Licenziamento per superamento periodo di comporto
Premessa. Il nostro ordinamento contempla fra le cause di sospensione del rapporto di lavoro, all’articolo 2110 Codice Civile, l’infortunio, la malattia, la gravidanza e il puerperio: a tutela del lavoratore che non è nelle condizioni di garantire la prestazione lavorativa, la normativa prevede la corresponsione di una retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalla legge o dalle altre fonti di diritto.
Tuttavia, questa tutela del lavoratore non opera sine die: il comma 2 dell’articolo 2110 Codice Civile stabilisce che in caso di infortunio o di malattia l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto di lavoro, solo una volta che sia decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità.
Per periodo di comporto si intende quel lasso di tempo che la legge prevede debba essere trascorso prima che il datore di lavoro possa intimare il licenziamento al dipendente assente per malattia. Tale previsione pone l’istituto in una posizione speciale e lo sottopone a una disciplina che prevale su quella generale dei licenziamenti.
Durata e tipologie di comporto. Normalmente il periodo massimo per il raggiungimento del comporto è definito da ciascun CCNL, molto spesso è pari a 180 giorni in quanto l’indennità di malattia Inps viene erogata per 180 giorni nell’anno solare e spesso, dunque, i Ccnl tendono a garantire al lavoratore un periodo di comporto pari al lasso temporale nel quale egli percepisce la tutela economica di malattia.
I contratti collettivi prevedono due tipi di comporto:
– Comporto secco: da intendersi come il numero massimo di giorni consecutivi di assenza per malattia (con riferimento dunque a un unico evento di malattia)
– Comporto per sommatoria: da intendersi come la somma del numero massimo di giorni di assenza per malattia in capo ad un lavoratore in un determinato arco temporale (con riferimento quindi a una pluralità di malattie ripetute nel tempo). Se il CCNL non prevede un comporto per sommatoria, sarà il giudice di merito adito per l’impugnazione del licenziamento a stabilirlo in via equitativa.
Da tempo la giurisprudenza è concorde nel ritenere che il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una “causa autonoma” e nel contempo automatica di giustificazione del licenziamento. Infatti, una volta che il periodo di comporto sia trascorso, tale circostanza diviene già di per sé sufficiente a legittimare il licenziamento: come chiarito anche dalla Corte di cassazione (cfr., ad esempio, Cass. n. 1404/2012) in un simile caso non è infatti necessario fornire la prova né del giustificato motivo oggettivo né dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa né dell’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse. In sede di un eventuale contenzioso il giudice potrà accertare soltanto se la malattia abbia effettivamente superato, nella durata, il termine prefissato.
Il datore è tenuto a comunicare al dipendente l’imminente superamento del periodo di comporto? L’orientamento prevalente parte dal presupposto che il mero superamento del numero di assenze previste dal CCNL applicato fa venir meno il diritto alla conservazione del posto di lavoro: la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell’adempimento, in cui il dato dell’assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva. Ne consegue che il datore di lavoro non è tenuto a comunicare al lavoratore l’imminente scadenza del comporto e che ai fini della legittimità del licenziamento non rileva la mancata conoscenza da parte del lavoratore dell’avvicinarsi del predetto termine (Cass. 11314/2015).
Fermo restando questo principio ormai consolidato, esiste, tuttavia, un’eccezione ovvero nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto comminato a un lavoratore affetto da gravi patologie che non abbia ricevuto nessuna comunicazione dell’imminente superamento del comporto.
Licenziamento: entro quanto tempo? Sul punto in giurisprudenza vi sono stati due orientamenti contrapposti: un primo che valutava rigidamente il requisito della tempestività (Cass., 10 novembre 2011, n. 23423); e un altro, più recente, secondo il quale il datore di lavoro, prima di recedere, deve essere in grado di valutare convenientemente la sequela degli episodi di malattia, sia al fine di stabilire se sia effettivamente superato il periodo di comporto, sia per accertare un suo eventuale interesse alla prosecuzione del rapporto nonostante le numerose assenze, potendo attendere il rientro in azienda del lavoratore per sperimentare in concreto se sussistono o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno dell’assetto organizzativo dell’azienda (Cass., sez. lav., 20 marzo 2019, n. 7849).
Secondo tale ultimo, e maggioritario, orientamento nell’ipotesi di avvenuto superamento del periodo di comporto, l’accettazione, da parte del datore di lavoro, della ripresa dell’attività lavorativa del dipendente non equivale di per sé a rinuncia al diritto di recedere dal rapporto, ai sensi dell’art. 2110 c.c., e quindi non preclude, salvo diversa previsione della disciplina collettiva, l’esercizio di tale diritto.
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Dott. Salvatore Messina
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