Libertà di manifestazione del pensiero e pubblicità a sfondo sessuale

Libertà di manifestazione del pensiero e pubblicità a sfondo sessuale

Per attirare potenziali clienti, sempre più spesso le imprese lanciano delle campagne pubblicitarie con forti richiami sessuali. È possibile considerare tale tipo di pubblicità contraria all’art. 21 Cost.? E in quali casi?

La pubblicità è, allo stato attuale, un’insostituibile strumento di promozione commerciale che si proietta al consumo di massa e che trova come supporti ideali i grandi mezzi di comunicazione. Utilizzare la pubblicità è diventato un indispensabile investimento di cui le imprese devono farsi carico, e d’altro canto esso si traduce in una entrata vitale per i media. Ciò, ha però, nel tempo, prodotto delle conseguenze sulla stessa autonomia dei mezzi di comunicazione.

La pubblicità, pertanto, si presenta come un fenomeno complesso, che nasce da esigenze soprattutto commerciali, indubbiamente legittime, anche se spesso i suoi contenuti superano la funzione propriamente economica alla quale è destinata, finendo per divulgare messaggi di natura sociale, culturale, morale, attraverso immagini e linguaggi che provocano, eccedono e spesso ledono il buon costume.

La prima difficoltà riguarda il rapporto comunicativo che il messaggio pubblicitario instaura con il destinatario, una relazione spesso squilibrata, poiché avendo lo strumento carattere collettivo, effettua comunicazioni di massa che vengono recepite da un pubblico variegato. Esso, avrà, dunque, una incidenza differente a seconda dei valori e dei principi di cui i destinatari si fanno portatori; a ciò si aggiunge il fatto che i messaggi pubblicitari, ed in particolare la pubblicità radiotelevisiva e le affissioni, non hanno carattere selettivo.

Va da sé, dunque, che le diverse forme di comunicazione siano necessariamente soggette alle responsabilità sociali dell’impresa, anche in relazione agli effetti sociali, oltre che all’efficacia in termini economici.

Lo scopo imprenditoriale perseguito da tale forma di comunicazione ha un incerto inquadramento costituzionale, in quanto esso è stato considerato ora come una particolare forma di manifestazione del pensiero disciplinata dall’art. 21 Cost., ora come strumento per lo svolgimento di un’attività commerciale, e come tale da valutare ai sensi dell’art. 41 Cost., con la possibilità di applicare limitazioni consentite da tale norma[1].

Su tale tema, altamente dibattuto in dottrina, si è espressa anche la Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 68 del 1965 ha respinto la questione di legittimità costituzionale della disciplina che subordinava la pubblicazione dei prezzi e delle caratteristiche degli alberghi alla preventiva approvazione dell’Ente provinciale per il turismo. Con tale sentenza la Corte ha classificato la pubblicità come “svolgimento di attività economica”, facendola rientrare, dunque, nel dettame normativo dall’art. 41 Cost., e non come manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost. In questa prospettiva la Corte ha ritenuto opportuno tutelare le “esigenze di protezione della fede pubblica, nel quadro generale degli interessi del turismo” disponendo un controllo preventivo previsto in forza dell’art. 41 Cost.

Tale controllo, secondo la Corte, “non incide assolutamente nella particolare garanzia costituzionale posta a difesa della stampa di cultura, di opinione, d’informazione dal secondo comma dell’art. 21 della Costituzione”. La Corte costituzionale ha, in definitiva, operato una esclusione fondata sul fine economico perseguito, pertanto l’informazione finalizzata al consumo resta esclusa dalle garanzie previste dall’art. 21 Cost.[2].

Questo orientamento è stato poi confermato dalla successiva sentenza n. 231 del 1985. Con tale pronuncia la Corte ha effettuato una distinzione tra le manifestazioni del pensiero soggette all’art. 21 Cost. e la pubblicità commerciale “considerata una componente dell’attività delle imprese, come tale assistita dalle garanzie di cui all’art. 41 Cost., e assoggettabile, in ipotesi, alle limitazioni ivi previste al secondo e terzo comma”. Considerato, dunque, che “la pubblicità commerciale costituisce attività di impresa”, essa dovrà essere soggetta a limitazioni più serrate di quelle previste dall’art. 21 Cost.

L’art. 41 Cost., dopo aver stabilito che l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, consente al legislatore di introdurre “i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Gran parte della dottrina condivide l’inquadramento della pubblicità commerciale nel campo di applicazione dell’art. 41 Cost., anche alle luce dei numerosi limiti che ne seguono, i quali “non si giustificherebbero in toto sul terreno della libertà di manifestazione del pensiero”. Difatti, solo attraverso tale inquadramento sarebbe possibile assoggettare questo sistema ad autorizzazioni o a sistemi di censure preventive, che invece non sarebbero ammissibili “se il diritto alla comunicazione pubblicitaria potesse inquadrarsi in quello di libera espressione del pensiero sancito dall’art. 21, il quale per contro esclude la possibilità di qualsiasi autorizzazione o assenso preventivo[3].

Tuttavia, non mancano opinioni discordanti secondo le quali anche quella commerciale è una forma di comunicazione che deve essere inquadrata nell’ambito dell’art. 21 Cost., il quale non opera alcuna distinzione in relazione alla natura dell’informazione. Del resto la stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 826 del 1988, in materia di pubblicità radiotelevisiva, ha riconosciuto che l’informazione, tutelata dall’art. 21 Cost., deve essere intesa “in senso lato ed onnicomprensivo, così da includervi qualsiasi messaggio televisivo, vuoi informativo, vuoi culturale, vuoi comunque suscettibile di incidere sulla pubblica opinione”. Più corretta è dunque l’impostazione secondo cui la comunicazione commerciale rientri nel campo di applicazione dell’art. 21. Tale inquadramento è, del resto, condiviso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nonché dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America[4].

L’art. 21 della Costituzione italiana sancisce e difende la libertà di espressione e di informazione. Tali libertà, in particolare quella di espressione, rappresentano le condizioni base per il progresso delle società democratiche e per lo sviluppo dei singoli cittadini. Questo articolo si apre con la decisa e inequivocabile affermazione che tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Nei commi successivi viene stabilita una serie di garanzie per il mezzo della stampa, la quale viene sottratta a qualsiasi forma di controllo – autorizzazioni o censure – ad eccezione del sequestro disposto mediante un atto motivato dell’autorità giudiziaria. Tuttavia, al quarto comma del suindicato articolo è stabilito che la polizia giudiziaria, in caso di assoluta urgenza, può procedere al sequestro della stampa periodica, ma tale sequestro è valido in un lasso di tempo limitato, difatti è espressamente richiesta la convalida dell’autorità giudiziaria.

Vi sono, infine, il quinto e il sesto comma, che prevedono la possibilità per la legge ordinaria di imporre la pubblicità dei mezzi di finanziamento della stampa periodica. Dunque, se è vero che la libertà di manifestazione del pensiero, enunciata nell’art. 21 della Cost., non può essere limitata se non nelle disposizioni legislative finalizzate a garantire beni ed interessi meritevoli di tutela costituzionale, è altrettanto vero che di rilevante importanza è il limite posto alla stessa, contemplato nel sesto comma dell’articolo in questione e cioè il “buon costume”.

Sulla nozione di “buon costume”, si è espressa la Corte con sentenza n. 9 del 1965, affermando che «il buon costume risulta da un insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei quali comporta in particolare la violazione del pudore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell’ambito della famiglia, della dignità personale che con esso si congiunge, e del sentimento morale dei giovani, ed apre la via al contrario del buon costume, al mal costume e, come é stato anche detto, può comportare la perversione dei costumi, il prevalere, cioè, di regole e di comportamenti contrari ed opposti».[5] Così definito, il concetto di buon costume, finirebbe col coincidere con la nozione penalistica di cui all’art. 529 del codice penale secondo cui: si considerano “osceni” gli atti e gli oggetti, che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore (esclusa l’opera d’arte e scientifica, in richiamo all’art. 33 Cost.).

Utilizzando nozioni  come  “pudore” e “buon costume”, si adotta una terminologia generica suscettibile di molteplici interpretazioni. Tale aspetto che potrebbe, da un analisi superficiale, risultare negativo, in realtà presenta un elemento di grande positività, infatti l’ utilizzo di un concetto di vasta portata consente alla giurisprudenza di progredire in considerazione dell’evoluzione della sensibilità collettiva. Basti pensare alla pronuncia della Corte Costituzionale del 19 febbraio 1965, n.9, riguardante il delitto di incitamento a pratiche contro la procreazione, nella quale la questione di incostituzionalità è stata dichiarata non fondata dalla Consulta, la quale ha successivamente ritenuto (Corte  Cost. 16 marzo 1971, n. 49) che nella condotta incriminata non si ravvisasse più pericolo data l’evoluzione della sensibilità collettiva sul tema.

È importante a tal proposito un ulteriore approfondimento circa il concetto di “pubblica decenza”, come definito dalla Cass. penale, sezione III, 30 ottobre 1996, n. 9685, “al limite mobile”, nel senso che ciò che è reputato decente secondo una comunità di consociati, muta nel corso del tempo, cambia non solo con il mutare degli individui e delle generazioni, ma delle idee, dei sentimenti e della cultura di un popolo.[6]

La Corte precisa, infine, che tale relatività non impedisce di dare un significato sufficientemente determinato al termine in questione, essendo questo un concetto estremamente diffuso e utilizzato ed aggiungendo che in un determinato periodo storico si sia “in grado di valutare quali comportamenti debbano considerarsi osceni secondo il comune senso del pudore, nel tempo e nelle circostanze in cui si realizzano” (sentenza n. 191 del 1970).

Nell’interpretazione costituzionale prevalente il concetto di buon costume è meglio riferito al complesso di regole che l’opinione pubblica riconosce valide, in un determinato contesto storico, al fine di proteggere la convivenza contro offese alla morale sessuale, alla pubblica decenza, al comune senso del pudore (Corte Costituzionale, sentenze del 4 Febbraio 1965, n. 9; del 21 Novembre 1968, n. 120; del 10 Marzo 1971, n. 49; del 24 Novembre 1988, n. 1063) e garantire nella convivenza i principi costituzionali inviolabili della tutela della dignità umana e del rispetto reciproco tra le persone.

Oltre al limite esplicito del buon costume, la Corte individua anche limiti impliciti alla libertà di manifestazione del pensiero, in particolare con sentenza della Corte n. 20/74[7], si evidenzia che oltre al buon costume, è opportuno valutare la necessità di tutelare beni parimenti riconosciuti dalla Costituzione meritevoli di tutela  e pertanto limitativi della libertà in questione. A tal proposito ricordiamo la sentenza n. 9/65 della Corte costituzionale, la quale ribadisce che: “limitazioni sostanziali al 21 non possono essere poste se non per legge (riserva assoluta di legge) e devono trovare fondamento in precetti e principi costituzionali.”  Ai fini della nostra indagine è opportuno riportare una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 20 del 1974, con la quale si è stabilito che l’indagine deve essere proiettata ad individuare il bene protetto e contestualmente accertare se questo sia o meno considerato dalla Costituzione in grado di giustificare una disciplina che limiti la libertà di stampa.

Un eventuale conflitto potrà essere risolto a seguito di un giudizio di “bilanciamento”, fondato sul principio di ragionevolezza, cioè bilanciare i due valori contrapposti e stabilire quale di essi e in che misura prevarrà sull’altro. Tale valutazione dovrà essere necessariamente lasciata ad una previsione del legislatore, ma pur sempre sottoposta al controllo della Corte[8]. Bisogna tener conto che l’interprete della Costituzione, insieme con il legislatore in sede di attenuazione del bilanciamento dei valori costituzionali, attraverso le proprie scelte discrezionali deve attenersi all’imprescindibile criterio secondo cui, poiché “la Carta fondamentale accoglie e sottolinea il principio (…) per il quale il di più di libertà soppressa costituisce abuso”, ne consegue che si può “limitare la libertà solo per quel tanto strettamente necessario a garantirla” (sent. n. 487 del 1989).

Dunque è evidente che laddove una pubblicità presenti dei forti richiami sessuali che vadano a ledere o offendere la libertà altrui, o ne determinino un condizionamento negativo generando un mal costume, sarà chiaramente ritenuta contraria alla legge e pertanto suscettibile di censura.

Dopo aver analizzato il significato che tale fenomeno assume in Italia, ma soprattutto le problematiche connesse, un aiuto importante, per comprendere tale delicata materia, ci viene dato dall’utilizzo della tecnica comparatistica. Quest’ultima può essere intesa come la scienza che studia e confronta i sistemi giuridici di vari Paesi del mondo al fine di individuare possibili convergenze. Dunque, tale studio mira in primis ad individuare e a comprendere le differenze tra i vari ordinamenti del mondo ed in secundis ad approfondire le eventuali affinità[9].  In Germania, ad esempio, con la Costituzione della Repubblica di Weimar all’art. 118 è stato espressamente stabilito che: «Ogni tedesco ha il diritto di esprimere liberamente, nei limiti stabiliti dalle disposizioni generali di legge, le sue opinioni mediante la parola, lo scritto, la stampa, le immagini o in analoghi modi. Nessun rapporto di lavoro o di impiego può recare impedimento a questo diritto, e nessuno può recare danno per il fatto che si usi del medesimo. Non è ammessa alcuna censura. Possono tuttavia stabilirsi, con legge, deroghe per gli spettacoli cinematografici. Sono altresì ammissibili misure legislative per la repressione della letteratura immorale e pornografica e per la protezione della gioventù nei riguardi degli spettacoli e rappresentazioni pubbliche». Successivamente, è stata redatta la Legge fondamentale tedesca, che all’art. 5 ha statuito che: «Ognuno ha il diritto di esprimere e diffondere liberamente le sue opinioni con parole, scritti o immagini, e di informarsi senza ostacoli da fonti accessibili a tutti. Sono garantite la libertà di stampa e la libertà d’informazione mediante radio e film. Non esiste censura. Questi diritti trovano i loro limiti nelle disposizioni delle leggi generali, nei provvedimenti legislativi per la difesa della gioventù e nel diritto all’onore personale. L’arte e la scienza, la ricerca e l’insegnamento sono liberi. La libertà d’insegnamento non esime dalla fedeltà alla Costituzione».

Alla luce di quanto appena detto, l’analisi comparata permette di soffermarci su un caso analogo a quello oggetto dell’attuale disamina: in Germania ha fatto scalpore una campagna pubblicitaria rappresentata da un cartellone pubblicitario raffigurante una donna vestita con biancheria intima, accovacciata sul pavimento dotata di tre seni; lo slogan recitava testualmente « C’è più di quanto tu pensi ». Rispetto a tale pubblicità sono state sollevate numerose polemiche e in tanti hanno presentato istanze al Deutschen Werberats (il Consiglio per la Pubblicità), che ha obbligato la società a ritirare l’annuncio. Da qui, poi, sono stati avanzati altri reclami diretti sia a tutelare l’utilizzo improprio dell’immagine femminile, sia a contrastare le campagne pubblicitarie con immagini o scopi sessuali.

In Francia, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 all’art. 11 ha stabilito «la libera manifestazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge»[10]. Tale norma va letta in combinato disposto con la legge francese sulla libertà di stampa del 1881, modificata nel 2014, che espressamente ha previsto la possibilità di scrivere e/o pubblicare ciò che si desidera a condizione che però non siano riportate immagini o espressioni violente, ingiuriose o diffamanti. Anche in questo caso l’analisi comparata ci permette di appurare che in tale ordinamento sussiste una evidente differenza rispetto a quello italiano. Di fatti, in Francia, gli abusi vengono puniti solo in seguito alla decisione del giudice che verifica se il limite di legge è stato superato e non come in Italia dove vi è nella previsione normativa uno specifico “limite espresso” rappresentato da buon costume. Pertanto e alla luce di quanto detto fino a questo punto, vero è che esiste un esplicito riconoscimento della libertà di stampa e di manifestazione del pensiero, ma questa non deve essere in contrasto con la dignità e/o libertà altrui.

Analogamente a ciò che è previsto per il sistema italiano, anche in Spagna, la Costituzione all’art. 20 prevede che: «1) Sono riconosciuti e tutelati i diritti: A) a esprimere e diffondere liberamente pensieri, idee e opinioni con la parola, per iscritto o con qualunque altro mezzo; B) alla produzione e alla creazione letteraria, artistica, scientifica e tecnica; C) alla libertà d’insegnamento; D) a trasmettere o ricevere liberamente informazioni veritiere con qualunque mezzo di diffusione. La legge regolerà il diritto alla clausola di coscienza e al segreto professionale nell’esercizio di queste libertà. 2) L’esercizio di questi diritti non può essere limitato da alcuna forma di censura preventiva. 3) La legge regolerà l’organizzazione e il controllo parlamentare dei mezzi di comunicazione sociale dipendenti dallo Stato o da qualunque ente pubblico e garantirà l’accesso ai suddetti mezzi da parte dei gruppi sociali e politici più rappresentativi, rispettando il pluralismo della società e la varietà delle lingue parlate in Spagna. 4) Queste libertà trovano un limite nel rispetto dei diritti riconosciuti in questo titolo, nelle disposizioni delle leggi che ne sviluppano il contenuto e, soprattutto, nel diritto alla tutela dell’onore, dell’intimità, della propria immagine e alla protezione della gioventù e dell’infanzia. 5) Il sequestro di pubblicazioni, di registrazioni sonore e di altri mezzi d’informazione può essere disposto solo per decisione dell’autorità giudiziaria».

Ciò detto, dunque, anche in Spagna dalla lettura dell’intervento normativo al punto n. 4 si evince un chiaro limite al contenuto della libertà in oggetto. 


[1] P. AUTIERI, G. FLORIDA, V. MANGINI, G. OLIVIERI, M. RICOLFI, P. SPADA, Diritto industriale, proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, Ed. Giappichelli, 2012, pp. 387 ss.

[2] A. FRIGNANI, W. CARRARO, G. D’AMICO, La comunicazione pubblicitaria d’impresa, Ed. Giuffrè, 2009, pp. 336 ss.

[3] M. BONINI, Controllare le idee: profili costituzionali della pubblicità commerciale, Ed. Giuffrè, 2007, p. 15.

[4] P. AUTIERI, G. FLORIDA, V. MANGINI, G. OLIVIERI, M. RICOLFI, P. SPADA, Diritto industriale, proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, Ed. Giappichelli, 2012, p. 388.

[5] M. ROMANA ALLEGREI, Informazione e comunicazione nell’ordinamento giuridico italiano, Giappichelli, Roma, 2012, pp. 17 ss.

[6] A. CANOTTI, S. CANESTRARI, A. MANNA, M. PAPA, Trattato di diritto penale, Parte speciale: Delitto contro la moralità pubblica, di prostituzione, contro il sentimento per gli animali e contro la famiglia, Roma, 2015, pp. 43 ss.

[7] L. MEZZETTI, Diritti e doveri, Giappichelli, Torino, 2013, pp. 420 ss.

[8] F. LEARDINI, La consistenza del diritto. Limiti delle capacità regolative del linguaggio, CEDAM, Roma, 2010, pp. 140 ss.

[9] A. GAMBARO, R. SACCO, Sistemi giuridici comparati, in Trattato di diritto comparato, diretto da Sacco, Ed. Utet, Torino, 2008, pp. 2 ss.

[10] G. CERRINA FERONI, T.E. FROSINI, A. TORRE, Codice della Costituzione, Torino, 2009, pp. 110.


Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News
The following two tabs change content below.

Maria De Paola

Articoli inerenti