Libertà religiosa e divieto di discriminazione
Sommario: 1. Le fonti del diritto nazionale – 2. Il d.lgs. 216/2003 e la nozione di discriminazione – 3. Organizzazioni di tendenza e deroghe al divieto di discriminazione religiosa
1. Le fonti del diritto nazionale
Il contesto normativo nazionale riguardante la tutela antidiscriminatoria nei posti di lavoro è molto frammentato a causa della stratificazione delle normative che si sono susseguite a partire dagli anni ’60. Nell’analisi dell’evoluzione del diritto antidiscriminatorio interno non si può prescindere dall’analisi della Carta costituzionale che fonda la Repubblica sul lavoro, si premura di rendere alcuni diritti dei lavoratori inviolabili e che, prima di qualsiasi altra fonte, ha sancito l’eguaglianza, il divieto di discriminazione e la libertà religiosa. In particolare l’art. 3 co. 1 Cost. afferma che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione […]». Il principio affermato nel primo comma è quello dell’eguaglianza formale e presenta la clausola di non discriminazione. Nel secondo comma viene enunciato il principio di eguaglianza sostanziale in quanto l’articolo stabilisce che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Inizialmente il concetto di eguaglianza era strettamente legato a quello di cittadinanza, di conseguenza non assicurava la soppressione delle diseguaglianze, per questo si è sviluppata una nuova idea di eguaglianza, che si snoda in due direzioni: da un lato va verso l’eguaglianza universale che lega la stessa alla semplice personalità giuridica; dall’altro va verso un’eguaglianza che riconosce le differenze dei gruppi sociali e culturali1. Il suo perseguimento può, però, trasformarsi in un sacrificio forzoso di quelle differenze che rifiutano l’omologazione portando ad effetti pratici antitetici rispetto a quelli che si vogliono perseguire2. All’interno della Costituzione ci sono poi due norme che fanno specifico riferimento alla religione, ossia gli articoli 8 e 19. L’art. 8 Cost., al primo comma, afferma che «tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge» e, nei commi successivi, stabilisce un sistema di accordi volti a regolare i rapporti tra Stato e confessioni religiose diverse da quella Cattolica, nel rispetto dell’ordinamento italiano. La legge italiana non si sofferma nel dare una forma giuridica a questi accordi ma si possono trovare norme rilevanti nella L. 1159/1929 e nel R.D. 289/1930 che integra la legge3. In questa legge, all’art. 2, si afferma che gli enti religiosi possono essere riconosciuti solo se lo Stato può accertare il loro carattere e il loro scopo religioso4. La registrazione non è obbligatoria ma lo diviene se si vogliono regolamentare i rapporti tra Stato e confessione religiosa, ed è richiesta la personalità giuridica esclusivamente per avere ulteriori diritti e privilegi. Al di fuori della volontà delle confessioni religiose di ottenere diritti e privilegi, l’art. 19 della Costituzione stabilisce che «tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». Si può anche prendere in considerazione l’art 97 Cost. che sancisce l’imparzialità della P. A. ponendo un limite all’esercizio della libertà religiosa. Questo limite non è applicato a tutti i pubblici dipendenti nella stessa misura ma in base alle funzione svolte dagli stessi per la P. A. e trova giustificazione nel principio del buon funzionamento dei servizi pubblici e nell’obbligo di neutralità imposto dallo Stato5. Andando, però, a relazionare la neutralità dello Stato con il principio di eguaglianza si può constatare come la prima sia incompatibile con la seconda in quanto, essendo la Pubblica Amministrazione un’organizzazione sociale non può essere effettivamente neutrale6. Nell’ambito del rapporto privatistico, un ostacolo alla libertà religiosa potrebbe derivare dall’art. 41 Cost. che, al primo comma, stabilisce che l’iniziativa economica privata è libera, lasciando all’imprenditore la possibilità di scegliere le modalità di esercizio dell’attività economica. Per evitare un’eccessiva discrezionalità dell’imprenditore, il secondo comma pone dei limiti a questa libertà, la quale «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Sono state poi le norme di rango inferiore a collegare il principio di eguaglianza e non discriminazione, sancito dall’art. 3 Cost., all’ambito laburistico.
Il primo riferimento alla discriminazione religiosa lo si trova nello Statuto dei Lavoratori (legge 300/1970) che, all’art. 15 rubricato “atti discriminatori”, prevede la nullità degli atti o patti che siano diretti a discriminare il lavoratore per motivi religiosi, politici e sindacali. Sono proibite pratiche quali il licenziamento, il demansionamento e anche la subordinazione dell’occupazione a questi motivi7. Si noti che il legislatore è stato attento a tutelare non solo la fase di svolgimento della prestazione lavorativa, ma anche la fase preassuntiva. E, con riferimento a questa fase, nello Statuto dei Lavoratori, ritroviamo l’art. 8, rubricato “divieto di indagini sulle opinioni”, il quale stabilisce che «è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore». Questi due articoli rappresentano la trasposizione del diritto di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost e garantiscono il godimento delle libertà fondamentali, tra cui quella religiosa8.
Altre leggi nel tempo hanno trattato il divieto di discriminazione religiosa, come la l. 675/1996 (legge sulla privacy) che, all’art. 22, include tra i dati sensibili quei dati personali che sono idonei a rivelare le convinzioni religiose o l’adesione ad associazioni e organizzazioni a carattere religioso. Questa legge è stata successivamente abrogata e l’art. 22 sostituito dall’art. 183 del d.lgs. 196/20039. La stessa legge, all’art 113 circa la raccolta dei dati, rimanda all’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori e all’art. 10 del d. lgs. 276/2003 il quale prevede che «è fatto divieto alle agenzie per il lavoro e agli altri soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati di effettuare qualsivoglia indagine o comunque trattamento di dati ovvero di preselezione di lavoratori […] in base al credo religioso». Questo articolo amplia la portata soggettiva del divieto includendo non solo le agenzie private di collocamento (come avveniva nell’art. 10 del d. lgs. 469/1997, abrogato dal d. lgs. 150/2015), ma anche i soggetti pubblici adibiti al collocamento10. Al di fuori delle norme che regolano il divieto di discriminazione per motivi religiosi in fase preassuntiva, vi ritroviamo l’art. 4 della l. 604/1966 che stabilisce la nullità dei licenziamenti che abbiano come motivazione la fede religiosa del lavoratore e che, nel 2023, ha subito una modifica dettata dall’attuazione della Direttiva UE 2019/1937 includendo tra i soggetti tutelati anche i whistlerblowers.
Da ultimo vanno considerate le norme cardine della tutela contro le discriminazioni per motivi religiosi, ossia il d. lgs. 286/1998 denominato Testo unico sull’immigrazione e il d. lgs. 216/2003 attuativo della Direttiva comunitaria 2000/78/CE. In merito al Testo unico va analizzato l’art. 43 il quale enuncia il principio di non discriminazione al primo comma affermando che costituisce discriminazione ogni comportamento diretto o indiretto che comporti una distinzione basata sulle convinzioni e le pratiche religiose. Il secondo comma, lettera e), vieta le discriminazioni indirette basate sulla confessione religiosa del soggetto quando non sia un requisito essenziale per lo svolgimento dell’attività lavorativa; quindi, anche qui si fa riferimento alla fase preassuntiva11. Sempre nel Testo unico rileva anche l’art. 44 che riguarda l’azione civile contro la discriminazione e che verrà affrontato nel prossimo capitolo. Si è fatto poi riferimento al d. lgs. 216/2003 che ha come oggetto, così come stabilito dall’art. 1, l’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione. Come accade nella Direttiva comunitaria, anche nel d. lgs. 216/2003, ritroviamo la deroga al divieto di discriminazione rivolto alle organizzazioni di tendenza. Infine sono da tenere in considerazione i contratti collettivi, soprattutto aziendali, che possono stabilire una regolamentazione tale da facilitare la coesistenza delle diverse culture religiose nei luoghi di lavoro. Uno degli esempi è l’Accordo quadro territoriale tra CGIL-CISL-UIL e Confindustria Monza e Brianza che dà importanza fondamentale alla libertà religiosa riconoscendo che la lotta alla discriminazione è una scelta che può migliorare la produttività aziendale12.
2. Il d.lgs. 216/2003 e la nozione di discriminazione
Il d. lgs. 216/2003 ha attuato nell’ordinamento interno la Direttiva 2000/78/CE in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ed è l’art. 2 del suddetto decreto, insieme all’art. 43 del d. lgs. 286/1998, a darci l’attuale definizione di discriminazione.
L’art. 2 co. 1 del d. lgs. 216/2003 afferma che il principio di parità di trattamento consiste nell’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta causata dalla religione. Sempre nello stesso comma definisce quali comportamenti siano ascrivibili alla categoria della discriminazione diretta e quali alla categoria della discriminazione indiretta. La lettera a) dell’art 2 dà la definizione di discriminazione diretta affermando che questa ricorra ogniqualvolta una persona sia trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga, per motivi attinenti alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale. La lettera b) dello stesso articolo fornisce, invece, la definizione di discriminazione indiretta, riferendosi a tutte le disposizioni, criteri, prassi, patti o comportamenti che siano apparentemente neutri ma che, nella realtà, possono mettere il soggetto in una situazione di particolare svantaggio per i motivi di cui alla lettera a). Questa nozione di discriminazione indiretta si discosta dalle definizioni precedenti per vari aspetti: il primo riguarda il carattere potenziale degli effetti discriminatori non essendo richiesta l’attualità e la materialità dello svantaggio; il secondo fa riferimento alla scelta di utilizzare la formula “particolare svantaggio” al posto della precedente formula “svantaggio proporzionalmente maggiore”, scelta che rende l’accertamento del disparate impact più agevole in quanto non più legato solo alle rilevazioni statistiche, ma ammettendo la legittimità della notorietà sociale e della comune esperienza; l’ultima novità riguarda l’aver slegato la legittimità del disparate impact dall’essenzialità del requisito nello svolgimento dell’attività lavorativa, legandola ai criteri della necessità, dell’adeguatezza, dell’obbiettività e della legittimità del requisito che ha comportato lo svantaggio’3.
Il comma 2 dello stesso articolo fa espresso riferimento all’art. 43 del d. lgs. 286/1998 (Testo unico sull’immigrazione), facendo salve le disposizioni contenute al suo interno. Andando ad analizzare l’art. 43 si legge che costituisce discriminazione «ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata […] sulle convinzioni e sulle pratiche religiose e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica». Il secondo comma, alle lettere c) ed e), fa espresso riferimento all’aspetto laburistico, affermando nella prima che si compie un atto di discriminazione quando, a causa della religione, si impongano condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l’accesso all’occupazione; nella seconda, rivolgendosi al datore di lavoro, afferma che si ha discriminazione qualora egli o i suoi preposti compiano atti o comportamenti tali da produrre un effetto pregiudizievole discriminando i lavoratori, anche indirettamente, sulla base della loro religione.
Bisogna sottolineare che il legislatore italiano ha espresso un giudizio di disvalore con riguardo alla discriminazione religiosa, sia in fase preassuntiva, sia nella fase di svolgimento della prestazione’4, infatti l’ordinamento impone al datore di lavoro il divieto di assumere come criterio per l’assunzione o l’inquadramento del lavoratore le convinzioni religiose. Inoltre, quando il legislatore fa riferimento alle convinzioni religiose vi ricomprende tutti gli aspetti della libertà religiosa quindi gli atti di culto in senso stretto, ma anche tutti i comportamenti che siano riferibili all’osservanza di un precetto confessionale15. Nel quadro della fase preassuntiva rientra anche l’art. 8 dello Statuto dei lavoratori che enuncia il divieto di indagini riguardo la vita personale, le opinioni personali, religiose e di qualsiasi altro fattore non attinente alla valutazione dell’attitudine professionale da parte del datore di lavoro. Ne consegue che la mancata assunzione di un candidato per motivi attinenti alla sua fede religiosa rientri tra i comportamenti vietati dalla legge.
La tecnica del legislatore di far salvo l’art. 43 del Testo unico sull’immigrazione comporta un rafforzamento della tutela, dovuta alla nuova definizione di discriminazione indiretta e alla separazione della religione dalle convinzioni personali, che ha permesso di ampliare le fattispecie meritevoli di tutela16. La sovrapposizione delle due norme è servita, grazie alle definizioni più precise fornite dal testo unico, a colmare delle carenze definitorie riscontrabili nel lgs. 216/200317. Il testo unico, infatti, fa riferimento alle “convinzioni” e alle “pratiche” religiose, delineando un ambito di tutela più ampio e determinato rispetto al decreto legislativo che richiama esclusivamente il termine “religione”. Dall’altro lato, però, l’art. 43 non prevede gli stessi criteri comparativi mancando il riferimento alle situazioni ipotetiche. Quindi dalla scelta di utilizzare una norma piuttosto che l’altra deriverà la possibilità di provare la discriminazione attraverso la comparazione “virtuale”18. La coesistenza di queste due norme fa emergere i problemi che sono sorti nella trasposizione della direttiva sovranazionale, il legislatore interno ha seguito alla lettera le disposizioni della direttiva senza approfondire concettualmente le disposizioni, né coordinandole con norme già vigenti nell’ordinamento, limitandosi a tradurre alla lettera quanto prescritto dal legislatore comunitario. Questa trasposizione “disattenta”19 determina un sistema disorganico e di difficile lettura, poiché i divieti di discriminazione del decreto si affiancano a quelli dello Statuto dei lavoratori e a quelli presenti nel Testo unico sull’immigrazione.
3. Organizzazioni di tendenza e deroghe al divieto di discriminazione religiosa
Nell’attuazione della Direttiva 2000/78/CE, il d. lgs. 216/2003 ha riportato anche la deroga prevista per le organizzazioni di tendenza. Nello specifico l’art. 4 par. 2 della Direttiva è stato trasposto nell’art. 3 co. 3 e co. 5 del decreto. Questi due commi permettono la deroga al divieto di discriminazione per motivi religiosi ma l’orientamento prevede una posizione più rigorosa rispetto a quello comunitario20.
Il comma 3 afferma che «nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione […] qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima». La portata di questo comma è molto generale in quanto fa riferimento a qualsiasi datore di lavoro per il quale il fattore religioso sia un requisito essenziale e determinante allo svolgimento della prestazione21. Il comma 5 afferma che «non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività». Dalla lettura si può notare una prima differenza con la norma comunitaria, la quale si riferisce espressamente a chiese e organizzazioni pubbliche o private la cui etica sia fondata sulla religione; invece, nella norma interna il legislatore fa riferimento non solo agli enti di ispirazione religiosa ma, più in generale, alle organizzazioni pubbliche o private in cui il fattore religioso sia essenziale. Il legislatore italiano decide di ampliare la portata della deroga sia per le organizzazioni a cui si applica, sia per i criteri blandi nella valutazione della legittimità dei requisiti occupazionali, contrastando con la ratio della Direttiva comunitaria22. Questo comporta che il requisito religioso possa essere richiesto anche da organizzazioni non portatrici di tendenza e che, di conseguenza, venga a mancare la finalità religiosa o ideologica che giustifica la contrazione della parità dei lavoratori. Nell’ordinamento italiano non è presente una definizione di organizzazione di tendenza ma, sulla base delle pronunce giurisprudenziali e dottrinali, si possono assimilare a tutti gli enti religiosi e non alle imprese ed istituzioni collegate all’ente23. Una seconda differenza riguarda la mancanza, nella norma interna, del riferimento al principio di proporzionalità che rende possibili eccezioni molto ampie al principio di parità essendo sufficiente dimostrare l’essenzialità del requisito ai fini dello svolgimento della prestazione lavorativa. Questo articolo costituisce la chiave interpretativa per il conflitto ideologico nel rapporto di lavoro, conflitto di difficile risoluzione dato che il bilanciamento dell’essenzialità, della ragionevolezza, della proporzionalità, della legittimità, della giustificatezza e della natura determinante è un’operazione non molto agevole. Ciò che emerge più spesso nel rapporto tra lavoratore e datore di lavoro di tendenza è la fiducia, che assume un’importanza tale da essere un’eccezione alla spersonalizzazione del rapporto di lavoro. Si è osservato che in questa tipologia di rapporti di lavoro l’intensità della fiducia è dettata dalla relazione diretta che intercorre tra la prestazione e il risultato finale dell’organizzazione, fino a ritenere che ci sia una duplicità di negozi: il primo tra l’organizzazione e il lavoratore; il secondo tra datore e lavoratore denominato comunanza di fede che è implicita al momento della conclusione del contratto. E’ importante sottolineare che la comunanza di fede non modifica la causa del contratto di lavoro che resta sempre lo scambio tra prestazione e retribuzione24. Si può di conseguenza affermare che la mansione ideologica non esista e che l’ideologia rilevi solo ai fini dell’adempimento contrattuale25
In merito alla fiducia, la tesi dottrinale che ha riscosso più successo la erge ad elemento fondante del rapporto di lavoro, portando al riconoscimento di una superfiducia che ricopre anche i fatti personali del lavoratore e che eccede i limiti stabiliti dall’art. 2105 cc in materia di obbligo di fedeltà del lavoratore. Attraverso la lettura della norma del Codice civile che tutela l’imprenditore verso l’esterno dalla circostanza che altri soggetti vengano a conoscenza di fatti riguardanti l’organizzazione, la dottrina ha stabilito che sono lesivi dell’obbligo di fiducia e concorrenti all’organizzazione tutti i comportamenti del prestatore che siano in contrasto con l’ideologia dell’organizzazione al punto da fuorviare la clientela e lasciar trasparire un messaggio contrario a quello ideologico26. In caso di violazione dell’obbligo di fiducia, data la sua rilevanza, sarebbe del tutto lecito il licenziamento che non sarebbe qualificato come discriminatorio. Infatti, stando alla lettera dell’art. 4 co. 1 della l. 108/1990 in materia di licenziamenti individuali, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che prevede la nullità del licenziamento discriminatorio e la tutela reale del lavoratore, non trova applicazione verso i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura religiosa27.
1 M. Barbera e A. Guariso, La tutela antidiscriminatoria: fonti, strumenti, interpreti, Giappichelli, Torino, 2019;
2 L. Zoppoli, Categorie giuridiche e sistematizzazione del diritto antidiscriminatorio, in A. Viscomi, Diritto del lavoro e società multiculturale, Editoriale Scientifica, 2011;
3 S. Coglievina, Annotated Legal Documents on Islam in Europe: Italy, a cura di Jrgen Nielsel, Brill Academic Pub, Leiden – Boston, 2016;
4 L’art 2, comma 3 della L. 1159/1929 stabilisce infatti che «norme speciali per l’esercizio della vigilanza e del controllo da parte dello Stato possono inoltre essere stabilite nel decreto di erezione in ente morale»;
5 S. Fernandez Sanchez, Libertà religiosa e lavoro, Giappichelli Editore, Torino, 2022;
6 Ibidem;
7 S. Coglievina, Diritto antidiscriminatorio e religione: uguaglianza, diversità e libertà religiosa in Italia, Francia e Regno Unito, Libellula Edizioni, Tricase, 2013;
8 Vincenzo Pacillo, Il divieto di discriminazione religiosa nel rapporto di lavoro subordinato, in Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose (OLIR), https://www.olir.it/, fasc. 12, 2004;
9 M. Barbera, Il nuovo diritto antidiscriminatorio: il quadro comunitario e nazionale, a cura di, Giuffrè Editore, Milano, 2007;
10 M. Barbera, Il nuovo diritto antidiscriminatorio: il quadro comunitario e nazionale, a cura di, Giuffrè Editore, Milano, 2007;
11 V. Pacillo, Il divieto di discriminazione religiosa nel rapporto di lavoro subordinato, in Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose (OLIR), https://www.olir.it/, fasc. 12, 2004;
12 S. Fernandez Sanchez, Libertà religiosa e lavoro, Giappichelli Editore, Torino, 2022;
13 M. Barbera, Il nuovo diritto antidiscriminatorio: il quadro comunitario e nazionale, a cura di, Giuffrè Editore, Milano, 2007, pag. 55;
14 V. Pacillo, Il divieto di discriminazione religiosa nel rapporto di lavoro subordinato, in Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose (OLIR), https://www.olir.it/, fasc. 12, 2004;
15V. Pacillo, Il divieto di discriminazione religiosa nel rapporto di lavoro subordinato, in Osservatorio delle libertà ed istituzioni religiose (OLIR), https://www.olir.it/, fasc. 12, 2004;
16 M. Barbera, Il nuovo diritto antidiscriminatorio: il quadro comunitario e nazionale, a cura di, Giuffrè Editore, Milano, 2007, pag. 53-54;
17 Jlia Pasquali Cerioli, Il divieto di discriminazione religiosa sul luogo di lavoro: riflessioni critiche, Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, fasc. 1, 2005;
18 S. Coglievina, Diritto antidiscriminatorio e religione: uguaglianza, diversità e libertà religiosa in Italia, Francia e Regno Unito, Libellula Edizioni, Tricase, 2013, pag. 163;
19Ibidem;
20 J. Pasquali Cerioli, Il divieto di discriminazione religiosa sul luogo di lavoro: riflessioni critiche, Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, fasc. 1, 2005;
21 Vincenzo Luciani, Tendenza e causa del contratto nel rapporto di lavoro ideologico, in A. Viscomi, Diritto del lavoro e società multiculturale, Editoriale Scientifica, 2011;
22 S. Coglievina, Diritto antidiscriminatorio e religione: uguaglianza, diversità e libertà religiosa in Italia, Francia e Regno Unito, Libellula Edizioni, Tricase, 2013, pag. 186-187;
23 Ibidem;
24 V. Luciani, Tendenza e causa del contratto nel rapporto di lavoro ideologico, in A. Viscomi, Diritto del lavoro e società multiculturale, Editoriale Scientifica, 2011;
25 Claudia Chisari e Carmen Galizia, Il prestatore di lavoro «ideologico», in A. Viscomi, Diritto del lavoro e società multiculturale, Editoriale Scientifica, 2011;
26 Ibidem;
27 Mario Quaranta, Ambito di applicazione della tutela reale e organizzazioni di tendenza, in A. Viscomi, Diritto del lavoro e società multiculturale, Editoriale Scientifica, 2011
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Adriana Chieppa
Dottoressa in Giurisprudenza d’impresa
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