L’identità religiosa e la sua incidenza nella definizione dell’identità personale: rapporto tra diritto, religione e società
Il rapporto tra diritto e società può essere riassunto nel brocardo latino «ubi societas, ibi ius» attraverso il quale si sostiene che senza le norme non vi sarebbe la società, il diritto è quindi il mezzo e il fine della vita in una collettività; le relazioni che si instaurano tra i soggetti in particolar modo riuniti intorno ad un fattore religioso e culturale concorrono al raggiungimento dell’unità.
Con la religione il soggetto indaga sé stesso e le relazioni in un’ottica trascendentale vincolando la propria coscienza; il diritto, invece, connesso all’immanenza, indica quelle che sono le norme da seguire per il quieto vivere nella società e indirizza il soggetto nel rapporto con gli altri.
Questi elementi hanno costituito una condizione importante per la formazione degli Stati europei e in Italia hanno contraddistinto le vicende storiche, in particolar modo fino alla Costituzione repubblicana del 1948; diritto e religione, il rapporto che intercorre tra gli stessi caratterizza l’evolversi socioculturale e giuridico dello Stato e ciò costituisce, oggi più che nel passato, una sfida in quanto la società moderna è caratterizzata dal pluralismo tanto religioso che culturale.[1]
L’incontro-scontro continuo che intercorre tra il fenomeno religioso e quello giuridico sottolinea la necessita di delineare limiti e tutele delle sfere di attività di entrambi.
La religione, se da un lato soddisfa il fedele nel suo bisogno spirituale e pone le basi del rapporto che stabilisce con il divino, dall’altro fa emergere la necessità profonda del credente di instaurare delle relazioni con soggetti riuniti intorno alle medesime credenze: proprio per tale motivo il fattore religioso è considerato da un punto di vista sociale e solidaristico e in quanto tale la Costituzione tutela la libertà di religione e di coscienza che si configurano come diritti inviolabili dell’uomo, ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione.[2]
La libertà religiosa è fondamento della dignità umana e non deve essere sottoposta a distinzioni di alcun genere[3], la libertà di ciascuno di identificarsi in un determinato credo religioso è un elemento essenziale affinché si possa parlare di pluralismo, pertanto, la libertà di coscienza dell’individuo è un aspetto che deve essere necessariamente garantito.
Il nesso tra cultura e identità risente del processo di globalizzazione che ha provocato da un lato omologazione e dall’altro frammentazione dell’io, situazione esasperata dalla società multiculturale che presenta una molteplicità di sfide.
La costruzione dell’identità è un processo complesso, soprattutto nella società odierna che appare frammentata e multiculturale; all’interno di una cultura mediante determinate tradizioni, riti e stili di vita, modalità di interazione, si crea l’identità personale che è il frutto di un processo di stratificazione di una molteplicità di elementi quali linguistici e religiosi comuni, che trascendono le generazioni: elementi indispensabili per la costituzione dell’identità.
Se in passato la religione rappresentava un elemento di unitarietà e omogeneità necessaria per definire un’identità nazionale, oggi la stessa viene identificata come un elemento fondamentale del rapporto del soggetto con la sua coscienza, ma non è più possibile parlare di identità nazionale; le società moderne appaiono come multiculturali e multireligiose e pongono allo Stato nuovi quesiti per la definizione dei rapporti che si instaurano all’interno delle stesse, nell’ottica del pieno rispetto della persona umana.
L’identità culturale avente ad oggetto il singolo nelle sue scelte quotidiane non è immutabile, la cultura, infatti, non influenza in maniera piena la condotta delle persone in quanto questa risente di continue trasformazioni e adattamenti in relazione alle diverse circostanze; ogni individuo interpreta la cultura con i propri punti di riferimento offerti dalla sua vita personale e dalle sue esperienze.
Fondamentale per l’identità personale è «l’identità religiosa» la quale è strettamente connessa all’identità culturale; le scelte religiose possono essere il frutto di imposizioni, condizionamenti culturali e sociali, ma non sempre è così: l’identità religiosa attenendo alla sfera più intima del soggetto può esteriorizzarsi nella vita sociale allorquando l’ordinamento predisponga determinate cautele che appaiono come rispettose di specifiche tradizioni e imposizioni dettate della religione stessa.
La religione in quanto portatrice di valori riunisce la comunità attorno agli stessi, influenzando gli individui nelle scelte personali e sociali che dovranno affrontare; la tutela del diritto all’identità religiosa è rimessa, in ambito europeo[4], ai singoli Stati i quali interverranno in tale ambito come riterranno opportuno, considerando fattori quali contesto sociale e variabili legate ad aspetti assiologici, rituali e di conformità alle norme, nell’ottica del rispetto dei principi inderogabili dell’uomo proclamati nelle carte internazionali dei diritti umani[5] e dalla CEDU[6] che rappresentano un vincolo insuperabile.
L’identità religiosa necessita della libertà di religione affinché le scelte in tale ambito siano tutelate nella molteplicità degli aspetti che le contraddistinguono; libertà di religione che si muove su due direttrici, da un lato quella interna ovvero nella possibilità di ciascuno di professare il proprio culto senza condizionamenti e in quanto diritto soggettivo assoluto non può subire alcuna limitazione e, dall’altro, la direttrice definita come esterna che si sostanzia nella libertà di manifestare esternamente la propria fede, seppur incontrando i limiti indicati dal comma 2 dell’articolo 9 CEDU.
La CEDU sancisce il principio di non discriminazione secondo il quale nessun individuo o gruppo può essere discriminato in quanto appartenente ad un determinato credo; questo principio, collocato tra quelli fondamentali dell’Unione Europea, sottopone ad un controllo le differenziazioni che poste in essere dalla normativa stessa potrebbero provocare disparità di trattamento; esse saranno vagliate nella loro ragionevolezza al fine di garantire in senso pieno il diritto alla diversità, essenziale nelle società multiculturali[7].
Ogni soggetto è libero di comportarsi secondo il proprio credo, soltanto non subendo discriminazioni e limitazioni nell’esercizio di tale diritto, può effettivamente esplicarsi il diritto individuale all’identità religiosa.
La libertà di praticare la propria religione si sostanzia nel diritto del fedele ad agire secondo coscienza, ma questo incontra dei limiti dati dal comma 2 dell’articolo 9 il quale circoscrive la libertà di coscienza che appare, in una prima lettura, come indefinita; emerge la necessità di bilanciare la libertà di religione e di coscienza con la certezza delle norme richiesta dall’ordinamento: lo Stato, infatti, potrà intervenire adottando misure restrittive necessarie in una società democratica quando la condotta del soggetto si dovesse scontrare con norme che intendono tutelare diritti di pari rango[8].
L’ordinamento italiano attua una politica di tipo multiculturale in quanto sancisce l’accoglienza e il rispetto delle diverse culture e religioni ma delimitando le libertà delle stesse con riferimento ai principi indicati in Costituzione; si tutelano, quindi, le diversità nei limiti dei valori costituzionali[9].
L’esperienza religiosa è un aspetto importante poiché concorre alla promozione e allo sviluppo della personalità umana, in una società come quella italiana, che pone al centro il valore della persona[10].
L’appartenenza ad una comunità religiosa si acquista molto spesso per nascita, indipendentemente dalla volontà del soggetto; per essere considerati membri del gruppo religioso è opportuno seguire determinati rituali e rispettare specifiche norme che rendendo visibile la propria appartenenza e volontà appaiono come presupposti necessari affinché si possa essere considerati parte del gruppo; il mancato rispetto di tali norme fa sì che quel soggetto non venga identificato come appartenente alla comunità[11].
La libertà religiosa è un diritto soggettivo pubblico e in quanto tale inviolabile e indisponibile, ai sensi all’articolo 2 della Costituzione, la cui titolarità spetta tanto alle persone fisiche che alle formazioni sociali con qualificazione religiosa; dallo stesso articolo 2 Cost. si desume che le confessioni religiose sono riconosciute dallo Stato come formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità dell’individuo e in quanto tali lo Stato si impegnerà nel rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona.
Dall’articolo 3 della Costituzione emerge come non siano possibili distinzioni per motivi religiosi, questo è garantito in quanto lo Stato italiano si definisce come laico e tutela l’individuo da eventuali discriminazioni e condizionamenti derivanti dall’appartenenza ad un determinato credo; l’ordinamento si impegna, così, a rimuovere gli «ostacoli di ordine economico e sociale» affinché vi sia parità di godimento della libertà religiosa.
Secondo la Corte costituzionale, il principio di laicità dello Stato «implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale»[12]; nel caso in cui dovesse sorgere un conflitto tra libertà religiosa e altri interessi, il bilanciamento che si andrà a svolgere terrà conto della prima, evitando di comprimerla in maniera eccessiva.
Il principio di laicità afferma la neutralità dello Stato nei confronti della scelta religiosa degli individui.[13] Tale principio non è richiamato in Costituzione ma è la Corte costituzionale che con la sentenza del 12 aprile del 1989 n. 203 lo riconosce come un «principio supremo dell’ordinamento costituzionale»[14].
La laicità ha ad oggetto la capacità dell’ordinamento di garantire uguale libertà delle coscienze; lo Stato ha come finalità quella di promuovere la realizzazione e l’espressione dell’identità di ogni individuo e la laicità è un mezzo attraverso il quale questa può essere raggiunta.
Lo Stato, infatti, con un diritto laico che va al di là di ideologie predeterminate, di dogmi religiosi e dell’adeguamento alla cultura dominante, fa sì che gli individui siano liberi nelle loro scelte e possano realizzare in maniera effettiva la propria libertà di espressione.
L’eguale libertà delle confessioni religiose in quanto parità di trattamento è sancita dall’articolo 8 comma 1 della Costituzione, secondo il quale le confessioni religiose sono identiche nella loro libertà di fronte alla legge; ma questa norma non implica una piena uguaglianza di disciplina delle molteplici confessioni religiose, in quanto se i rapporti tra lo Stato italiano e la religione cattolica sono regolamentati dall’articolo 7[15] e dagli accordi di Villa Madama, il regime delle Intese contraddistingue i rapporti che legano lo Stato e le confessioni diverse dalla cattolica, intese che possono essere definite come accordi bilaterali con lo Stato, idonei a garantire una tutela dei fedeli, e non solo, da parte dell’ordinamento.[16]
Il diritto all’identità religiosa è strettamente connesso alla tutela offerta dall’articolo 19 della Costituzione secondo il quale viene riconosciuto il diritto di professare il proprio credo tanto in forma individuale che associata, di farne propaganda, di esercitare il culto con l’unica limitazione data dal buon costume[17], che viene riferito alla morale sessuale e al rispetto della dignità della persona; nell’esercizio del culto è sempre necessario, inoltre, il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento.
La libertà religiosa si esprime in una molteplicità di ambiti quali lo ius poenitendi, la possibilità di rifiutarsi di adempiere un dovere se questo appaia come contrapposto alle proprie convinzioni ideologiche o religiose, obiezione di coscienza, attraverso il proprio abbigliamento o l’uso di accessori strettamente legati ad ambienti religiosi, fino ad ambiti strettamente lavorativi.
La libertà religiosa quindi si sostanzia tanto nell’aderire ad un determinato fenomeno religioso quanto a quello ateistico[18], ciò che l’ordinamento intende tutelare è la libera formazione dell’individuo e assicurare neutralità nel momento in cui la sua coscienza potrebbe essere influenzata.
La Corte costituzionale ha definito la coscienza come «relazione intima e privilegiata dell’uomo con sé stesso»[19] rientrando così nel principio personalista; affinché si possa considerare la coscienza in senso più ampio, necessario è considerare come questa si formi anche nella relazione con gli altri.
La libertà di coscienza può essere ritenuta come un diritto naturale ed essenziale che indirizza il soggetto nelle sue scelte in quanto guidate dal libero arbitrio[20]; quest’ultimo è inevitabilmente vincolato alle norme dell’ordinamento, lo Stato essendo laico non può che legiferare nell’ottica di tutelare i consociati e le loro possibili scelte dettate dalla libertà di coscienza.
La libertà di autodeterminazione è intesa ad orientare le scelte degli individui al di fuori da condizionamenti esteriori e quindi favorisce la possibilità di un’effettiva formazione della propria identità; si riconosce così al soggetto la capacità di prendere scelte autonome ed indipendenti: libertà di coscienza e autodeterminazione contraddistinguono l’esperienza del soggetto nella costruzione del proprio sé.
L’identità culturale e religiosa si esplica mediante la libera manifestazione dell’appartenenza ad un determinato credo, tutelato dall’articolo 19 della Costituzione; identità che può esprimersi con l’utilizzo di un caratteristico capo di abbigliamento che appare conforme alle proprie credenze come, per esempio, l’uso di veli per coprire il capo[21] e il kirpan[22].
Il soggetto nella sua libera scelta decide di indossare tali accessori con una valenza altamente simbolica; appare in contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione ogni atteggiamento ostile che possa essere discriminatorio in quanto legato al modo di abbigliarsi occidentale e che non tenga conto del pluralismo culturale.
Nel caso in cui si dovesse verificare una discriminazione per tali ragioni, in quanto sussiste una violazione del diritto del singolo alla propria identità culturale giustificato dal diritto a non subire discriminazioni e trattamenti che appaiono come offensivi della propria appartenenza etnica o religiosa, il soggetto ha il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’articolo 2059 c.c. in quanto sussiste una lesione di un diritto costituzionalmente protetto[23].
Con riferimento ai simboli religiosi negli spazi pubblici appare opportuno un bilanciamento tra diversi principi, se da un lato emerge la laicità dello Stato e le problematiche attinenti all’esposizione pubblica del fattore religioso, dall’altro il diritto di poter manifestare il proprio credo attraverso determinati abiti o l’utilizzo di specifici simboli religiosi.[24]
Nel nostro ordinamento non vi sono norme che vietano l’utilizzo di simboli religiosi, anche per quanto riguarda l’abbigliamento, quando sia sempre possibile l’identificazione del soggetto non si pongono problemi; pochi sono i riferimenti normativi in tale ambito, ai sensi dell’articolo 5 della legge n. 152 del 1975 si sottolinea come sia vietato l’uso di abbigliamento o accessori che non permettono l’identificazione del soggetto in luoghi pubblici senza giustificato motivo.
Tale norma modificata dall’art. 10, comma 4 bis dalla legge n. 155/2005, riprendendo il testo precedente evidenzia come l’ordinamento vuole assicurare che i soggetti possano essere riconosciuti e in occasione di manifestazioni svolte in luogo pubblico vieta l’utilizzo di mezzi che non permettono di riconoscere la persona in quanto ciò è considerato di possibile ostacolo alla pubblica sicurezza.
Con riferimento, per esempio, all’utilizzo del velo islamico questo non impedisce il riconoscimento e in quanto il suo utilizzo può rientrare nel giustificato motivo, poiché legato ad aspetti religiosi, il suo impiego non può essere limitato; l’uso di tali accessori infatti è legato ad un sentimento religioso e non alla volontà di rendere difficoltoso il riconoscimento del soggetto da parte dell’ordinamento.
Su questa scia, infatti, il Consiglio di Stato nella sentenza 3076/2008 ha affermato che «Il citato art. 5 della legge del 1975 consente nel nostro ordinamento che una persona indossi il velo per motivi religiosi o culturali», comprendendo nella nozione di velo anche il velo integrale, accettando quindi la motivazione religiosa come elemento esente il divieto; le esigenze di pubblica sicurezza, con le quali l’utilizzo del velo potrebbe scontrarsi, potranno essere adempiute con la possibile e momentanea rimozione del velo per permettere la identificazione qualora appaia come necessario.
L’ordinamento italiano al fine di tutelare il diritto di libertà religiosa, con la Circolare del Ministero dell’Interno del 14 marzo 1996, n. 4 ha dato l’opportunità alle amministrazioni comunali di rilasciare documenti identificativi anche se nella foto utilizzata negli stessi il soggetto ha il capo coperto, limite imposto però è che i tratti somatici siano riconoscibili.
L’identità religiosa, esplicandosi con l’utilizzo di simboli, può scontrarsi con le norme dell’ordinamento; un esempio che ha interessato la giurisprudenza è stato l’utilizzo di un turbante e un pugnale, il kirpan.
Il porto del coltello giustificato dall’appartenenza ad una determinata religione, potrebbe trovare tutela nell’articolo 19 della Costituzione: il coltello, come il turbante, è un simbolo strettamente connesso alla propria religione e l’utilizzo degli stessi costituisce l’adempimento di un dovere religioso.
Se la giurisprudenza in primo momento non ha limitato l’utilizzo di tali simboli in quanto espressivi del proprio credo, soprattutto perché tale pugnale è stato considerato di piccole dimensioni e non qualificabile come arma bianca, nel 2017 la Cassazione ribalta il suo orientamento definendo il kirpan come arma e condannando per porto d’armi il soggetto che lo dovesse indossare.
La Corte ha giustificato tale scelta invitando i soggetti a conformare i propri valori a quelli portati avanti nel mondo occidentale e, al fine di garantire la sicurezza pubblica, ha ritenuto possibile limitare l’utilizzo di oggetti atti ad offendere, seppur il loro uso potrebbe essere giustificato in un’ottica di libertà religiosa.[25]
La Corte afferma come «la libertà religiosa, garantita dall’articolo 19 invocato, incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell’ordine pubblico».
Il diritto all’identità religiosa non può subire compressione in ambito lavorativo in quanto lo statuto dei lavoratori impone al datore di lavoro il divieto di svolgere indagini sugli orientamenti religiosi, secondo quanto prescritto dall’art. 8, legge 20 maggio 1970, n. 300; affinché questo diritto possa essere tutelato, al lavoratore deve essere data l’opportunità di rispettare gli adempimenti richiesti dal proprio credo come il rispetto di determinate festività, il consumo di cibi, e la non attribuzione di specifiche mansioni che per motivi religiosi non potrebbe svolgere: questi aspetti saranno soddisfatti nel rispetto delle esigenze organizzative del posto di lavoro e al fine di garantire i servizi essenziali.
Opportuno è tutelare il diritto alla riservatezza degli individui nelle proprie scelte religiose, in quanto diritto all’autodeterminazione inteso come possibilità di compiere scelte senza subire convincimenti esterni[26]; se infatti sussiste il principio di neutralità dello Stato e, quindi, un disinteresse dello stesso alle scelte religiose dei soggetti, il principio di riservatezza potrebbe incontrare delle limitazioni che possono apparire come funzionali per il pieno godimento e rispetto del proprio credo: nell’ambito lavorativo, per esempio, il dichiarare la propria appartenenza religiosa dà l’opportunità al soggetto di godere di prerogative strettamente connesse alla propria fede.[27]
Arduo è il comprendere quando sia possibile limitare o comprimere l’identità religiosa in quanto determinati comportamenti appaiono in contrasto con altri diritti meritevoli di tutela.
Problematico appare il caso in cui occorre stabilire se vi sia un’esenzione da obblighi giuridici quando questi siano in contrapposizione con i dettami di un determinato credo religioso; affermare che l’appartenenza ad uno specifico credo faccia acquisire in automatico un’esenzione da un obbligo provocherebbe una disparità di trattamento tra i soggetti, sarebbe inopportuna un’esenzione riconosciuta a quei soggetti che professino una determinata religione e non stabilire una tutela anche a coloro i quali si trovino in conflitto con i precetti riconosciuti da tale credo: la soluzione sarà opportunamente presa con riferimento al caso concreto e nel bilanciamento degli interessi coinvolti di volta in volta.
[1] R. BENIGNI, Diritto e religione in Italia: principi e temi, Romatre-press, Roma, 2021, pp. 97 e ss.
[2] A. MANTINEO, Diritto, società e religione. I settant’anni nell’Italia repubblicana, tratto dal volume Costituzione, religione e cambiamenti nel diritto e nella società a cura di P. CONSORTI, Pisa University Press srl, Pisa, 2019, pp. 55 e ss.
[3] P. CONSORTI, Costituzione, religione e cambiamenti nel diritto e nella società, Pisa University Press srl, Pisa, 2019, pp. 2 e ss.
[4] Ai singoli Stati membri dell’Unione europea è demandata in via esclusiva la normazione con riferimento all’identità religiosa e confessionale.
[5] Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo all’articolo 18 si afferma il diritto di ogni individuo alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale dichiarazione pur non avendo valore giuridico vincolante, in quanto raccomandazione, assume un significato morale importantissimo.
[6] La libertà religiosa, tanto come diritto individuale che collettivo, riceve tutela anche dall’art. 9 della CEDU, convenzione vincolante per lo Stato italiano in seguito alla ratifica avvenuta con la legge n. 848 del 4 agosto 1955. 162 R. BENIGNI, Diritto e religione in Italia: principi e temi, Romatre-press, Roma, 2021, pp. 97 e ss.
[7] N. FIORITA, Libertà religiosa e uguaglianza: itinerari, attori e contraddizioni di un percorso non lineare, tratto dal Volume Costituzione, religione e cambiamenti nel diritto e nella società a cura di P. CONSORTI, Pisa University Press S.r.l., Pisa, 2019, pp. 117 e ss.
[8] J. MARTINEZ- TORRON, La (non) protezione dell’identità religiosa dell’individuo nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 55-85.
[9] C. CARDIA, Libertà religiosa e multiculturalismo, Rivista telematica Stato, Chiese e pluralismo confessionale,
2008, p. 8-9
[10] P. LILLO, Il diritto all’identità religiosa negli ordinamenti statali, in Quad. dir. pol. eccl., Il Mulino, Bologna, 2015, 2, pp. 369-372
[11] F. VIOLA, Il ruolo pubblico della religione nella società multiculturale, in Multiculturalismo e identità a cura di C. VIGNA, S. ZAMAGNI, Vita e Pensiero, Milano, 2002, pp. 107- 138
[12] Corte Cost., 12 aprile 1989, n. 203, in www.cortecostituzionale.it
[13] L’impostazione della Costituzione del 1948 era stata anticipata da F. RUFFINI, La libertà religiosa come diritto pubblico subbiettivo (1924), riedito da Il Mulino, Bologna, 1992
[14] L’art. 1 dei Patti Lateranensi, trattato che regolamentava i rapporti tra il Regno d’Italia e la Santa Sede, riconosceva la religione cattolica apostolica e romana come l’unica religione dello Stato; con la modifica di tale trattato, avvenuta con gli Accordi di Revisione del 18 febbraio del 1984, si assiste all’abrogazione dell’articolo 1 contribuendo a porre le basi per l’affermazione della laicità dello Stato, qualificazione che verrà sancita in maniera solenne con la sentenza n. 203 del 12 aprile del 1989.
[15] Gli accordi tra Santa Sede e Stato italiano costituzionalizzati per volontà della stessa Assemblea costituente, appaiono in contrasto con il principio di libertà e uguaglianza religiosa; ciò va riletto alla luce del fatto che la Carta costituzionale fu il frutto di un compromesso e come forte sia stata la volontà di continuità con la politica ecclesiastica che faceva assumere alla Chiesa cattolica un ruolo di primo piano.
[16] P. CONSORTI, Conflitti, mediazione e diritto interculturale, Pisa University press, Pisa, 2013, pp. 23 e ss.
[17] Per una definizione di buon costume: Corte Cost. 19 febbraio 1965, n. 9 e Corte Cost. 8 ottobre 2000, n. 293. 174 Relazione predisposta in occasione dell’incontro della delegazione della Corte costituzionale con il tribunale costituzionale della Repubblica di Polonia, I diritti fondamentali nella giurisprudenza della Corte costituzionale, pp. 29 e ss, 30-31 marzo 2006, Online: STU185_principi.pdf 175 Diritto a cambiare il proprio credo o convincimento.
[18] P. A. D’AVACK, Il problema storico giuridico della libertà religiosa, Bulzoni, Roma 1964, p.180
[19] Corte cost., 19 dicembre 1991, n. 467, in www.giuricost.org
[20] P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 63.
[21] L’utilizzo del velo da parte delle donne musulmane risponde al rispetto di un precetto religioso, indossarlo è una scelta personale con la finalità di consolidare il rapporto con il divino e la devozione della donna nei suoi confronti; rispondendo ad una scelta dettata dalla propria coscienza l’utilizzo del velo potrebbe essere legato alla volontà di manifestare esternamente la propria identità religiosa.
[22] Il Kirpan è un pugnale indossato dai seguaci del Sikh, accessorio che simbolicamente investe il soggetto della qualifica di soldato di Dio e il suo utilizzo è connesso all’autodifesa e alla protezione dei soggetti fragili.
[23] F. VIOLA, Il ruolo pubblico della religione nella società multiculturale, in Multiculturalismo e identità a cura di C. VIGNA, S. ZAMAGNI, Vita e Pensiero, Milano, 2002, pp. 107- 138
[24] Su questa direzione si muove la Corte Edu, sez. II, Lachiri c. Belgio, 18 settembre 2018, n. 3413/09, in https://eurlex.europa.eu/homepage.html. che ha affermato come vietare il velo islamico in pubblico si pone in contrasto con il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione sancito all’art. 9 della CEDU; la legge che dovesse vietare l’utilizzo del velo in luoghi pubblici pone in essere una discriminazione che lede il diritto al rispetto della vita privata e dell’identità religiosa.
[25] Cass. pen., sez. I, 15 maggio 2017, n. 24084, in Giur. It., 2017, n. 10
[26] D. MILANI, La tutela dei dati personali di natura religiosa, in Nozioni di diritto ecclesiastico, a cura di G. CASUSCELLI, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 447 ss.
[27] Di particolare avviso è la Corte di Giustizia dell’Unione europea che si è espressa il 14 marzo 2017 sulla possibilità di vietare nelle ore di lavoro di indossare il velo islamico o altri simboli religiosi particolarmente evidenti, nel caso in cui però, sussistano particolari circostanze.
Con la sentenza 15 luglio 2021, cause riunite C-804/18 e C-341/19, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ritorna su tale tematica affermando che i datori di lavoro hanno la facoltà di vietare ai loro stipendiati l’utilizzo di abiti e accessori legati a tradizioni religiose o aspetti tali da rendere nota a terzi la loro appartenenza ad un determinato credo o ideologia. Tale facoltà è esercitabile quando il titolare vuole trasmettere ai propri clienti l’immagine della sua azienda in termini neutri e non legati a credenze religiose o politiche ed evitare che in presenza di diverse simbologie si possa creare un conflitto tra i dipendenti stessi; la neutralità deve rispondere ad esigenze reali che il datore di lavoro si trova ad affrontare nel contesto aziendale e che appaiono come idonee a prevalere sui diritti afferenti alla sfera religiosa: l’esigenza di neutralità dovrà essere valutata in concreto dai tribunali che si troveranno a dirimere eventuali controversie.
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Avvocata presso il Foro di Cosenza.
Nel corso della mia formazione professionale ho maturato esperienza nel diritto civile, diritto del lavoro e diritto di famiglia, specificamente in materia di proprietà e diritti reali, contrattualistica, locazione, procedure esecutive, responsabilità civile, risarcimento danni, gestione e recupero del credito, separazioni e divorzi.
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