L’impatto del diritto eurounitario sui principi di legalità e tassatività nel diritto penale
Il principio di legalità esprime la necessità che ogni precetto penale e ogni sanzione siano espressamente previsti da una legge scritta. Tale fondamentale principio è teso a garantire il cittadino, nella misura in cui può preventivamente conoscere le conseguenze della sua condotta e orientare liberamente le sue azioni solo avendo a disposizione i mezzi per conoscere la legge che disciplina e punisce i suoi comportamenti. Per tale ragione, peraltro, il nostro ordinamento prevede che l’ignoranza del precetto penale sia inescusabile, fatti salvi gli eccezionali casi di ignoranza inevitabile.
Benché un lontano referente storico di tale principio sia individuato nella Magna Charta Libertatum del 1215, il cui art. 39 prevedeva che pene detentive potessero essere inflitte a un uomo libero solo a seguito di giudizio dei suoi pari, o per legge della sua terra, una formulazione più vicina all’attuale accezione di legalità si deve al pensiero illuministico, volto a limitare il potere dello Stato Assoluto; infatti, il primo riconoscimento di tale principio, a livello europeo, si deve alla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789. È poi al giurista tedesco Feuerbach che si deve, agli inizi dell’Ottocento, la formulazione più nota del principio in parola, espressa dal brocardo nullum crimine sine lege.
Il principio di legalità si rivolge sia al legislatore, che non può legiferare in materia penale utilizzando norme di rango inferiore a quello primario, sia all’interprete, che non può creare fattispecie incriminatrici, in virtù della separazione dei poteri, o applicare quelle esistenti a casi diversi e non disciplinati dalla norma, stante il divieto di analogia, conseguente al principio di legalità.
Il principio in parola è previsto dall’art. 25 Cost., secondo il quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
A livello normativo ordinario, esso è contenuto negli artt. 1 e 199 c.p., che riguardano rispettivamente condotte e sanzioni e misure di sicurezza. Talune disposizioni del codice penale riprendono il concetto di legalità, contestualizzandolo come regola di condotta, attiva od omissiva, o come criterio per riconoscere la responsabilità dolosa. Ci si riferisce all’art. 40 c.p., che al c. 1 stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento, da cui dipende l’esistenza del reato, non è cagionato dalla sua azione od omissione. L’art. 42, al c. 2, menziona la legalità nel chiarire che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se non l’ha commesso con dolo. Inoltre, l’art. 43 c. 1 afferma che il delitto è doloso quando l’evento, risultato dell’azione o dell’omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria condotta.
Il principio di legalità è altresì applicabile alle sanzioni amministrative, a mente dell’art. 1 l. n. 689/1981.
A livello sovranazionale, le norme principali di riferimento sono l’art. 7 CEDU, a norma della quale nessuno può essere condannato per una azione od omissione che non costituiva reato al momento in cui è stata commessa, né può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso; e l’art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, per cui nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale.
Il principio in esame può essere inteso sia in senso formale, sia in senso sostanziale. Secondo la prima accezione, il principio di legalità indica la necessità di considerare come reato solo fatti che siano espressamente considerati dalla legge come tali. Quest’accezione, come poc’anzi anticipato, è fortemente tesa alla tutela del favor libertatis. La legalità sostanziale, invece, impone di considerare reato solo i fatti socialmente pericolosi, con ciò determinando un adeguamento del diritto penale alla mutata sensibilità sociale in ordine a determinate condotte. Tale accezione non consente, evidentemente, una predeterminazione dei reati e delle pene.
Nel nostro ordinamento, esso deve essere inteso in senso misto, formale e sostanziale insieme, giacché individua ogni reato che, oltre ad essere previsto dalla legge come tale, sia anche conforme ai principi costituzionali.
Il principio di legalità sviluppa alcuni corollari, quali la tassatività e la determinatezza del precetto penale, il correlato divieto di analogia in malam partem, la riserva di legge. In altre posizioni del codice possono rinvenirsi altri principi connessi, quali l’irretroattività della norma incriminatrice (art. 2 c.p.) e la summenzionata irrilevanza dell’ignoranza della legge (art. 5 c.p.).
Preme analizzare il principio di tassatività, destinato al legislatore: ad esso è infatti imposta una particolare precisione nel descrivere le condotte costituenti reato e le sanzioni per le relative violazioni, al fine di rendere chiaro il contenuto della norma penale.
Spesso la tassatività è usata come sinonimo di determinatezza. Tuttavia è necessario distinguerla da questa, poiché la determinatezza è una qualità della fattispecie redatta in termini precisi e concordanti, che indica l’idoneità della legge ad essere conosciuta in sé stessa e nel significato che esprime, mentre la tassatività è un concetto più ristretto, riconducibile al divieto di limitazione della libertà personale fuori dei “casi e dei modi” previsti dalla legge (art. 13 Cost.) e al divieto di analogia. Nel principio di tassatività trova altresì fondamento il divieto di impiegare esemplificazioni e clausole di chiusura nella redazione delle norme incriminatrici. Il metodo esemplificativo e le clausole di chiusura contrastano con il principio di tassatività, poiché lasciano al giudice la possibilità di integrare la norma.
Mentre la determinatezza attiene al rapporto tra precetto e fatto, e postula che la norma penale rappresenti il fatto tipico in modo preciso e concretamente verificabile, al fine di rendere chiara ed accertabile la situazione che viene punita, la tassatività riguarda, invece, il rapporto tra la norma e la sanzione. Essa si atteggia come regola per la costruzione degli effetti dell’incriminazione, e postula che la norma penale sia a fattispecie esclusiva, al fine di realizzare una perfetta corrispondenza tra situazione punita ed effetti penali.
Tanto chiarito, occorre analizzare le conseguenze scaturite dall’impatto del diritto penale di matrice eurounitaria sull’ordinamento penale interno e, in particolare, sui principi di legalità e di tassatività anzidetti.
L’adesione dell’Italia all’Unione Europea, oltre a comportare una limitazione della propria sovranità ex art. 11 Cost., e la possibilità di adottare norme dotate di efficacia diretta nei singoli Stati membri, ha posto numerosi problemi di compatibilità con i principi regolatori della materia penale.
L’Unione non sembra avere il potere di porre in essere fattispecie incriminatrici direttamente applicabili negli Stati membri e di stabilirne le relative sanzioni, alla luce del pacifico difetto di legittimazione del legislatore europeo ad emanare norme volte a determinare o aggravare la responsabilità penale. L’UE, infatti, non ha proprie norme penali, né è dotata di un apparato giudiziario e coercitivo.
Fin dall’originario assetto del Trattato di Roma del 1950 non si poteva configurare in alcun modo una competenza penale dell’Unione.
In seguito, il Trattato di Maastricht ha ridisegnato la Comunità Europea come un tempio a tre pilastri, ossia Unione Europea, Politica Estera e Sicurezza Comune (PESC) e Cooperazione nel settore Giustizia e Affari Interni (GAI). L’istituzione di quest’ultimo pilastro ha costituito una tappa fondamentale nell’evoluzione del diritto penale della Comunità Europea, che si è poi ulteriormente sviluppata con il Trattato di Amsterdam, il quale ha trasformato il GAI nel settore della Cooperazione giudiziaria in materia penale. Tale pilastro veniva finalizzato specificamente alla tutela della sicurezza dei cittadini dell’Unione, contro il terrorismo, il traffico internazionale di stupefacenti e armi, la corruzione e la frode. Tuttavia, pure a seguito di tali riforme, è stato categoricamente escluso un potere dell’Unione di legiferare in via diretta in materia penale, e si è inteso il riferimento effettuato dall’art. 229 TCE al potere sanzionatorio come riferito esclusivamente alle sanzioni amministrative.
L’assenza di una specifica competenza penale dell’Unione è rimasta ferma anche a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Nizza, sebbene sia stato attribuito al Consiglio il potere di adottare all’unanimità posizioni comuni volte a definire l’orientamento dell’Unione su specifiche questioni. Ciò perché detto Trattato attribuisce un potere diretto in materia penale solo nell’ambito del terzo pilastro, caratterizzato dalle garanzie del metodo intergovernativo, ritenuto rispettoso del principio di legalità.
A seguito del Trattato di Lisbona, il sistema dei pilastri è stato abolito e ciò ha implicato la comunitarizzazione della materia penale, non più assoggettata al metodo intergovernativo. Pertanto, la materia penale è risultata essere di competenza concorrente e alla stessa è stato possibile applicare l’art. 2 par. 2 TFUE, in base al quale gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria.
Inoltre, è stata introdotta una espressa competenza penale indiretta, mediante l’art. 83 TFUE, secondo il quale parlamento e Consiglio possono emanare direttive che promanino norme minime relative alla definizione di reati particolarmente gravi, di natura transnazionale.
L’articolo ricomprende anche una generica indicazione di dette materie, e attribuisce al Consiglio il potere di individuare altre sfere di criminalità, con decisione adottata all’unanimità previa approvazione del Parlamento europeo.
Deve osservarsi che la fonte deputata a disciplinare la materia penale è la direttiva, che, come tale, impone agli Stati membri solo un vincolo di scopo, che può essere attuato con i mezzi interni ritenuti più idonei. Per tale ragione, si è sostenuto che non vi sia alcun vulnus al principio di legalità in materia penale, in quanto l’armonizzazione comunitaria richiede l’intervento dei Parlamenti nazionali ai fini della definitiva integrazione delle disposizioni esterne nei rispettivi ordinamenti giuridici.
Un differente orientamento ha invece sottolineato come la competenza penale indiretta non sia pienamente compatibile con il principio di legalità e della riserva di legge. Infatti, il ruolo attribuito ai parlamenti nazionali non risulterebbe decisivo né nella c.d. fase ascendente di formazione di tale precetto, né nella fase discendente. Nella prima, ai Parlamenti nazionali non è dato alcun potere di veto vincolante; nella seconda, agli stessi è attribuito esclusivamente il potere di attuare la direttiva, nei ristretti margini di discrezionalità dalla stessa lasciati.
È peraltro ancora aperto il dibattito circa l’esistenza di una competenza penale diretta dell’Unione Europea. Parte della dottrina ritiene, infatti, che l’ammissibilità della stessa debba essere desunta dall’art. 86 TFUE. Ciò perché tale norma, nel prevedere che per combattere reati che ledono interessi finanziari dell’Unione il Consiglio può istituire una Procura europea, deliberando mediante regolamenti, consentirebbe all’Unione l’emanazione di regolamenti idonei a delineare nuove fattispecie delittuose. I sostenitori di detta tesi, al fine di ritenere tale competenza diretta legittima alla luce del principio di legalità e della riserva di legge, sottolineano come la sanzione per la violazione definita in siffatti regolamenti debba essere individuata da fonti primarie dei singoli Stati membri.
Sembra, tuttavia, preferibile l’interpretazione volta ad escludere tale competenza diretta, sulla base dell’argomentazione per cui i regolamenti adottati ex art. 86 TFUE devono solo limitarsi a individuare quali fatti, già costituenti reato negli Stati membri, siano, per la loro connotazione transnazionale, idonei a ledere gli interessi finanziari dell’Unione.
Un discorso a parte meritano i cosiddetti effetti indiretti e riflessi del diritto eurounitario sul diritto penale dei singoli Stati membri.
Si ritiene pacificamente ammissibile il verificarsi di un effetto limitativo del diritto comunitario sul diritto penale, allorché la norma sovranazionale, dotata di efficacia diretta nel nostro ordinamento, restringa l’area del penalmente rilevante, così producendo un effetto favorevole al reo. Pertanto, alla luce del principio di primazia del diritto comunitario, il giudice nazionale può considerare la disposizione nazionale interna in contrasto con la norma comunitaria tamquam non esset e disapplicarla.
La giurisprudenza ha fatto propria tale interpretazione, e sulla scorta di quanto affermato, ha, ad esempio, più volte negato l’integrazione del delitto di esercizio abusivo di una professione in capo a chi, pur in possesso del titolo abilitativo conseguito in altro Stato membro, era sprovvisto del riconoscimento dello stesso da parte delle competenti Autorità amministrative italiane. Ciò perché l’art. 348 c.p. costituirebbe un’ipotesi di norma penale in bianco, rispetto alla quale la disciplina comunitaria in materia assume valenza di norma integrativa della fattispecie, dal momento che prevede il libero esercizio della professione all’interno dell’Unione, determinando così la disapplicazione delle norme confliggenti.
Più complessa appare invece la questione relativa agli effetti espansivi, che si hanno quando l’ordinamento penale interno è chiamato a fornire una tutela sanzionatoria più ampia, adeguata a beni e interessi giuridici di origine europea, nei casi in cui il nostro ordinamento limiti l’area del penalmente rilevante rispetto ad essi. È in applicazione di questi che appare più evidente il contrasto con i principi di legalità e tassatività in materia penale.
Un approccio casistico può aiutare a comprendere meglio la questione. Infatti, il tema dell’efficacia riflessa dell’ordinamento comunitario su quello interno, con particolare riferimento ai rapporti tra tale efficacia e il principio di legalità di cui all’art. 25 c. 2 Cost., è recentemente tornato all’attenzione degli interpreti per effetto della nota vicenda Taricco.
La vicenda è originata da una pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha enunciato l’obbligo di disapplicare il regime del termine massimo di durata della prescrizione di cui agli artt. 160 e 161 c.p., per contrasto con l’art. 325 par. 1 TFUE, in tutti i casi in cui dalla sua applicazione derivasse l’impossibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.
Tale pronuncia ha scatenato un complesso dibattito, incentrato sul rischio di contrasto con la normativa costituzionale italiana in materia di irretroattività, riserva di legge e determinatezza. Lasciando in disparte quanto affermato in tema di irretroattività, occorre soffermarsi sul difetto di determinatezza e tassatività, che hanno influenzato la conoscibilità della regola penale e la conseguente prevedibilità della sanzione da parte del singolo consociato.
L’intervento della Corte Costituzionale italiana ha posto in rilievo, tra l’altro, come la norma risultante dall’intervento della CGUE non fosse adeguatamente determinata, non essendo chiaro né quando le frodi dovessero ritenersi gravi, né quando potesse dirsi soddisfatto il requisito del numero considerevole di casi di impunità, con la conseguenza di rendere vaghi i presupposti dell’obbligo di disapplicazione. Ciò in evidente contrasto non solo con l’art 25 c. 2 Cost., ma anche con l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Inoltre, per apprezzare la questione dal punto di vista della tassatività, si deve guardare al destinatario del precetto. Come si anticipava poc’anzi, la tassatività non riguarda la precisione della formulazione della norma, ma il rapporto tra la norma e la sanzione e, pertanto, il rapporto tra la norma e il suo destinatario. L’art. 325 TFUE ha come destinatario gli organi dello Stato che devono attuare misure ai fini di lotta alle frodi; mentre la “regola Taricco” scaturita dalla pronuncia della CGUE era diretta al giudice, che avrebbe dovuto disapplicare la disciplina della prescrizione.
Tuttavia, la Corte Costituzionale italiana, nel ribadire che l’istituto della prescrizione, incidendo sulla punibilità, è di natura sostanziale e non processuale, ha interpretato l’art. 325 TFUE nel senso che lo stesso, secondo l’applicazione fattane dalla CGUE, avrebbe come destinatario il cittadino. Costui, pertanto, non sarebbe messo nelle condizioni di conoscere in anticipo né la durata massima del processo a suo carico né per quanto tempo sarebbe applicabile la pena nei suoi confronti. Di conseguenza, non potendo prevedere gli effetti concreti del suo agire, non potrebbe neppure orientare la sua condotta. Il difetto di prevedibilità origina da una violazione della tassatività in materia penale.
La Corte Costituzionale ha quindi concluso affermando l’inapplicabilità della regola Taricco, sulla scorta non solo della violazione del principio di determinatezza e tassatività, come previsto dalla nostra Costituzione, ma dello stesso diritto dell’Unione, che pure, come accennato, prevede l’operatività al suo interno del principio di legalità e dei corollari di determinatezza e tassatività. Pertanto i due ordinamenti non appaiono in contrasto, né può dirsi messo in discussione il principio di legalità interno dalla primazia delle norme eurounitarie.
Da quanto emerso dalla vicenda in parola, quindi, può attualmente affermarsi che il principio di legalità in materia penale, insieme con i suoi corollari, non è messo in crisi ma semmai è rafforzato dal diritto sovranazionale, atteso che, come si è visto, i due ordinamenti (interno ed eurounitario) condividono gli stessi principi fondamentali, in tema di legalità, determinatezza e tassatività.
Sebbene in apparenza la legalità penale sia influenzata, quantomeno negli effetti indiretti, dal diritto dell’Unione Europea (non avendo essa, come si è visto, alcuna potestà sanzionatoria diretta), deve rammentarsi che, in ogni caso, l’adesione all’UE per l’Italia è passata attraverso l’art. 11 della Costituzione, che prevede una cessione di sovranità e che ben può legittimare un ingresso, quantomeno indiretto, di alcuni effetti penali nel nostro ordinamento.
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Avv. Ilaria Romano
Avvocato del Foro di Lecce. Specializzata con menzione in diritto penale. Docente a contratto di Diritto Processuale Penale presso la SSPL "V. Aymone" di Lecce.
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