L’illecito colposo: analisi e criticità di una dimensione punitiva multifattoriale

L’illecito colposo: analisi e criticità di una dimensione punitiva multifattoriale

Sommario: 1. Premessa: il fondamento politico – sociale della responsabilità colposa – 2. La “doppia misura” della colpa – 3. Un connubio meramente apparente: causalità della condotta e causalità della colpa – 4. Regole cautelari c.d. “rigide” ed “elastiche”: una difficile coesistenza

 

1. Premessa: il fondamento politico – sociale della responsabilità colposa

Com’è noto, l’ordinamento giuridico, in vista dell’esigenza di garantire ad ogni bene giuridico uno standard minimo di protezione, non si limita a perseguire penalmente soltanto quelle condotte finalisticamente orientate verso un determinato risultato lesivo, ma pretende, altresì, mediante l’espediente delle fattispecie c.d. “colpose”, che ogni condotta umana, benché non contrassegnata dalla più intensa forma di elemento soggettivo del dolo, sia comunque attuata con modalità tali da scongiurare la messa in pericolo o la lesione di interessi comunque meritevoli di protezione.

Volendo, infatti, tentare di individuare il fondamento ontologico dell’illecito colposo è possibile affermare, alla luce dei più recenti approdi cui è addivenuta la moderna scientia juris, che esso risieda proprio nella stessa pretesa vantata dall’ordinamento penale nei confronti dei consociati affinché quest’ultimi, nell’ambito della ordinaria vita relazionale, siano in grado di controllare i risvolti causali connessi al proprio agire, di guisa che non ne derivi un nocumento giuridicamente apprezzabile.

2. La “doppia misura” della colpa

Entrando più nello specifico della presente disamina, è d’uopo evidenziare come nel nostro ordinamento la traccia normativa del regime d’imputazione colposa è scolpita all’interno dell’art. 43 co. 3 c.p., il quale, per inciso, stabilisce espressamente che il delitto “è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Posta tale doverosa premessa, avuto riguardo al profilo strutturale della fattispecie in discorso, tanto la giurisprudenza, quanto la più accorta dottrina sembrano oramai largamente prediligere, tra le tante, la tesi propugnante la c.d. “doppia misura” della colpa.

Il fondamento assiologico di tale impostazione epistemologica, in accordo alla progressiva opera di sedimentazione della concezione “normativa” della colpevolezza, impone all’operatore del diritto non soltanto di verificare che la condotta messa in atto dal soggetto attivo del reato corrisponda alla violazione di una regola di cautela predeterminata (c.d. dimensione oggettiva della colpa), occorrendo, altresì, valutare se nello specifico sviluppo causale innescatosi siano riscontrabili elementi tali da cui dedurre, con valutazione da effettuarsi secondo un giudizio prognostico edificato ex ante, l’obiettiva capacità dell’agente di osservare le regole cautelari che si assumono essere state violate (c.d. dimensione soggettiva della colpa).

Ulteriormente, ai fini di completezza espositiva, non è dato esimersi in tale sede dal rammentare la necessaria distinzione, anch’essa oramai ampiamente consolidata in dottrina, tra le ipotesi di colpa c.d. generica e specifica.

Segnatamente, mentre nella prima delle forme di manifestazione dell’illecito colposo il fondamento del rimprovero mosso nei confronti del soggetto agente trova la sua genesi nell’inosservanza delle basilari regole di prudenza e perizia ritenute socialmente condivisibili, nell’ipotesi di ascrivibilità a colpa specifica, viceversa, vengono in rilievo regole di condotta a carattere tipizzato, espressive di una determinata finalità cautelare.

Nondimeno, avuto specifico riguardo alla categoria della colpa specifica, la mera inosservanza di regole di cautela normativamente prefissate, pur rappresentando un ineludibile corredo della tipicità colposa, non autorizza, ex se, il ricorso alla sanzione penale, dovendo, altresì, appurarsi, in vista del postulato – sempre più avvertito nell’odierno panorama giuridico – di “individualizzazione” della penale responsabilità, se l’evento in concreto verificatosi corrisponda a quello che la norma mirava a prevenire.

Tanto basta per agevolmente comprendere come la mera titolarità di una posizione di garanzia (fonte primaria dell’addebito colposo) non possa di per sé costituire una sufficiente base d’inferenza per avvalorare un automatico addebito di responsabilità, stante la ineludibile necessità di apprezzare il grado di evitabilità e prevedibilità esigibile nello specifico sviluppo causale innescato.

Nella medesima direzione, inoltre, si pone la maggioritaria giurisprudenza del Supremo Consesso di legittimità, presso la quale è stato più volte efficacemente lumeggiato come “in tema di reati colposi, l’elemento soggettivo del reato richiede non soltanto che l’evento dannoso sia prevedibile, ma altresì che lo stesso sia evitabile dall’agente con l’adozione delle regole cautelari idonee a tal fine (cosiddetto “comportamento alternativo lecito”), non potendo essere soggettivamente ascritto per colpa un evento che, con valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato.” (cfr. Cass. Pen. Sez. IV, n. 34375/2017).

3. Un connubio meramente apparente: causalità della condotta e causalità della colpa

Ebbene, sulla scorta del cennato insegnamento ermeneutico, è possibile affermare che l’indagine circa la sussistenza del comportamento colposo, pur postulando la sussistenza di una condotta antigiuridica, non può in essa risolversi, dovendo, altresì, l’onere valutativo che incombe sul giudicante estendersi sino a ricomprendere il grado di evitabilità in concreto dell’evento dannoso (cd. causalità della colpa).

Ciò vale a dire che, per addivenire ad una compiuta statuizione in ordine alla penale responsabilità, unitamente alla verifica della c.d. concretizzazione del rischio, è necessario appurare, sulla scorta di un giudizio controfattuale edificato su base doppiamente ipotetica, l’attitudine del comportamento lecito prescritto a scongiurare la realizzazione dell’evento lesivo alla stregua della ragionevole certezza normativamente imposta dall’art. 533 del codice di rito.

Accolta, dunque, la concezione normativa della colpevolezza, occorre, altresì, precisare che la già citata dimensione della causalità della colpa, non deve essere sovrapposta al profilo della cd. causalità della condotta, ossia del legame materiale che deve necessariamente intercorrere tra il comportamento antidoveroso e l’evento lesivo.

Trattasi, come è stato più volte efficacemente lumeggiato, di piani concettuali che, quantunque inestricabilmente correlati, non possono affatto dirsi coincidenti, in quanto preposti ad una funzione epistemologica distinta.

Ed invero, mentre il profilo dell’accertamento della sussistenza del nesso eziologico si sostanzia in un giudizio esplicativo ex post, di natura bifasica, avente ad oggetto la relazione che lega la condotta tenuta dal soggetto agente all’evento lesivo verificatosi, viceversa, ove si tratti di verificare l’eventuale efficacia impeditiva della condotta alternativa lecita, ci si muove su di un diverso piano concettuale, connotato da una spiccata ottica predittivo-ipotetica.

Attraverso siffatto scrutinio, infatti, diversamente dall’analisi – di tipo eminentemente naturalistico – involgente la sussistenza del nesso di condizionamento materiale, si richiede al Giudice di sostituire, mediante l’applicazione di un giudizio prognostico da effettuarsi con valutazione ex ante, la condotta antidoverosa con il comportamento osservante omesso, con il precipuo scopo di verificarne l’idoneità a scongiurare il risultato lesivo verificatosi.

4. Regole cautelari c.d. “rigide” ed “elastiche“: una difficile coesistenza

Non sempre, tuttavia, la verifica della violazione cautelare che doveva essere osservata nel caso concreto costituisce compito ermeneutico di agevole risoluzione.

Ciò, molto spesso, deriva dal diverso grado di sufficienza contenutistica della regola cautelare di volta in volta in rilievo.

A questo proposito, appare utile rammentare la distinzione tra norme cautelari rigide ed elastiche.

Di tale distinzione in giurisprudenza è possibile rinvenire un’appropriata identificazione concettuale.

In particolare, si è precisato che costituisce “regola cautelare elastica quella che necessità, per la sua applicazione, di un legame più o meno esteso con le condizioni specifiche in cui l’agente deve operare; mentre quelle cosiddette rigide fissano con assoluta precisione lo schema di comportamento” (cfr. Cass. Pen. Sez. IV, n. 29206/2007).

Ne discende che, sul piano pratico, mentre l’individuazione della violazione cautelare risulta senz’altro più agevole laddove il suo contenuto risulti sufficientemente circoscritto, di contro, siffatta indagine euristica assume una più ardua connotazione laddove si assuma la violazione di una regola cautelare c.d. “elastica”, e cioè di una regola che, per intrinseche ragioni fisiologiche, pone non irrilevanti problemi di definizione contenutistica.

Emblematiche, al riguardo, risultano essere alcune delle regole di condotta relative al settore della responsabilità colposa derivante da sinistri stradali.

Si pensi, volendo esemplificare, alla disposizione normativa di cui all’141 del Codice della Strada.

Tale norma, infatti, prescrive al conducente di tenere una velocità di tipo “prudenziale”, ma omette di individuare un contenuto precettivo valevole in ogni caso.

Tuttavia, malgrado alcune le regole cautelari del tipo di quella appena citata non godano di sufficiente privilegio contenutistico, lo stesso privilegio non può essere accordato all’accertamento giudiziario, il quale, viceversa, in ossequio all’irriducibile corollario costituzionale della “presunzione d’innocenza“, dovrà pur sempre essere improntato – sul piano soggettivo – verso la ricerca “in concreto” del grado di prevedibilità dell’evento e della esigibilità del comportamento lecito prescritto.

Diversamente opinando, infatti, non soltanto si rischierebbe di ricondurre l’accertamento della responsabilità colposa entro l’alveo dell’oramai desueto (o quasi) brocardo del versari in re illicita, ma si finirebbe, altresì – e questo sarebbe il rischio più grande – per vanificare gli innumerevoli sforzi compiuti nel tempo dalla giurisprudenza costituzionale[1] per addivenire, sul piano normativo, ad una compiuta identificazione di una responsabilità colposa realmente “colpevole.

 

 

 

 

 


[1] cfr. in proposito, ex multis, Corte Costituzionale, Sentenza n. 1085 del 13.12.1988

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Gabriele Ferro

Laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Siena, attualmente praticante avvocato, con predilezione per il settore del diritto penale sostanziale e processuale.

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