Liberalità atipiche e i mezzi di conservazione patrimoniale del disponente

Liberalità atipiche e i mezzi di conservazione patrimoniale del disponente

L’analisi dell’art. 809 c.c. mette in luce il principio secondo cui le liberalità rappresentano un genus commune,  nel cui alveo rientrerebbero non solo la figura della donazione (tipica) contrattuale, ma anche le cc.dd. liberalità atipiche (o donazioni indirette, volendo rievocare una figura non scevra di aporie interpretative in dottrina, quale quella del negozio indiretto): sarebbero così definite tutte quelle figure (negozi o anche atti materiali) che, attraverso uno schema tipico diverso rispetto a quello della donazione contrattuale propriamente detta, perseguono il medesimo obbiettivo, di cui all’art. 769 c.c., consistente nell’arricchimento di un soggetto (donatario) per spirito di liberalità e con conseguente depauperamento del disponente (donante).

E il diktat del suddetto articolo del Codice non sembra frapporre ostacoli ad annoverare tra le liberalità atipiche anche quegli atti che palesano l’animus donandi utilizzando strutture non negoziali. In tal modo si recepisce l’ orientamento di parte della dottrina che,  già sotto il vigore del Codice Civile del 1865, in mancanza di una norma ad hoc, propugnava tale assunto. L’avvento del Codice del 1942, con l’introduzione dell’art. 809, non solo dà corpo all’ orientamento in questione, ma  fa di più: nella contrapposizione tra i concetti  “ donazione” e “ liberalità”, dà a quest’ultimo un campo di maggiore estensione, tale da includervi anche le liberalità atipiche negoziali e non (<<Le liberalità anche se risultanti da atti diversi da quelli previsti dall’art. 769 […]>> ). Se liberalità atipiche negoziali sono definite, a titolo esemplificativo, istituti quali l’ adempimento del terzo (art. 1180 c.c.),  il contratto a favore di terzi (art. 1411 c.c.), la remissione del debito (art. 1236 c.c.), nonché la controversa ipotesi di acquisto con intestazione sotto nome altrui (al centro degli interessi, in dottrina e in giurisprudenza, soprattutto dal vigore del cd. Decreto Bersani del 2006 sulle modalità di pagamento nelle compravendite immobiliari), sono, invece, considerate liberalità non negoziali figure controverse: per citarne alcune, si ricordi la condotta di chi, con cognizione, costruisce un’opera con materiali propri ma sul fondo altrui, allo scopo di farne acquistare la proprietà al proprietario del fondo, in virtù del brocardo “ quidquid inaedificatur solo cedit” (a riguardo, si noti come un orientamento, in dottrina, riconosca la rinunzia all’indennità, di cui all’art. 936, 2° comma c.c., come atto negoziale e a questo collegherebbe l’effetto acquisitivo del dominus del fondo, ritenendo, perciò, il caso di specie una liberalità pur sempre atipica ma negoziale; di contro, una posizione più recente ravvisa, nella figura in esame, un acquisto ex lege ma ricondotto alla voluntas del disponente, rievocando lo schema del negozio con figurativo); la negotiorum gestio, laddove manchi un accordo tra gestito e gerente e sia palese l’animus gerendi aliena negotia di quest’ultimo; gli acquisti ex art. 179,1° c. lettera f c.c., in assenza della dichiarazione espressa (ma parte della dottrina ravvisa che, qui, l’arricchimento del coniuge in comunione sia da ricondurre non alla mancata dichiarazione, che è di scienza, ma all’atto di acquisto: perciò si tratterebbe di liberalità atipica negoziale); etc.

Sulla difficoltà di distinguere la figura della donazione “tipica” (diretta) da quella “atipica” (indiretta) e sui relativi tratti salienti – al fine di evitare indebite elusioni della legge, soprattutto per quanto riguarda il requisito della forma solenne richiesta dall’art. 782 c.c. per la donazione di cui all’art. 769 c.c. -, l’eco dell’autorevole pronuncia della Corte di legittimità in ordine alle  (non infrequenti nella prassi) ipotesi di trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario, a mezzo banca. A riguardo, la Suprema, nella sua formazione di Massimo Consesso (SSUU n. 18725/2017), ha specificato come l’ipotesi de qua non rientra tra le donazioni indirette, essendo, invece, una donazione tipica ad esecuzione indiretta, per la quale necessita la forma solenne dell’atto pubblico.

Riflettendo sulla ragione per cui l’Ordinamento richiede solo per la donazione tipica (eccezion fatta per quella di modico valore) la forma solenne dell’atto pubblico (id est, la necessità di tutelare il donante da scelte incaute), conviene sull’assunto per cui medesimo obbligo di forma non ricorra per la validità delle donazioni indirette, essendo bastevole l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato di volta in volta per realizzare lo scopo di liberalità.

Non potendo prescindere da un esame del caso in concreto, nella vicenda oggetto del giudizio dinanzi al Supremo Consesso, si è considerato tutti gli elementi di discrimen  delle liberalità non donative rispetto al contratto di donazione.

Ebbene, recependo l’insegnamento della migliore Dottrina, si è riflettuto sul fatto che la donazione indiretta non si identifica in toto con la donazione, giacchè si tratta di liberalità realizzabili con differenti modalità, il più delle volte diverse dal contratto (appunto, con strumenti “non negoziali”) o anche con l’utilizzo combinato di più negozi (secondo lo schema dell’ ”operazione/collegamento negoziale”). Tuttavia, la forma solenne della donazione ricorre, per lo più, nel caso di trasferimento – per spirito di liberalità – di ingenti valori patrimoniali.

Pertanto, secondo il Supremo Consesso, il trasferimento per spirito di liberalità, a mezzo banca, di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario, non può non considerarsi donazione tipica – seppur ad esecuzione indiretta – con tutte le implicazioni in ordine alla forma solenne richiesta dalla legge per questa operazione. E ciò perché l’operazione bancaria in adempimento dello iussum, costituisce la funzione esecutiva di un atto negoziale ad esso esterno, intercorrente tra il beneficiante e il beneficiario, il quale soltanto è in grado di giustificare gli effetti del trasferimento di valori da un patrimonio all’altro. Oltretutto, il trasferimento si realizza mediante un’attività di intermediazione gestoria della banca.

Riguardo l’individuazione dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale a favore del disponente, l’art. 809 c.c. costituisce, ancora una volta, il punto di partenza della disamina avente ad oggetto i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale a favore del disponente, nell’ambito delle liberalità atipiche non negoziali: le parole in esso contenute (<< Le liberalità […] sono soggette alle […] norme che regolano la revocazione delle donazioni […] nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni […]>> ), unitamente a quelle dell’art. 737 c.c. (<<I figli […] e i loro discendenti […] ed il coniuge […] devono conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione direttamente o indirettamente […]>>), prima facie, sembrerebbero alludere a dinamiche e ad effetti analoghi che tali istituti (cfr. azione di riduzione, collazione,revocazione) produrrebbero, sia con riguardo alle donazioni dirette che a quelle indirette. Ma la giurisprudenza di legittimità, in una recente pronuncia e consolidando un orientamento che già si era timidamente imposto in precedenza, ha sconfessato questa interpretazione, traendo giustificazione al ragionamento dalla riflessione circa l’oggetto degli atti liberali. Infatti, se nelle donazioni dirette si assiste ad una perfetta coincidenza tra l’oggetto del depauperamento del donante e quello della locupletazione del donatario, non così i  quelle indirette: con particolare riferimento alla figura dell’intestazione di beni sotto nome altrui, si è affermato che oggetto della liberalità deve considerarsi non il denaro fuoriuscito dal patrimonio del donante, quanto ciò di cui si è arricchito il beneficiario.

Attenendosi ad una logica non dissimile, perciò, Autorevole Dottrina ha affermato come non si possa applicare, ai casi suddetti, e con riferimento alle liberalità atipiche, una disciplina univoca, bensì un regime differenziato, a seconda della ratio sottesa agli istituti in esame. Nelle specifico, in materia di collazione, il cui fine è quello di ristabilire la parità delle quote fra eredi legittimari,  è stato osservato come oggetto della liberalità debba intendersi ciò di cui si è arricchito il donatario (altrimenti, il plusvalore del bene giunto al donatario andrebbe a suo esclusivo vantaggio); nel caso, invece, di azione revocatoria, esercitata ex art. 2901 c.c. dai creditori, oppure di revoca della donazione per sopravvenienza di figli, il donatum corrisponderebbe all’oggetto del depauperamento del donante. Nel caso di revoca per ingratitudine o azione di riduzione, sarà quanto ricevuto dal donatario l’oggetto della liberalità.

Con riferimento all’azione di riduzione, quindi, si noti la sua natura di impugnativa negoziale, qualora fosse orientata verso una donazione diretta: in tal caso, essa mirerebbe all’ottenimento di una sentenza costitutiva, volta a rendere inefficace retroattivamente il titulus adquirendi, alla cui formazione hanno contribuito donante e donatario e, così, eliminata la giustificazione causale allo spostamento patrimoniale, il donatum rientrerebbe nella sfera giuridica del donante e sarebbe, per ciò stesso, assoggettato alla successione legittima. Nell’ambito della donazione indiretta (laddove c’è discordanza tra l’oggetto del depauperamento e quello della locuplutazione), invece, il donante è estraneo alla formazione del titolo d’acquisto, cui concorrono alienante e donatario: perciò, ponendo nell’inefficacia la liberalità, il bene ritornerebbe all’alienante e l’esperimento dell’azione risulterebbe non fruttuoso per il legittimario. Di qui, da un verso, si è ipotizzato un effetto traslativo, prodotto dalla sentenza di inefficacia del titulus, che collocherebbe il bene direttamente nella sfera giuridica del legittimario (ma con il ricorso al dettato normativo dell’art. 2652 n.2 c.c., per la risoluzione di conflitti tra più aventi causa dal medesimo autore); dall’altro, invece, si è ritenuto che l’azione di riduzione colpisca l’accordo tra donante e donatario, rendendo inefficace e privo di giustificazione causale l’arricchimento del donatario, in capo al quale, perciò, nascerebbe un’obbligazione ex lege restitutoria non del bene (che, seguendo il ragionamento prima esposto, dovrebbe rientrare nel patrimonio dell’alienante), bensì del valore dell’arricchimento, ricorrendo le condizioni di cui all’art. 2041 c.c. .

La tesi fin qui esposta ha trovato il favor della giurisprudenza di legittimità in una recente pronuncia, concernente la controversa figura dell’intestazione di beni sotto nome altrui. In questo caso, oggetto della liberalità è considerato non il denaro fuoriuscito dal patrimonio del donante, ma il bene acquistato dal donatario e l’esercizio dell’azione di riduzione non  soggiace al principio della quota legittima in natura, secondo l’antico brocardo “resoluto iure dantis resolvitur et ius accipientis”, come ricorre in caso di donazione diretta, seguendo il dettame degli artt. 561 e 563 c.c.: ne deriverebbe, a carico del beneficiario, un’obbligazione restitutoria del valore di mercato dell’investimento ricevuto, secondo le forme del diritto di credito, con la conseguenza che, in caso di fallimento del donatario, il legittimario avanzerà la sua pretesa con domanda di ammissione al passivo, ai sensi delle norme della legge fallimentare. L’orientamento confermato dalla Corte manifesta due esigenze: da un lato, la tutela dei legittimari e dall’altro la libera circolazione di beni. La prima esigenza trova conferma nell’idea secondo cui la vocazione legittima è il titolo legale che giustifica l’azione di riduzione, assolvendo ad una funzione non dissimile da quella assolta dal procedimento di esecuzione forzata innescato dai creditori, che abbiano esperito vittoriosamente l’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. .Ciò rappresenta un giusto compromesso, secondo Autorevole Dottrina, tra la libertà del donante di disporre dei suoi beni e la tutela degli eredi legittimari. La seconda esigenza tutela i terzi aventi causa, che, mancando l’expressio causae nella liberalità atipica, non potrebbero venire a conoscenza dell’origine del loro acquisto, neppure tramite i Registri Immobiliari: perciò, ammettendo la tutela restitutoria reale, costoro non vedrebbero mai consolidato il loro acquisto, sempre esposto ad azioni di tal tipo e ne deriverebbe nocumento alla libera circolazione dei beni.

L’impostazione consolidata dalla giurisprudenza della Corte della Cassazione in tema di liberalità atipiche, quindi, allontana l’idea di perfetta omologazione tra donazioni dirette ed indirette,  quale sembrerebbe evincersi da una superficiale lettura delle norme codicistiche, soprattutto sotto il profilo dei mezzi di conservazione patrimoniale a tutela del disponente: con riguardo all’esercizio dell’azione di riduzione avverso liberalità atipiche, la non operatività della tutela restitutoria reale, supportata dalla logica considerazione della non corrispondenza tra l’oggetto del depauperamento con quello della locupletazione, garantisce la libera  circolazione dei beni, evitando conflitti in ordine ad acquisti fatti da terzi, dal momento che l’oggetto della liberalità rimane inamovibilmente nella sfera giuridica del beneficiario o, nel caso di successive traslazioni, in quella dell’ accipiens, residuando, in capo al beneficiario, solo un’obbligazione restitutoria del valore dell’arricchimento ricevuto (giacchè privo di giustificazione causale), in seguito al fruttuoso esperimento dei mezzi di tutela giurisdizionale.

Di qui, la considerazione, cui la giurisprudenza giunge, di una  expressio causae, data l’esclusione dell’operatività del principio della quota legittima in natura, che possa essere fatta contestualmente, ma anche successivamente dal donante, come atto unilaterale ricognitivo, ma non accertativo: un negozio accertativo e, perciò, con effetto preclusivo, potrebbe, infatti, provenire soltanto da entrambe le parte protagoniste dell’atto liberale (rectius, donante  e donatario).


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Avv. Concetta Tenneriello

Laureata nel 2010 a pieni voti assoluti presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II” con tesi in Diritto Processuale Civile, dopo aver conseguito il diploma di specializzazione presso la “Scuola di Specializzazione per le professioni legali”, ha continuato a coltivare gli studi non solo nel diritto civile, ma anche nel diritto penale e amministrativo abilitandosi alla professione legale dal 2013. Avvocato iscritto dal 2015 presso l'Ordine degli Avvocati di Verona, esercita la professione legale, collaborando con vari studi presenti sul territorio nazionale e vantando, altresì, una collaborazione con l'autore nella stesura del libro “Il contratto di franchising” edito nel 2016 da “Giuffrè Editore – Temi di diritto privato e di diritto pubblico (collana diretta da Guido Alpa)”.

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