensare che nel 1961, in ambito di adulterio, la Corte costituzionale bollava come legittima la disparità di trattamento istituita dall’art. 559 del Codice penale, che puniva l’adulterio della donna e non quella dell’uomo, osservando che «in conformità all’opinione comune», e in relazione «a valutazioni che si affermano imperiosamente nella vita sociale», l’adulterio della moglie «appare offesa più grave che non quella derivante dalla singola infedeltà del marito»82. Tale disposizione è stata tuttavia dichiarata incostituzionale nel 1968 con la sentenza n. 126.

In questo modo l’articolo 29 Cost. è rimasto pressoché inattuato per molti anni, specialmente per via delle disposizioni del Codice civile riguardanti il diritto di famiglia, rimaste inalterate sino alla riforma avvenuta con la legge n. 151 del 19 maggio 1975. Infatti quando la Costituzione entrò in vigore nel 1948, la normativa vigente definiva infatti il marito come capo della famiglia e parlava ancora di “patria” potestà, generando così un’antinomia col nuovo principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi. Gli artt. 143 e 144 del Codice civile, in attuazione della regola di parità contenuta proprio ai sensi dell’art. 29 Cost., prevedono invece che «con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri» e che «i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare».

Una disparità fra i coniugi che è attualmente presente è quella derivante dagli artt. 143 bis e 262 del Codice civile sulla regolamentazione del cognome della moglie e dei figli: la moglie aggiunge al suo il cognome del marito e i figli assumono il cognome del padre. Si tratta di una regola in apparenza difficile da motivare, persino alla luce dell’esigenza di identificazione unitaria della famiglia. In ottica comparativa, l’ordinamento spagnolo ha adottato un meccanismo differente che rispetta maggiormente il principio di parità. La disparità fra uomini e donne in ambito di acquisto e perdita della cittadinanza è venuta meno solamente tramite la legge n. 91 del 5 febbraio 1992: prima di questa data, malgrado alcune modifiche alla normativa risalente al 1912 adottate in seguito all’entrata in vigore della Carta costituzionale, lo Stato italiano sembrava considerare di secondo grado la cittadinanza della donna rispetto a quella dell’uomo: la donna italiana che sposava uno straniero poteva perdere la cittadinanza per rinuncia e non poteva trasmetterla nemmeno ad un marito interessato ad ottenerla, mentre il cittadino italiano che prendeva in moglie una straniera, non solo attribuiva automaticamente la propria cittadinanza alla moglie, ma non poteva rinunciare alla sua in favore di quella del coniuge83.

Le donne, in particolare nelle ultime decadi, hanno iniziato a rivestire ruoli sempre più rilevanti in politica, nel lavoro, grazie al riconoscimento di maggiori diritti. Con l’emancipazione femminile, la società occidentale è mutata radicalmente così la come la concezione di idea di famiglia, dove la donna non riveste più un ruolo subalterno bensì gode della potestà, esattamente alla pari marito, e perciò godei dei medesimi diritti e doveri del coniuge nell’educazione e controllo dei figli (art. 316 c.c.).

Oggi, la donna, dato che non viene più considerata quale proprietà del marito, non ha più l’obbligo di avere il medesimo domicilio (art. 45 c.c.) nonché la stessa residenza del coniuge (art. 144 c. c.) ed infine, alla morte del marito, le spetta la metà del patrimonio (art. 540 c.c.)84.

In ultimo, è rilevante segnalare l’integrazione dell’articolo 51 della Costituzione (avvenuto tramite la legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1), dove si afferma che «la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini»85.

Se in Italia il processo di emancipazione femminile nel corso degli anni ha ottenuto risultati straordinari, anche in ottica comparativa è possibile affermare che nella maggior degli Stati del mondo alle donne viene riconosciuta l’uguaglianza sostanziale con gli uomini sotto tutti i profili86.

Il ruolo dei trattati internazionali, come la CEDAW, firmato da 189 Paesi, rappresentano il simbolo dell’impegno di questi a contrastare la discriminazione femminile, ove si afferma, ai sensi dell’articolo 2 che «Gli Stati parte condannano la discriminazione contro le donne in ogni sua forma, convengono di perseguire, con ogni mezzo appropriato e senza indugio, una politica tendente ad eliminare la discriminazione contro le donne […]».

5. Considerazioni conclusive

Negli ultimi anni, nel campo degli interventi di promozione dei diritti e delle libertà fondamentali, è stata posta particolare attenzione a quelli di sostegno del principio della parità di genere in tutte le sue forme e attività87.

Dalla prospettiva della storia del diritto, ciò che è possibile affermare è che il percorso di emancipazione della donna in Italia è stato lungo e tortuoso. Mentre nel XIX secolo si assiste alla presenza di istituti che la ponevano in una condizione di soggezione, quali l’autorizzazione maritale, la mancanza della possibilità per la moglie di decidere di non seguire il marito, la mancata esistenza del diritto di testimoniare per la redazione dei testamenti, con la fine della Seconda Guerra Mondiale e il crollo del regime fascista, tutto ciò comincia a cambiare: le donne hanno visto riconoscersi un numero sempre maggiore di diritti, i quali in precedenza erano prerogativa esclusiva degli uomini, sino a giungere alla completa parità giuridica.

In ottica conclusiva, è utile andare ad indagare quali possano essere state le cause che hanno consentito tale processo di parificazione giuridica. Al netto di quelle storiche, già oggetto di trattazione e notevolmente affrontate dalla dottrina, l’analisi del percorso di emancipazione femminile in Italia hanno consentito altresì di porre in evidenza un ulteriore fattore, di matrice socioeconomica, che ha influenzato lo sviluppo delle libertà femminili. È possibile infatti osservare un legame fra l’evoluzione della condizione delle donne e l’adozione di politiche socioeconomiche orientate alla produzione e al mercato. Lo si può riscontrare in maniera particolare durante l’epoca fascista: se, in una prima fase, Mussolini aveva cavalcato gli ideali dell’emancipazione, questi ha tuttavia dovuto abbandonarli in favore delle esigenze delle politiche coloniali le quali, per la loro implementazione, necessitavano di un costante incremento demografico, con la conseguenza di indurre il legislatore ad adottare provvedimenti che finissero per relegare la donna a mera procreatrice di figli isolandola così nel suo contesto domestico. A conferma di ciò, vi è anche il fatto che un ritorno alle limitazioni delle condizioni giuridiche delle donne per quel che concerne l’ambito lavorativo lo si ha proprio con la Legge Sacchi del 1919, vale a dire prima dell’avvento del fascismo (che se da una parte aveva abolito l’istituto dell’autorizzazione maritale, dall’altra affermava che le donne non potessero occupare posizioni dirigenziali nell’amministrazione pubblica), e quando questo giunse al potere, ancora fino al 1925 si rese artefice di interventi legislativi in favore dell’estensione del diritto di voto delle donne, malgrado fossero solamente sulla base del merito e del censo. Ciò consente di comprendere come gli ideali politici cedano il passo alla rilevanza della determinazione della strategia della nazione (nel caso de quo indirizzata all’attuazione di politiche colonialiste espressione dell’imperialismo).

Pertanto, la definizione strategica della nazione orientata ad incrementare la popolazione ha innescato delle ricadute nella sfera giuridica delle donne, malgrado il medesimo Mussolini, in un primo momento della sua ascesa politica avesse tendenze di natura opposta.

Lo stesso processo ma in senso contrario è avvenuto successivamente quando, con la caduta del regime e l’abbandono delle politiche coloniali, unita alla graduale apertura ad un’economia di mercato (avvenuta soprattutto in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica), sommata alla crescente diffusione delle politiche liberiste (le quali hanno visto affermarsi in misura sempre maggiore il ruolo della produzione nell’economia e degli scambi commerciali, con la conseguenza di esigere una partecipazione alla forza lavoro sempre maggiore, facendovi così includere altresì le donne, e in misura sempre più elevata), si avviò il processo di emancipazione femminile.

In questo modo, l’importanza rivestita dall’esigenza della produzione combinata al contributo del legislatore nel corso degli anni finalizzato a migliorare la condizione femminile, sono stati dei fattori che si sono rivelati determinanti nel far sì che le donne potessero diventare sempre più emancipate ed indipendenti.

 

 

 

 

 

1 Parrilli Alessandra, I diritti della donna nella storia italiana, in “Cammino diritto”, 26 agosto 2015.
2 Si v. Alessandrini Alessandro, I fatti politici delle Marche dal 1 gennaio 1859 all’epoca del plebiscito, Libreria editrice Marchigiana, Macerata, 1910, p. 398; Danelon Vasoli Nadia, Il plebiscito in Toscana nel 1860, Olschki, Firenze, 1968, pp. 109-110; Meriggi Marco, Milano borghese. Circoli ed élites nell’Ottocento, Marsilio, Venezia, 1992, p. 199; Galeotti Giulia, Storia del voto alle donne in Italia. Alle radici del difficile rapporto tra donne e politica, Biblink, Roma, 2006, p. 25; Fruci Gian Luca, Cittadine senza cittadinanza. La mobilitazione femminile nei plebisciti del Risorgimento (1848­1870), in “Genesis”, V/2, 2006, 5.2, 2006, pp. 21-55; Fruci Gian Luca, ‘Alle origini del momento plebiscitario risorgimentale (1797-1870)’, in “Verso l’unità”. Conferenze e laboratori didattici organizzati con la collaborazione della Domus Mazziniana, Pisa, ottobre– novembre 2010, Pacini, Ospedaletto, 2011, pp. 43-56 (pp. 46-47).
3 Delmedico Sara, Da madri a cittadine. Le donne italiane dall’Unità alla Repubblica, in “The Italianist”, 2018, vol. 38, n. 3, pp. 301-309.
4 È interessante osservare la giustificazione socio-giuridica della prevalenza maschile: «La famiglia è per lo stato quello che è la cellula per l’organismo: è l’elemento essenziale dalla cui maggiore o minor consistenza e saldezza deriva la consistenza e la saldezza dell’organismo. Ciò ci è confermato costantemente dalla storia; perchè noi vediamo in ogni tempo ed in ogni luogo che il decadimento dei popoli, anche più ricchi e potenti, comincia proprio quando la struttura della famiglia diviene difettosa e la compagine di essa viene a mancare. Or se è necessario per supreme ragioni d’interesse generale mantenere salda l’unità della famiglia, bisogna bene attribuire ad uno dei suoi membri un potere prevalente, cioè il potere di dare a tutte le attività della famiglia stessa un indirizzo unico, perchè nessuno vorrà negare che, per aversi un aggregato di persone saldo e compatto, sia necessario fare in modo che, anche ammessa la più ampia libertà, una volontà sola abbia la prevalenza su tutte le altre in caso di dissenso tra i consociati. Si potrà dunque eventualmente discutere a chi debba spettare codesta prevalenza ed in tempi remoti, presso le remotissime genti barbariche, la preponderanza toccava alla donna (matriarcato); ma oggi la questione non è neppure da porre perchè da tempo immemorabile la famiglia riposa sul principio della prevalenza maschile. E la nostra legge non si limita a riconoscere indirettamente tale prevalenza; essa dichiara espressamente (articolo 131 c. c.) come primo canone delle regole su cui la società coniugale si basa, che il marito è il capo della famiglia, facendo poi discendere da tale principio l’obbligo della moglie di seguire il marito dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza; l’obbligo di assumerne il cognome e quello di seguirne la condizione civile.» Guida Erberto, La capacità giuridica della donna dopo la legge 17 luglio 1919 n. 1176 (continuaz. e fine), in “Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie”, 1920, n. 333-334, pp. 11-42 (18-19).
5 Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
6 Parrilli Alessandra, I diritti della donna nella storia italiana, in “Cammino diritto”, 26 agosto 2015.
7 Delmedico Sara, Da madri a cittadine. Le donne italiane dall’Unità alla Repubblica, in “The Italianist”, 2018, vol. 38, n. 3, pp. 301-309.
8 Si v. art. 135 c.c. 1865.
9 Rodotà Stefano, Diritti e libertà nella storia d’Italia. Conquiste e conflitti 1861-2011, Donzelli Editore, Roma, 2011.
10 Fugazza Mariachiara, Il lungo cammino dei diritti, in “La donna in Italia”, 1848–1914. Unite per unire, a cura di Bruni Emanuela, Foglia Patrizia, Messina Marina, Cinisello Balsamo, Silvana, 2011, pp. 67-78 (p. 67).
11 Galoppini Annamaria, Il lungo viaggio verso la parità. I diritti civili e politici delle donne dall’Unità ad oggi, Zanichelli, Bologna, 1980, pp. 3-12.
12 Tale principio è stato ribadito al momento dell’unificazione amministrativa: l’art. 26 dell’allegato A della Legge 20 marzo 1865, n. 2248, sanciva che: «Non sono né elettori, né eleggibili gli analfabeti, quando resti nel comune un numero di elettori doppio di quello dei consiglieri; le donne, gl’interdetti, o provvisti di consulente giudiziario; coloro che sono in istato di fallimento dichiarato, o che abbiano fatto cessione di beni, finchè non abbiano pagati intieramente i creditori; quelli che furono condannati a pene criminali, se non ottennero la riabilitazione; i condannati a pene correzionali od a particolari interdizioni, mentre le scontano; finalmente i condannati per furto, frode o attentato ai costumi.».
Lo stesso allegato viene altresì richiamato successivamente dall’art. 11 comma 1 della Legge 30 dicembre 1888, n. 5865
Cfr. Rodotà Stefano, Libertà e diritti in Italia: dall’Unità ai giorni nostri, Donzelli Editore, Roma, 1997, p. 21; Facchi Alessandra, Breve storia dei diritti umani, il Mulino, Bologna, 2007, p. 83; Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
13 Rodotà Stefano, Diritti e libertà nella storia d’Italia. Conquiste e conflitti 1861-2011, Donzelli Editore, Roma, 2011.
14 Si v. Anna Maria Mozzoni, La donna e i suoi rapporti sociali, Tipografia Sociale, Milano, 1864;
Mozzoni Anna Maria, La donna in faccia al progetto del nuovo Codice civile Italiano, Tipografia Sociale, Milano, 1865.
15 Delmedico Sara, Da madri a cittadine. Le donne italiane dall’Unità alla Repubblica, in “The Italianist”, 2018, vol. 38, n. 3, pp. 301-309.
16 Mozzoni Anna Maria, La donna in faccia al progetto del nuovo Codice civile italiano, Milano, Tipografia Sociale, 1865.
17 Arnaud-Duc Nicole, Le contraddizioni del diritto, in Duby Georges, Perrot Michélle (a cura di), Storia delle donne. L’Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 51-88 (p. 59).
18 Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
19 Delmedico Sara, Da madri a cittadine. Le donne italiane dall’Unità alla Repubblica, in “The Italianist”, 2018, vol. 38, n. 3, pp. 301-309.
20 In quel periodo storico destarono scalpore in particolar modo i casi di Lidia Poët e di Teresa Labriola. La prima, giovane valdese, domandò, sulla base dei requisiti richiesti dalla legge professionale del 1874, l’iscrizione all’Albo degli avvocati, che le fu concessa dall’ordine senza indugio. Tuttavia, tale decisione innescò una serie di tensioni e di reazioni destinate a coinvolgere non solo gli ambienti giuridici (con dimissioni e crisi all’interno dell’ordine, e ricorsi e appelli), ma anche il medesimo parlamento, tramite interrogazioni e interpellanze, oltre che tutta l’opinione pubblica. La corte d’Appello e la corte di cassazione, di comune accordo, annullarono infatti la sua ammissione all’ordine, e con motivazioni di natura extragiuridica, che sarebbero servite di base a tutti coloro che, negli anni a venire, si sarebbero ritrovati a respingere altri assalti degli innovatori, tanto nelle aule giudiziarie come in quelle del parlamento. Poët riuscì a ottenere l’iscrizione all’Albo degli avvocati di Torino solo nel 1920, in seguito all’entrata in vigore la legge Sacchi sulla capacità giuridica della donna (legge 17 luglio 1919 n.1176) che stabiliva, ai sensi dell’articolo 7, l’ammissione delle donne «a pari titolo degli uomini» ad esercitare le professioni e a ricoprire gli impieghi pubblici, ad esclusione di alcuni, come quelli inerenti alla difesa militare dello Stato. Analogo epilogo anche per Teresa Labriola, ammessa nel 1912 all’esame teorico-pratico di abilitazione all’esercizio della professione forense, dove conseguì l’attestato di idoneità, vide in un primo momento l’accoglimento della propria richiesta d’iscrizione all’Albo (fatto dal consiglio dell’ordine in virtù dell’incarico da lei espletato come libera docente di Filosofia del diritto all’università di Roma che implicava automaticamente detto diritto) per poi essere annullata nel 1913 da una sentenza della corte d’Appello in cui veniva sancito che, nell’ipotesi in cui le leggi tacevano, era perché sarebbe stata una «inutile proibizione» quella che riguardava funzioni a cui era «universalmente ammesso che la donna non potesse aspirare». La legge Sacchi risolverà anche la sua controversia.
Soldani Simonetta, Strade maestre e cammini tortuosi. Lo Stato liberale e la questione del lavoro femminile, in Nava Paola (a cura di), Operaie, serve, maestre, impiegate, Torino, Rosenberg & Sellier, 1992, p. 332.
Per la sentenza attinente al caso di Lidia Poët Cfr. Canosa Romano, Il giudice e la donna. Cento anni di sentenze sulla condizione femminile in Italia, Mazzotta, Milano, 1978; pp. 27-28.
Per la sentenza al reclamo proposto dal procuratore generale del Re contro la deliberazione del consiglio dell’ordine degli avvocati, favorevole all’istanza di iscrizione all’albo presentata da Teresa Labriola, emessa il 30 ottobre 1912 dalla corte d’Appello di Roma, Cfr. Ollandini Edoardo, La donna e l’avvocatura. Studio storico-giuridico sociale, Genova, L. Montani editore, 1913, pp. 319-326.
Gaballo Graziella, Donne a scuola. L’istituzione femminile nell’Italia post-unitaria, in “Quaderno di storia contemporanea”, n. 60, 2016, pp. 114-140.
21 Vicinelli Claudia, Il cammino delle donne nella società italiana. Il percorso contro la discriminazione e per la promozione delle pari opportunità, Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, 2017.
22 Si v. in proposito Isastia Annamaria La battaglia per il voto nell’Italia liberale, in Ferrari Occhionero Marisa (a cura di), Dal diritto di voto alla cittadinanza piena, Atti del convegno nazionale, Roma, 27-28 giugno 2006, Roma, 2008, pp. 31-51.
23 Galeotti Giulia, Storia del voto alle donne in Italia, I libri di Biblink, 2022, p. 37.
Su Salvatore Morelli, si v. Conti Odorisio Ginevra, Salvatore Morelli (1824–1880). Emancipazionismo e democrazia nell’Ottocento europeo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1993.
Su Roberto Mirabelli, si v. Lorelli Alfonso, Mirabelli Roberto, Lotte elettorali e pensiero politico di un grande repubblicano storico, Edizioni Erranti, Cosenza, 2016.
24 Nel periodo compreso tra 1926 al 1945, a seguito della promulgazione di due delle c.d. leggi fascistissime, ovvero della legge 4 febbraio 1926, n. 237 (“Istituzione del Podestà e della Consulta municipale nei comuni con popolazione non eccedente i 5000 abitanti”) e del regio decreto 3 settembre 1926, n. 1910 (“Estensione dell’ordinamento podestarile a tutti i comuni del regno”), gli organi elettivi dei comuni, vale a dire il sindaco, la giunta comunale ed il consiglio comunale, vennero soppressi, e tutte le loro funzioni vennero trasferite ad un singolo soggetto, il podestà, figura nominata direttamente dal governo attraverso regio decreto. Pertanto gli italiani cessarono di votare alle elezioni amministrative a partire da tale data (e quindi le donne, malgrado la legge che concedesse loro il diritto di voto alle amministrative, non eserciteranno detto diritto).
25 Delmedico Sara, Da madri a cittadine. Le donne italiane dall’Unità alla Repubblica, in “The Italianist”, 2018, vol. 38, n. 3, pp. 301-309.
26 Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
27 Virgilio Maria, La donna nel codice Rocco, in Pitch Tamar (a cura di), Diritto e rovescio. Studi sulle donne e il controllo sociale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1987, pp. 39-73 (p. 46).
28 Cavina Marco, Nozze di sangue. Storia della violenza coniugale, Roma-Bari, Laterza, 2011.
29 Cagnolati Antonella, Maternità militanti. Impegno sociale tra educazione ed emancipazione, Roma, Aracne, 2010.
30 Katsuta Yumi, La legge per la tutela delle lavoratrici in Italia (1883-1902), in “Studi Italici”, 1993, Volume 43, pp. 128-149.
31 Il criterio teleologico della norma era di assolvere una sua funzione specifica, differente da quella propria della protezione dei fanciulli, essendo la salvaguardia delle donne dal lavoro «essenzialmente diretta a preservare la loro capacità di procreazione».
Cfr.
Puccini Sandra, Condizione della donna e questione femminile (1892-1922), in “Problemi del socialismo”, n. 4, 1976, p. 17;
Galoppini Anna Maria, Il lungo viaggio verso la parità. (I diritti civili e politici delle donne dall’Unità ad oggi), Bologna, 1980, p. 46;
Ballestrero Maria Vittoria, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana sul lavoro delle donne, Bologna, 1979 p. 47;
EAD, Il diritto del lavoro e la differenza di genere, in “Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale”, II, 1998, p. 651;
Sostanzialmente, la regolamentazione legislativa della materia era sostenuta non tanto dall’opportunità di colpire lo sfruttamento delle donne e dei minori, bensì dall’esigenza di proteggere la stirpe nazionale, dai danni fisici e morali prodotti dal lavoro industriale. Nello specifico per le donne, la scelta d’intervenire proprio al momento della maternità non era da intendersi quale primo riconoscimento di un valore sociale di quest’ultima, bensì esprimeva l’intenzione di identificarle interamente con la loro funzione biologica.
Morello Maria, La maternità al centro delle prime forme di tutela della salute e della sicurezza delle lavoratrici, in “Olympus. Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro”, 15/2012.
32 Cagnolati Antonella, Maternità militanti. Impegno sociale tra educazione ed emancipazione, Roma, Aracne, 2010.
33 Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
34 Guida Erberto, La capacità giuridica della donna dopo la legge 17 luglio 1919 n. 1176, in “Rivista Internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie”, agosto 1920, Vol. 85, Fasc. 332 (Agosto 1920), pp. 260­275.
35 Sassano Roberta, Camicette nere: le donne nel ventennio fascista, in “El Futuro del Pasado”, nº 6, 2015, pp. 253-280.
36 Galoppini Annamaria, Il lungo viaggio verso la parità. I diritti civili e politici delle donne dall’Unità ad oggi, Zanichelli, Bologna, 1980, pp. 70-74.
37 Legge 22 novembre 1925, n. 2125.
Galoppini Annamaria, Il lungo viaggio verso la parità. I diritti civili e politici delle donne dall’Unità ad oggi, Zanichelli, Bologna, 1980, pp. 75-91.
38 Ballestrero Maria Vittoria, Dalla tutela alla parità. La legislazione italiana sul lavoro delle donne, il Mulino, Bologna, pp. 37-38.
39 Rodotà Stefano, Diritti e libertà nella storia d’Italia. Conquiste e conflitti 1861-2011, Donzelli Editore, Roma, 2011.
40 Art. 144 c.c., testo in vigore dal: 19-4-1942 al: 19-9-1975.
https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:regio.decreto:1942-03-16;262@originale
41 Sassano Roberta, Camicette nere: le donne nel ventennio fascista, in “El Futuro del Pasado”, nº 6, 2015, pp. 253-280.
42 Corte cost. 3 dicembre 1969, n. 147, in Foro it., 1970, I, 17, e in Giur. cost., 1969, 2230, con nota di Gianzi Giuseppe, e 2659, con nota di Carlassare Lorenza.
43 Navarretta Emanuela, Diritti delle donne e parità di genere. Gli itinerari tracciati dalla Corte costituzionale, in “Forum di Quaderni Costituzionali”, 2, 2023, pp. 201-216.
44 Demolombe Charles, Corso del codice civile, II, Domenico Capasso, Napoli, 1848, p. 427.
45 Garlati Loredana, Il delitto per causa d’onore. le istanze abolizioniste nel processo di formazione del codice penale del 1930, in Ruga Riva Carlo, Pecorella Claudia, Dodaro Giandomenico, Dova Massimiliano (a cura di), Riflessioni sulla giustizia penale. Studi in onore di Domenico Pulitanò, Giappichelli Editore, Torino, 2022, pp. 3­20 (pp. 5-6).
46 Passerini Luisa, Costruzione del femminile e del maschile, dicotomia sociale e androginia simbolica, Roma-Bari, Laterza, 1995.
47 Scaraffia Lucetta, Isastia Anna Maria, Donne ottimiste: femminismo e associazioni borghesi nell’Otto e Novecento, Bologna, Il Mulino, 2002.
48 Balzarro Anna, La storia bambina «La piccola italiana» e la lettura di genere nel fascismo, Roma, Biblioteca di storia moderna e contemporanea, 2007.
49 Sassano Roberta, Camicette nere: le donne nel ventennio fascista, in “El Futuro del Pasado”, nº 6, 2015, pp. 253-280.
50 Decreto legislativo Luogotenenziale 10 marzo 1946, n. 74 (in Suppl. alla Gazz. Uff., 12 marzo, n. 60), Art. 5, 10).
51 Severini Marco, Le fratture della memoria. Storia delle donne in Italia dal 1848 ai nostri giorni, Marsilio, Venezia, 2023.
52 Nardocci Costanza, Dall’invenzione della razza alle leggi della vergogna: lo sguardo del diritto costituzionale, in “Italian Review of Legal History”, n. 5/2019.
53 D’Amico Marilisa, Donne e Regimi. Differenti storie e tanti tratti comuni, in “Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società”, n. 1/2022, pp. 218-233.
54 Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
55 Niccolai Silvia, La legge Merlin eredità femminile da riconoscere, Milano, Libreria delle donne, 2018.
56 Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
57 Severini Marco, Le fratture della memoria Storia delle donne in Italia dal 1848 ai nostri giorni, Marsilio, 2023.
58 Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
59 Marzario Margherita, Codice civile della paternità, in “Diritto.it”, 05/07/16.
60 Le azioni positive, cui si richiama sin dal titolo la legge n. 125 del 1991, sono nate negli Stati Uniti, come affirmative actions, con riferimento anche alle donne, ma anzitutto alle minoranze afroamericane. Con tale espressione si comprendono tutti quei trattamenti preferenziali i quali, in deroga al principio di uguaglianza formale, possono essere accordati ai soggetti che appartengono ai gruppi che si trovano in una posizione di svantaggio a causa delle discriminazioni subite in passato. Fra questi rientrano le donne, dal momento in cui sono state approvate una serie di disposizioni orientate proprio per perseguire una parità de facto tra i generi. Il loro utilizzo si è diffuso, in particolar modo nel campo del diritto dell’Unione Europea e hanno trovato concreta applicazione nella legislazione comunitaria e in quella italiana, concentrandosi soprattutto nel settore del diritto del lavoro.
Burini Sofia, Le azioni positive di genere: introduzione e sviluppo delle affirmative actions, dal diritto statunitense all’ordinamento italiano, 2021.
Elisabetta Palici Di Suni, Mia Caielli, Diritti delle donne e della famiglia, C.I.R.S.De – Università degli studi di Torino, 2000.
61 Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
62 Parrilli Alessandra, I diritti della donna nella storia italiana, in “Cammino diritto”, 26 agosto 2015.
63 Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
64 Boiano Ilaria, Il quadro normativo italiano in tema di violenza nei confronti delle donne e violenza domestica a seguito della legge 24 novembre 2023, n. 168, in “Questione giustizia”, 11/04/2024.
65 Attanasio Debora, L’abolizione del delitto d’onore compie 40 anni, il ricordo delle parlamentari che lottarono per noi, in “www.marieclaire.it”, 16 giugno 2021.
66 Cavina Marco, Nozze di sangue. Storia della violenza coniugale, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 194.
67 Garlati Loredana, Il delitto per causa d’onore. le istanze abolizioniste nel processo di formazione del codice penale del 1930, in C. Ruga Riva, C. Pecorella, G. Dodaro, M. Dova (a cura di), Riflessioni sulla giustizia penale. Studi in onore di Domenico Pulitanò, Giappichelli Editore, Torino, 2022, pp. 3-20 (p. 4).
68 Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
69 Direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri, 27 marzo 1997 recante Azioni volte a promuovere l’attribuzione di poteri e responsabilità alle donne, a riconoscere e garantire libertà di scelte e qualità sociale a donne e uomini, in GU n.116 del 21-5-1997.
70 Boiano Ilaria, Il quadro normativo italiano in tema di violenza nei confronti delle donne e violenza domestica a seguito della legge 24 novembre 2023, n. 168, in “Questione giustizia”, 11/04/2024.
71 Facchi Alessandra, Giolo Orsetta, Una storia dei diritti delle donne, il Mulino, Bologna, 2023.
72 L’iniziativa fu del comitato composto da: Movimento di Liberazione della Donna, Unione donne italiane, Collettivo romano di via Pompeo Magno, effe, Noi donne, Quotidiano donna e Radio Lilith.
73 Virgilio Maria, Violenza sessuale e norma. Legislazioni penali a confronto, in “Quaderni di critica del diritto”, n. 5, 1997.
74 Boiano Ilaria, Il quadro normativo italiano in tema di violenza nei confronti delle donne e violenza domestica a seguito della legge 24 novembre 2023, n. 168, in “Questione giustizia”, 11/04/2024.
75 Di Nicola Travaglini Paola, Menditto Francesco, Codice rosso. Il contrasto alla violenza di genere: dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi Commento alla legge 19 luglio 2019 n.69, Giuffrè, Milano, 2020.
76 Volpato Chiara, Le radici psicologiche e culturali della violenza contro le donne, in Pecorella Claudia (a cura di), Donne e violenza. Stereotipi culturali e prassi giudiziarie, Giappichelli Editore, 2021, pp. 1-36.
77 Di Nicola Travaglini Paola, Menditto Francesco, Codice rosso. Il contrasto alla violenza di genere: dalle fonti sovranazionali agli strumenti applicativi Commento alla legge 19 luglio 2019 n.69, Giuffrè, Milano, 2020.
78 Per esempio, con la legge 1° ottobre 2012, n. 172, di ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa del 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale.
79 Si veda il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24 di attuazione della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime e il d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212 di attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
80 Razzi Lorenza, La violenza di genere e la violenza intrafamiliare: emergenze che esigono soluzioni. La Riforma Cartabia risponde con il rito speciale violenza, in “Rivista AIAF”, Fascicolo 3, 2023.
81 Boiano Ilaria, Il quadro normativo italiano in tema di violenza nei confronti delle donne e violenza domestica a seguito della legge 24 novembre 2023, n. 168, in “Questione giustizia”, 11/04/2024.
82 Sentenza della Corte costituzionale del 28 novembre 1961, n. 64.
83 Palici Di Suni Elisabetta, Caielli Mia, Diritti delle donne e della famiglia, C.I.R.S.De – Università degli studi di Torino, 2000.
84 Parrilli Alessandra, I diritti della donna nella storia italiana, in “Cammino diritto”, 26 agosto 2015.
85 Rodotà Stefano, Diritti e libertà nella storia d’Italia. Conquiste e conflitti 1861-2011, Donzelli Editore, Roma, 2011.
86 Parrilli Alessandra, I diritti della donna nella storia italiana, in “Cammino diritto”, 26 agosto 2015.
87 Camera dei Deputati, Servizi studi, XIX legislatura, Parità di genere, 8 marzo 2024.

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Lorenzo Marchetti

Professore abilitato all'insegnamento in Scienze giuridico-economiche (Cdc A-46), membro del Comitato Diritti Umani e Civili (XII Legislatura, Regione Piemonte) e consigliere comunale dal 2019 presso il comune di Basaluzzo. Laureato cum Laude in Scienze Politiche nel 2015 presso l'Università del Piemonte Orientale, con Magistrale a pieni voti in Relazioni Internazionali conseguita nel 2017 presso l'Università di Genova. Fra gli altri titoli culturali conseguiti si annoverano il Master di 1° livello in Didattica di Lingua italiana a stranieri (A.A. 2021/2022), il Master di 1° livello in discipline livello in "Discipline geografiche" (A.A. 2020/2021) e il Master di 1° livello in "Metodologie didattiche per l'integrazione di alunni DSA" (A.A. 2019/2020), tutti conseguiti col punteggio di 110/110.

Latest posts by Lorenzo Marchetti (see all)

Articoli inerenti