L’illecita concorrenza: l’arresto delle Sezioni Unite (13178/2020)

L’illecita concorrenza: l’arresto delle Sezioni Unite (13178/2020)

Cass. pen., Sez. Un., 28/04/2020, n.13178

Le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere il contrasto giurisprudenziale formatosi sul concetto di ‘atti di concorrenza’ nella fattispecie di cui all’art. 513-bis c.p..

La fattispecie in oggetto punisce la condotta di chi “nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia”.

La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite è se per la configurabilità del reato “sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali oppure sia sufficiente il solo compimento di atti di violenza o minaccia idonei a contrastare od ostacolare l’altrui libertà di concorrenza”.

Il fatto da cui ha preso le mosse il procedimento penale riguarda le aggressioni e le minacce attuate da due soggetti nei confronti di un lavoratore di un’impresa concorrente per costringerla a cessare la propria attività sul territorio ritenuto di propria esclusiva competenza.

I ricorrenti, condannati in primo e secondo grado, hanno eccepito la non configurabilità del delitto di cui all’art. 513 bis c.p. poiché l’ambito operativo della norma sarebbe ristretto alle sole condotte violente o minatorie tipicamente concorrenziali (boicottaggio, storno etc.) con esclusione di atti intimidatori finalizzati alla compressione della libera concorrenza.

In effetti, sull’interpretazione da dare alla locuzione “atti di concorrenza” si sono registrati tre diversi orientamenti giurisprudenziali che hanno determinato la Terza Sezione penale a rimettere il ricorso alle Sezioni Unite.

L’origine del contrasto giurisprudenziale va ricercata nella ambiguità della formulazione del testo dell’art. 513-bis c.p. dettata dall’urgenza storico-politica di far fronte ad «un comportamento tipico mafioso di scoraggiare la concorrenza».

Nonostante la norma introdotta con l’art. 513-bis nascesse con l’intento di fronteggiare l’emergenza legata a fenomeni di criminalità organizzata (cd. “mafia imprenditrice”) la struttura della fattispecie incriminatrice non ha dato connotazione specializzante alla condotta.

Tale genericità ha segnato il percorso evolutivo seguito dalla giurisprudenza che con un primo orientamento ha inteso dare alla norma un’interpretazione aderente al dato letterale della disposizione, mentre, con un secondo indirizzo, ha valorizzato la ratio legis e la tensione teleologica dell’azione, giungendo ad una sostanziale equiparazione tra l’atto violento o minaccioso e atto di concorrenza sleale commesso con violenza o minaccia, con rischi di compressione del principio di tassatività e determinatezza della legge penale .

Il primo orientamento, richiamato dai ricorrenti, ritiene sussumibili nella fattispecie “solo i comportamenti competitivi tipici che si prestino ad essere realizzati con mezzi vessatori, ossia con violenza o minaccia nei confronti di altri soggetti economici tendenzialmente operanti nello stesso settore[1]. Vi rientrano, pertanto, comportamenti quali il boicottaggio, lo storno di dipendenti ed il rifiuto di contrattare, tipi atti di concorrenza ricondotti all’attività di impresa.

Sulla scorta di tale paradigma interpretativo le condotte violente o minacciose nelle quali la limitazione della concorrenza costituisce solo la mira teleologica dell’agente, devono ricondursi ad altre fattispecie criminose come ad esempio l’estorsione[2].

Il secondo orientamento sostiene, invece, che “sono sussumibili nella fattispecie in esame tutte le attività violente e minacciose che attuano una concorrenza illecita finalizzata al controllo o alla limitazione del libero esercizio dell’attività di impresa”[3].

Secondo tale impostazione le condotte riconducibili alla fattispecie in esame sono quelle lesive dei beni giuridici tutelati: il buon funzionamento del sistema economico e la libera determinazione nell’esercizio della sua attività commerciale[4].

Dalla linea ermeneutica tracciata dal secondo orientamento ha preso le mosse un terzo indirizzo interpretativo che tenta di ricostruire una definizione del concetto di “atti di concorrenza” che tenga conto sia della ratio della norma incriminatrice sia della nozione di atti di concorrenza che emerge dalla legislazione italiana ed europea di riferimento.

Su tale spinta è stato affermato che la condotta materiale del delitto previsto dall’art. 513 bis c.p. può essere integrata da tutti gli atti di concorrenza sleale previsti dall’art. 2598 c.c. e dal compimento di atti contrari alla normativa comunitaria previsti nella legge 10 ottobre 1990, n. 287.

In particolare questa ultima norma tipizza le condotte di concorrenza sleale parassitaria (n. 1 e 2) e contiene una norma di chiusura che qualifica in termini di ‘atti di concorrenza’ tutti i comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda[5].

Su tale contrasto sono intervenute le Sezioni Unite affermando il seguente principio di diritto: «ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis cod. pene è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un ‘attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente».

A tale soluzione si giunge spiegando che i soggetti attivi o passivi del reato non vanno individuati in modo formale nelle qualifiche civilistiche di commerciante, industriale o produttore, ma semplicemente nell’espletamento in concreto di attività che si inseriscono nella dinamica commerciale, industriale o produttiva[6].

Una specifica valenza selettiva, ai fini della individuazione della condotta, è stato assegnato al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice che tutela sia il corretto funzionamento del sistema economico sia la sfera soggettiva della libertà di autodeterminazione nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva[7].

Dall’analisi del percorso argomentativo seguito dalla Corte possiamo trarre alcune conclusioni.

Ancorare la definizione di ‘atti di concorrenza’ alla legislazione settoriale di matrice nazionale ed europea è stato un tentativo di arginare il rischio (pur sempre presente) di compressione dei principi di tassatività e determinatezza della fattispecie criminale posti a presidio della tutela dell’imputato.

La riferibilità degli atti a specifiche direttive interpretative di matrice normativa, non hanno condizionato, sul piano soggettivo, la riferibilità della fattispecie a determinate categorie di soggetti come avviene nei reati c.d. propri. È stato lasciato all’interprete, invece, ampio margine sulla riferibilità della qualifica specializzante del soggetto attivo e passivo del reato, svincolandoli da definizioni ancorate a rigide etichette di matrice normativa.

L’arresto giurisprudenziale in commento, per concludere, conferma una determinata linea interpretativa seguita dalla giurisprudenza, volta ad ampliare la portata applicativa della fattispecie incriminatrice al fine di contrastare fenomeni criminosi di portata e dislivello sempre più variegati e non sempre legati a contesti di criminalità organizzata.

 

 

 


[1] Corte di Cassazione, Terza Sezione penale, n. 16195 del 06/03/2013.
[2] Secondo tale orientamento non può accogliersi l’interpretazione che tende a ritenere integrato il tipo di reato nel caso di violenza o minaccia finalisticamente connotata dall’intenzione di scoraggiare l’altrui concorrenza poiché non può essere considerata conforme al dato testuale e che pone problemi di violazione del principio di tassatività.
[3] Corte di Cassazione, Sez. 6, n. 24741 del 05/05/2015, Iacopino.
[4] Siffatta linea interpretativa, dunque, si esprime in senso favorevole ad un’applicazione quanto più generalizzata della norma, proiettata non solo al di fuori del contesto proprio della criminalità organizzata, ma anche verso una prospettiva di tutela nei confronti di eventuali atti di concorrenza sleale “atipici”, e comunque non limitati all’area dl incidenza della disciplina civilistica della concorrenza sleale emergente dagli artt. 2595 ss. c.c.
[5] Per tali ragioni si afferma che tale condotta deve ritenersi lesiva del principio della libera concorrenza intesa come concorrenza effettiva tra imprese sul mercato da intendere nella più ampia prospettiva risultante dall’analisi dell’intero quadro normativo comunitario (ex artt. 101, 102, 120 TFIJE, 16 CDFUE), i cui principii, in considerazione della prevalenza riconosciuta sulle relative norme interne ex artt. 11 e 117 Cost., si impongono anche nell’interpretazione della disposizione di cui all’art. 2598 cod. civ .
[6] Si veda Corte di Cassazione, Sez. 6, n. 6055 del 24/06/2014, dep. 2015, Amato.
[7] Si veda Corte di Cassazione, Sez. 3, n. 44169 del 22/10/2008, Di Nuzzo.

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Avvocato e Dottore di Ricerca. In ambito accademico ha svolto attività di ricerca scientifica in storia del diritto penale medievale e moderno. In ambito forense si è occupato di reati bancari, societari, amministrativi, ambientali e di contenzioso bancario per conto di società fiduciarie di principali gruppi bancari italiani ed europei.

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