Limiti legali della proprietà: l’incidenza dei regolamenti edilizi in tema di distanze tra fabbricati

Limiti legali della proprietà: l’incidenza dei regolamenti edilizi in tema di distanze tra fabbricati

Sommario: Premessa – 1. Evoluzione storica del concetto di proprietà – 2. Limiti al diritto di proprietà – 3. Le distanze legali: la disciplina ex art. 873 c.c. – 4. Gli strumenti urbanistici locali – 5. Le forme di tutela

Premessa

La trattazione della tematica relativa all’incidenza della normativa regolamentare sulla disciplina codicistica del diritto di proprietà implica un preliminare, sia pur breve, excursusstorico-sistematico circa l’evoluzione di tale diritto nella coscienza sociale e nel corpusnormativo del nostro paese. Evoluzione, questa, che dà la stura ad un diritto non più illimitato, secondo la visione liberal-ottocentesca, ma che soggiace a precisi limiti e vincoli onde assicurarne la “funzione sociale” di cui all’art. 42 della Carta Costituzionale.

1. Evoluzione storica del concetto di proprietà

Il diritto di proprietà rientra nella categoria dei diritti reali la quale, di elaborazione successiva al diritto romano, raggruppa i diritti di carattere patrimoniale su cosa materiale determinata. Tradizionalmente si individuano tre fondamentali caratteristiche dei diritti reali: assolutezza, immediatezza ed inerenza. Per assolutezza s’intende, da un lato, il dovere di tutti i cittadini di astenersi dall’interferire nel rapporto tra il titolare del diritto ed il bene che ne costituisce oggetto e, dall’altro, la possibilità per il titolare del diritto di farlo valere erga omnes. La caratteristica dell’immediatezza, invece, riguarda il rapporto diretto che sussiste tra il titolare del diritto ed il bene e sottende la possibilità giuridica di soddisfazione degli interessi connessi a prescindere dalla collaborazione di altri soggetti.

La concezione attuale e codicistica della proprietà si differenzia nettamente da quella liberal-ottocentesca e costituisce l’approdo di un lungo percorso evolutivo sintomatico del mutamento dei rapporti sociali ed economici registratosi nel corso degli anni.

Invero, l’art. 29 dello Statuto Albertino stabiliva che “tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili”.

L’art. 436 c.c. del 1865, alla stregua dell’addentellato normativo di cui al Code Napoléon, stabiliva che “la proprietà è il diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta”. Dall’esegesi di tali disposizioni emerge il chiaro disfavore verso ogni tipo di peso imposto al diritto di proprietà.

L’attuale disciplina contenuta nell’art 832 c.c. enuncia il principio secondo cui “il proprietario ha diritto di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo”. A ben vedere, il concetto liberale di “assolutezza” del diritto viene sostituito da quello di “pienezza” (ius utendi et abutendi), quale formula genericamente più ampia ed idonea a consentire al titolare del diritto ogni utilizzazione lecita del bene e che identifica gli elementi comuni ai vari contenuti che il diritto di proprietà può assumere in rapporto alla diversa natura delle numerose categorie di beni che possono formarne oggetto.

L’affrancamento dalla concezione liberal-ottocentesca si compie definitivamente con la Carta Costituzionale del ’48, la quale non annovera la proprietà tra i “principi fondamentali” (artt. 1-12), né fra i “diritti di libertà” (artt. 13-28), bensì tra i “rapporti economici” contemplati nel Titolo II della Parte I (artt. 42-44), accogliendo il principio della funzione sociale, in base al quale il proprietario può godere del bene solo entro i limiti in cui il godimento sia giustificato da motivi di interesse generale [1].

In applicazione di siffatte coordinate costituzionali -a partire dal dopoguerra- si è assistito ad una serie dilagante di interventi legislativi che hanno, in misura più o meno icastica, inciso sui singoli statuti proprietariIn definitiva, per effetto di un’evoluzione di tal fatta – nozionistica e culturale – della materia della proprietà, le facoltà attraverso le quali si esplica il diritto ex art. 832 c.c. sono fondamentalmente illimitate, ma la signoria del proprietario sulla res trova il proprio confine e limite nelle diverse limitazioni imposte dalla legge.

2. Limiti al diritto di proprietà

I limiti della proprietà ricavabili dal codice civile possono essere ricondotti a due categorie: limiti imposti per ragioni di pubblico interesse e limiti imposti per salvaguardare i concorrenti diritti di altri soggetti privati. L’apposizione di tali limiti ha lo scopo di contemperare due opposti interessi: quello del proprietario di godere e disporre della cosa in modo pieno ed esclusivo e quello della collettività ad un utilizzo vantaggioso (rectius: non lesivo) per la generalità dei consociati.

La prima categoria di limiti comprende anzitutto l’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità (artt. 42 e 834 c.c.), la requisizione e l’imposizione di vincoli per necessità pubbliche (art. 835 c.c.).

L’espropriazione per pubblica utilità è quell’istituto di natura ablatoria in virtù del quale la pubblica amministrazione può, con un provvedimento, acquisire o far acquisire, per esigenze di interesse pubblico, la proprietà o altro diritto reale su un bene, indipendentemente dalla volontà del titolare e previo indennizzo. L’espropriazione è retta da due principi fondamentali: quello di legalità (per cui la pubblica amministrazione può espropriare i beni solo nei casi previsti dalla legge ex art. 23 Cost.) e quello del previo indennizzo (art. 42.3) per cui lo Stato deve corrispondere una somma al titolare del bene onde compensarlo della perdita, secondo criteri di legge.

La requisizione è un provvedimento che priva un soggetto del proprio diritto di proprietà ma, a differenza dell’espropriazione, non basta un generico pubblico interesse, occorrendo gravi e urgenti necessità e può incidere solo su beni mobili.

Infine, la proprietà può subire limitazioni anche a seguito di vincoli imposti dall’autorità pubblica di natura conformativa (che non danno diritto all’indennizzo) o di natura espropriativa (i quali, essendo finalizzati a successiva espropriazione, possono dar luogo al diritto all’indennizzo).

La seconda categoria di limiti, come detto, è posta nell’interesse di soggetti privati ed operano nei rapporti di vicinato e riguardano la proprietà immobiliare. Tali limiti riguardano, in particolare, il rispetto delle distanze nelle costruzioni (artt. 873-878 c.c.); le prescrizioni sulle luci e vedute, in modo che sia consentito il passaggio di luce ed aria e la possibilità di affaccio ai vicini (artt. 900 ss c.c.); le norme in materia di stillicidio che il proprietario costruisca i tetti in modo che le acque piovane scivolino sul suo terreno (art. 908 c.c.); le norme in materia di utilizzo di acque private (artt. 909 ss c.c.); il divieto di immissioni (art. 844 c.c.).

Con riferimento a queste ultime, se è spiegabile il divieto di immissioni materiali (scarico rifiuti, smaltimento liquami ecc.), più difficile è vietare le immissioni immateriali (fumi, calori, esalazioni) che non sono conseguenza di una indebita ingerenza nella sfera altrui bensì ipotesi in cui un’attività svolta a casa propria sia destinata a propagarsi verso l’esterno. Affinché operi il divieto, infatti, il codice ha posto il criterio del superamento della soglia di normale tollerabilità.

3. Le distanze legali: la disciplina ex art. 873 c.c.

Esaminando nello specifico la disciplina in materia di distanze minime tra costruzioni occorre soffermarsi sull’art 873 c.c. il quale prevede, nel caso di fondi finitimi o confinanti, una distanza minima di edificabilità tra una costruzione e l’altra, pari a 3 metri.

La ratio di tale disciplina va ricercata nel fine di evitare che, tra immobili che si fronteggiano da fondi appartenenti a proprietari diversi, possano crearsi intercapedini dannose per la salute, l’igiene e la sicurezza pubblica [2], a prescindere dalla circostanza che, in concreto, la costruzione sia o meno idonea a creare intercapedini atte ad arrecare pregiudizio all’igiene ed alla salubrità ambientale [3].

Il proprietario del fondo nei confronti del quale non è stata rispettata la distanza minima legale nella costruzione di un nuovo edificio può ottenere, spiccando autonoma domanda giudiziale, sia la rimessione in pristino dello stato dei luoghi, che il risarcimento del danno; tale azione viene qualificata come “actio negatoria servitutis”, essendo diretta ad impedire l’acquisto della servitù di mantenere la costruzione a distanza inferiore a quella legale.

Le domande tese a far valere la violazione dei limiti legali della proprietà non solo sono suscettibili di trascrizione ex art. 2653 c.c., ma devono essere trascritte affinché l’attore possa utilmente opporre la sentenza favorevole anche ai terzi [4].

Occorre, tuttavia, chiarire cosa si intende per “costruzione” onde perimetrare l’ambito oggettivo di applicazione della relativa disciplina. Secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità con tale termine si intende ogni opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa, dai suoi caratteri e dalla sua destinazione.

Ne consegue che gli accessori e le pertinenze che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell’immobile, così da ampliarne la superficie o la funzionalità economica, costituiscono con l’immobile un unicum [5].

Conformemente alla sua ratio, l’art 873 c.c., trova applicazione solo nel caso in cui due fabbricati si fronteggino, nel senso che supponendo di farli avanzare essi si incontrino almeno in un punto [6]. Le distanze di cui all’articolo in esame non si applicano, pertanto, nel caso di fabbricati disposti ad angolo senza avere pareti contrapposte.

Orbene, dal combinato disposto delle disposizioni del codice civile in materia di distanze fra gli edifici (artt. 873-877 c.c.) si ricava l’esistenza nell’ordinamento del c.d. “principio di prevenzione temporale”. Secondo tale principio il proprietario che costruisce per primo su un fondo contiguo ad un altro ha il potere di determinare la distanza a cui altre costruzioni andranno edificate. Egli infatti ha una triplice facoltà alternativa: costruire sul confine ed in tal caso il vicino potrà costruire in aderenza o in appoggio (pagando la metà del valore del muro ex art. 874 c.c.); costruire rispettando la distanza minima imposta ed il vicino sarà a sua volta tenuto a rispettare tale distanza; costruire con un distacco inferiore alla metà della distanza minima imposta, fatto salvo il diritto del vicino di avanzare la propria costruzione fino alla distanza preesistente, pagando il valore del suolo. In tal caso il vicino può costruire in appoggio, chiedendo la comunione forzosa del muro (pagando la metà del valore del muro ex art. 875 c.c.) o in aderenza.

La giurisprudenza, con orientamento costante, ritiene che il principio di prevenzione viene meno con il completamento, strutturale e funzionale della costruzione; esso, pertanto, non può giovare per un successivo manufatto  ancorché accessorio ad una preesistente costruzione [7].

4. Gli strumenti urbanistici locali

Per un quadro completo della disciplina deve considerarsi che l’art 873 c.c. fa salva l’ipotesi che gli strumenti urbanistici locali richiedano una distanza superiore ai tre metri previsti dal codice civile; in altri termini, alla disciplina codicistica -ed al connesso principio di prevenzione- si affiancano le singole disposizioni contenute nei piani regolatori generali e nei regolamenti edilizi locali.

Necessario è un passaggio di natura nozionistica in materia di regolamenti edilizi. Questi ultimi sono strumenti tecnici con cui si disciplina qualsiasi attività cui consegua una trasformazione urbanistica o edilizia del territorio comunale e quindi regola gli aspetti tecnici, di sicurezza e vivibilità delle costruzioni e delle loro pertinenze. Il contenuto del regolamento edilizio è normato dal Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R 380/2001). Uno dei possibili contenuti del regolamento può essere proprio quello delle distanze da rispettare tra gli edifici.

Tali regolamenti, secondo l’orientamento unanime della giurisprudenza di merito e di legittimità, hanno una funzione integratrice della disciplina generale contenuta nel codice civile, di talché, una loro violazione, conferisce al vicino la facoltà di ottenere la riduzione in pristino. Ne consegue che, qualora lo strumento urbanistico locale, successivamente intervenuto, abbia sancito l’obbligo inderogabile di osservare una determinata distanza dal confine ovvero dalle costruzioni, tale nuova disciplina vincola il preveniente che rimane tenuto, se vuole sopraelevare, all’osservanza della diversa distanza stabilita, senza alcuna facoltà di allineamento alla preesistente costruzione (a meno che la normativa regolamentare non preveda una espressa eccezione in tal senso) [8].

In senso analogo, le Sezioni Unite della Cassazione, si sono pronunciate sulla questione, affermando il principio per cui, in materia di distanze legali, le norme degli strumenti urbanistici integrano la disciplina codicistica, ove tendano ad armonizzare l’interesse pubblico ad un ordinato assetto urbanistico del territorio con l’interesse privato relativo ai rapporti intersoggettivi di vicinato[9].

Possono, per tale ragione, intervenire autonomamente fissando distanze legali fra costruzioni purché siano più ampie rispetto alla distanza minima prescritta dal codice. Non può dunque non farsi riferimento ad essi per comprendere l’applicazione concreta del principio codicistico di prevenzione.

Al riguardo, è certo che la prevenzione non operi quando gli strumenti urbanistici locali prevedono una distanza minima dal confine per l’edificabilità delle costruzioni [10].

Tale orientamento è confermato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, laddove si afferma che Il principio è derogato quando il regolamento comunale edilizio fissi la distanza non solo tra le costruzioni ma anche dal confine. Tale orientamento ha avuto  il pregio di specificare ulteriormente che sono fatte salve le ipotesi in cui il regolamento consenta ugualmente le costruzioni in aderenza o in appoggio nel qual caso il primo costruttore ha la scelta tra l’edificare a distanza regolamentare fino al limite del confine, ma non anche quella di edificare a distanza inferiore dal confine, poiché tale prescrizione ha lo scopo di ripartire tra i proprietari confinanti l’onere della creazione della zona di distacco, con la conseguente operatività del principio di prevenzione.

Nel caso in cui, invece, le disposizioni del regolamento si limitino a stabilire solo le distanze minime fra le costruzioni, senza nulla statuire sulle distanze di queste dal confine, sono ravvisabili orientamenti contrastanti.

Secondo un primo orientamento, in tali ipotesi, il principio di prevenzione avrebbe piena efficacia poiché le norme locali avrebbero efficacia integrativa della disciplina generale del codice.

Un secondo orientamento, al contrario, fa leva sul concetto di “distanza assoluta” imposto dalle norme locali ritenendo che queste contengano un riferimento implicito alla distanza al confine e, di conseguenza, non avrà applicazione il principio di prevenzione.

Un terzo orientamento, intermedio, ritiene che nel caso in esame, il principio di prevenzione non sarebbe applicabile. Tuttavia, si ritiene che sia comunque possibile edificare sul confine nel caso in cui lo spazio antistante sia libero fino alla distanza prescritta.

La seconda sezione della Cassazione, ravvisando sella questione un evidente contrasto, con l’Ord. interlocutoria del 2015, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite le quali si sono pronunciate, dopo un lungo dibattito, dopo quasi un anno [11].

Con la pronuncia in commento, le SS.UU hanno ritenuto prevalente il principio di prevenzione poiché, le norme locali, pur fissando una distanza minima assoluta fra le costruzioni, non hanno carattere inderogabile. Queste, viceversa, hanno natura integrativa della disciplina ordinaria contenuta nel codice. Di talché, per quanto non disciplinato nel singolo regolamento, trova applicazione la disciplina ordinaria.La Corte ha, inoltre, rilevato che non ostano all’operatività del principio di prevenzione né la natura pubblicistica del regolamento edilizio, né la presunta impossibilità di distribuire equamente l’onere tra i proprietari confinanti.Con riferimento alla prima questione, la Corte ha ritenuto che il principio di prevenzione possa coesistere con la normativa locale in sede di distanze: tali disposizioni sono infatti previste per la tutela dell’ordine pubblico ma anche privato.In ordine all’esigenza di assicurare l’equa contemperazione dell’onere tra i proprietari del fondo, si è ritenuto che proprio a ciò è preposto il principio di prevenzione che permette al proprietario che costruisce per secondo l’esercizio di facoltà, non opponibili al primo proprietario, che permettono di riportare ad equità la situazione fra gli interessati.Alla luce di ciò sarà possibile, nel regolamento edilizio che si limiti a fissare la distanza minima fra le costruzioni, edificare sulla linea di confine tra due fondi oppure ad una distanza inferiore alla metà di quella prevista dal regolamento.

5. Le forme di tutela

Chiarite le relazioni tra disciplina generale e regolamenti, occorre aggiungere un ultimo tassello ed occuparci delle forme di tutela esperibili nei casi di violazione della stessa. Al riguardo occorre distinguere diversi casi.

Nel caso in cui la previsione degli strumenti urbanistici risulti destinata a disciplinare proprio le distanze tra costruzioni nei rapporti intersoggettivi di vicinato e, in quanto tale, è da intendersi richiamata dall’art. 872 comma 2 c.c., la sua violazione legittima il vicino ad agire per la rimozione dell’opera abusivamente realizzata (tutela ripristinatoria) e per il risarcimento del danno sofferto (tutela risarcitoria). Le due tutele possono, in linea di principio, ritenersi complementari, in quanto la prima assicura l’eliminazione della costruzione illecita e la seconda è volta al ristoro del pregiudizio economico.

Deve ricordarsi che l’azione volta alla demolizione dell’opera illecita sul fondo vicino deve ritenersi imprescrittibile in quanto assimilata dalla giurisprudenza alla actio negatoria servitutise, altresì, perché non è volta ad accertare il diritto di proprietà dell’attore ma a respingere l’imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dar luogo a servitù.

Nel caso in cui la previsione degli strumenti urbanistici risulti, invece, dettata esclusivamente per la tutela di interessi generali, la sua violazione legittima il vicino ad agire solo per il risarcimento del danno, non per la riduzione in pristino. In materia di risarcimento del danno, e su un piano strettamente processuale, la giurisprudenza di legittimità non può considerarsi univoca, in merito alla necessità di provare la sussistenza e l’entità del concreto pregiudizio patrimoniale subito. Considerando unicamente gli orientamenti più recenti appare pacifico che non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entità del pregiudizio patrimoniale subito, potendosi considerare il danno da risarcire come compreso direttamente nella violazione delle prescrizioni in tema di distanza [12].

La stessa decisione precisa che nel caso, invece, di violazione di norme speciali di edilizia non integrative della disciplina del codice, il proprietario dl fondo contiguo è tenuto a fornire prova precisa del danno, sia in ordine alla sua esistenza che alla sua entità obiettiva.

Conclusivamente, tracciando il filo di Arianna, s’intende plasticamente superato il dogma della sacralità del diritto di proprietà senza, tuttavia, significare abdicazione delle prospettive di tutela giurisdizionale per il soggetto leso.


[1] La formula “funzione sociale”, secondo autorevole dottrina, non trasforma la proprietà privata in munus publicum, ma la connota quale diritto soggettivo demandando, al contempo, al legislatore il compito di introdurre quelle limitazioni necessarie ad assicurarne il corretto esercizio. Siffatta funzione sociale può essere perseguita mediante tre strumenti: 1) attribuzione discrezionale al proprietario di determinate facoltà di godimento; 2) regolamentazione ex legedi facoltà riconosciute; 3) obblighi di esercitare determinate facoltà.
[2] Cfr: Cass. Civ. sez II, sent. n. 5016 del 2 marzo 2018: “in materia di distanze legali, le norme di cui all’art 873 c.c., dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli, volte unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose, sono derogabili mediante accordo tra privati; viceversa, le prescrizioni contenute nei piani regolatori e negli strumenti urbanistici locali non tollerano deroghe convenzionali, in quanto dettate a tutela dell’interesse generale ad un prefigurato modello urbanistico”.
[3] V. Cass. 5 maggio 2015 n. 8935 e, più recentemente, Cass. Civ. n. 8935/2015 per la quale: “qualora sia accertata la violazione delle distanze tra costruzioni, è preclusa al giudice ogni indagine sull’idoneità dell’intercapedine ad arrecare il pregiudizio per l’igiene e per la salubrità dell’ambiente che le norme sulle distanze intendono impedire, in quanto la legge, imponendo l’osservanza di determinate distanze, ha ritenuto che soltanto queste valgano presuntivamente a soddisfare esigenze di sicurezza ed igiene”.
[4] V. Cass., Sez. Un. 13523, del 12 giugno 2006. Secondo l’orientamento opposto, le domande intese al rispetto delle distanze legali non rientrano nel novero di quelle soggette all’onere di trascrizione, in quanto non dirette né alla rivendicazione della proprietà o di altri diritti reali di godimento, né all’accertamento dei diritti stessi (Cass. 22 aprile 1980, n. 2592).
[5] In applicazione di tale orientamento, in tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, va qualificata come nuova costruzione, sicché deve rispettare la normativa sulle distanze vigente al momento della sua realizzazione, non potendosi automaticamente giovare del diritto di prevenzione caratterizzante la costruzione originaria (Cass. Civ. n. 9646/2016).
[6] V. Cass. Civ. n. 5892/95.
[7] V. Cass. Civ. n. 7291/2014.
[8] V. Cass. Civ. n. 11320/2018.
[9] V. Cass. Civ. Sez. Unite, n. 20107/2014, la quale, in applicazione del suesposto principio, ha confermato la sentenza di merito che condannava il convenuto ad arretrare il proprio edificio dal fabbricato attoreo, sino al rispetto della distanza prevista quale minima dal confine dal piano regolatore generale del Comune.
[10] V. Cass. Civ. Ord. n. 2015/4965.
[11] Cfr. Cass. Sez. Un. n. 10318/2016, per la quale: “in tema di distanze legali, il principio di prevenzione, di cui agli artt. 873 c.c., si applica anche quando le disposizioni di un regolamento locale prevedano una distanza minima tra le costruzioni in misura maggiore a quella codicistica senza prescrivere altresì una distanza minima dal confine o vietare espressamente la costruzione in appoggio o in aderenza”.
[12] V. Cass. Civ. 3341/2002.

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