L’incerta procedibilità del furto di energia elettrica a seguito della c.d. “Riforma Cartabia”

L’incerta procedibilità del furto di energia elettrica a seguito della c.d. “Riforma Cartabia”

Sommario1. Premessa: il rinnovato regime di procedibilità dell’art. 624 c.p. – 2. La contestazione in fatto alla luce delle Sezioni Unite “Sorge” – 3. La vexata quaestio in ordine all’ammissibilità della contestazione accusatoria c.d. “suppletiva”

 

1. Premessa: il rinnovato regime di procedibilità dell’art. 624 c.p.

Com’ è noto, l’entrata in vigore della Riforma c.d. “Cartabia”, dettata dal chiaro intento legislativo di circoscrivere il perimetro della offesa giuridicamente rilevante alle sole ipotesi che si connettano alla lesione di un interesse pubblicistico, ha profondamento inciso rispetto al regime di procedibilità del reato di furto.

Più in dettaglio, in base all’attuale quadro normativo di riferimento, il delitto di furto, pur se aggravato ai sensi dell’art. 625 c.p., costituisce oramai fattispecie delittuosa perseguibile soltanto a querela di parte.

Il regime di perseguibilità rafforzata, in ossequio alla ratio deflattiva chiaramente perseguita dal Legislatore della riforma, è stato, di contro, mantenuto fermo limitatamente alle ipotesi in cui:

– il fatto delittuoso sia stato realizzato nei confronti di “persona incapace, per età o infermità”;

– ricorra taluna delle circostanze ricomprese all’interno dell’art. 625 co. 1 n. 7 c.p., ovverosia, allorquando la commissione del fatto di reato ricada “su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza”, con esclusione dell’ipotesi dell’esposizione della res alla pubblica fede;

– si sia in presenza di una delle ipotesi circostanziali contemplate dall’art. 625 co. 1 n. 7 bis c.p., e cioè quando la fattispecie furtiva abbia ad oggetto “componenti metalliche o altro materiale sottratto ad infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici e gestite da soggetti pubblici o da privati in regime di concessione pubblica”.

Ciò posto, con l’avvento di tale imponente opera di riassetto normativo, si è posta, altresì, l’ulteriore questione – allo stato rimasta irrisolta presso la giurisprudenza – involgente le sorti del regime di procedibilità del furto avente ad oggetto il bene energia elettrica.

Segnatamente, in vista dell’esigenza, più o meno opinabile, di garantire la stabilità dell’esercizio dell’azione penale attraverso la sussunzione di tale peculiare forma delittuosa all’interno dell’alveo applicativo della circostanza aggravante della destinazione a pubblico servizio (rispetto alla quale, come già sopra accennato, resta fermo il regime di procedibilità ex officio), sono due, essenzialmente, i quesiti interpretativi che hanno interessato, e tutt’ora interessano, il panorama giurisprudenziale:

– il primo, in particolare, involge la possibilità di ritenere la cennata circostanza aggravante “contestata in fatto”, ovvero, ricompresa nella postulazione accusatoria mediante il mero richiamo alla categoria del bene (energia elettrica) sottratto;

– il secondo, viceversa, attiene alla legittimità della contestazione suppletiva operata dall’Organo d’accusa successivamente alla scadenza del termine essenziale (tre mesi) fissato dall’art. 85 del D. Lgs 10 ottobre 2022 n. 150.

2. La contestazione in fatto alla luce delle Sezioni Unite “Sorge

In ordine al primo dei quesiti proposti, si fronteggiano, allo stato, presso la giurisprudenza del Supremo Consesso di legittimità, due opposte correnti ermeneutiche.

Segnatamente, secondo un primo, ed isolato, indirizzo interpretativo, “in tema di furto di energia elettrica, può ritenersi legittimamente contestata in fatto, e ritenuta in sentenza senza la necessità di una specifica ed espressa formulazione, la circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7, c.p., in quanto l’energia elettrica fornita, su cui ricade la condotta di sottrazione, è un bene funzionalmente destinato a un pubblico servizio”(cfr. Cass. Pen. Sez. IV, n. 48529 del 07.11.2023, Marcì, Rv. 285422).

Di gran lunga maggioritaria, di contro, è la tesi che esclude che la circostanza aggravante in discorso possa ritenersi validamente contestata in virtù del mero richiamo al bene oggetto dell’azione delittuosa, in assenza di qualsivoglia esplicitazione circa la effettiva destinazione a pubblico servizio (in tal senso, ex multis, Cass. Pen. Sez. IV, n. 46859 del 26/10/2023, Licata, Rv. 285465; Sez. IV, n. 44157 del 03/10/2023, n.m.; Sez. IV, 03/10/2023, n. 44158, n.m.; Sez. IV, 03/10/2023, n. 44159, n.m.).

Ad ogni modo, fermo restando la richiamata querelle interpretativa, è necessario al contempo precisare come il tema della legittimità della contestazione in fatto non è del tutto estraneo alla giurisprudenza di legittimità.

A questo proposito, infatti, sono recentemente intervenute sul punto le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la nota pronuncia “Sorge”.

In detta occasione, il Supremo Collegio, chiamato a dirimere un precedente contrasto ermeneutico in materia di falso in atto pubblico, ha, anzitutto, proceduto ad individuare l’ambito concettuale della contestazione in fatto, definendo come tale quella formulazione della imputazione che, pur non contenendo la letterale enunciazione della fattispecie circostanziale, né indicando lo specifico referente normativo, “riporti, comunque, in maniera chiara e precisa gli elementi di fatto integranti la circostanza, così da permettere all’imputato di averne piena consapevolezza e di espletare adeguatamente la propria difesa. (cfr. Cass. Pen. Sez. U. n. 24906 del 18.04.2019, Sorge, Rv. 275436).

Nella prospettiva accolta dalle Sezioni Unite, dunque, il tema della contestazione in fatto non incontra particolari problemi di ordine applicativo rispetto a quelle circostanze che, secondo l’astratta previsione normativa, si esauriscono in comportamenti già compiutamente descritti nella loro oggettiva materialità.

A diversa conclusione, di contro, si deve pervenire – alla stregua della soluzione adottata dalla Suprema Corte – con riguardo alle circostanze aggravanti nelle quali la previsione normativa, in aggiunta agli elementi materiali del fatto, includa componenti valutative che, in quanto tali, non possono dirsi compiutamente interpretabili se non attraverso il ricorso ad un adeguato apprezzamento processuale.

Ebbene, trasponendo il dictum delle Sezioni Unite “Sorge” al tema oggetto della presente disamina, appaiono del tutto evidenti le ragioni che impongono di risolvere il quesito circa la indiscriminata legittimità della contestazione in fatto in senso negativo.

Ciò in quanto, la circostanza aggravante della destinazione a pubblico servizio, ove riferita al tema del furto di energia elettrica, presenta un’irriducibile componente valutativa non altrimenti rimediabile attraverso il semplice riferimento all’ astratta categoria del bene sottratto.

Del resto, la circostanza per cui la destinazione a un pubblico servizio non rappresenti un’imprescindibile connotazione ontologica del furto di energia elettrica – dovendo, viceversa, passare attraverso un’attenta verifica da compiersi caso per caso –  non è affatto estranea al panorama ermeneutico del Supremo Consesso.

Ed invero, secondo la giurisprudenza più risalente, e un tempo consolidata, “la sottrazione da parte dell’utente di energia elettrica mediante congegni che escludano il regolare funzionamento del contatore non può ritenersi aggravata ai sensi dell’ad 625, primo comma, n. 7, quarta ipotesi, cod. pen., poiché l’attività del colpevole, esplicandosi su cosa che, nel rispetto delle clausole contrattuali […] non incide sulla generale destinazione della energia elettrica alla pubblica utilità, ma si limita ad ottenere, in virtù della fraudolenta esclusione della registrazione del consumo, l’illecito fine di usufruire di detta energia senza pagarne il prezzo (cfr. in tal senso, Cass. Pen. Sez. II, n. 1176 del 20/06/1967, Corona, Rv. 105901 – 01; Sez. II, n. 602 del 21/03/1967, Russo, Rv. 104749 – 01; Sez. II, n. 49 del 17/01/1967, Grutti, Rv. 104369 – 01).

Solo dopo molto tempo, attraverso un processo di sedimentazione esegetica tutt’altro che risolutivo, si è via via affermata la tesi diametralmente opposta, allo stato dominante, secondo cui nell’ipotesi del furto avente ad oggetto l’energia elettrica, l’aggravante normativamente contemplata dall’art. 625 co. 1 n. 7 c.p., “è configurabile indipendentemente dal fatto che tale condotta abbia arrecato effettivo nocumento alla fornitura di energia di altri utenti” (cfr. Cass. Pen. Sez. IV, n. 21456 del 17.04.2002, Tirone, Rv. 221617 – 01; Cass. Pen. Sez. IV, n. 48529 del 07.11.2023. Marcì, Rv. 285422 – 01, già citata).

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, dunque, affinché possa dirsi legittimamente predicabile, in materia di furto di energia elettrica, la circostanza di cui all’art. 625 co. 1 n. 7 c.p., è necessario che la originaria contestazione accusatoria, quantunque non necessariamente corrispondente al dato letterale normativo, presenti – nei termini anzidetti – l’espressa qualificazione del bene come realmente destinato a pubblico servizio.

3. La vexata quaestio in ordine all’ammissibilità della contestazione accusatoria c.d. “suppletiva”

Chiarito il margine operativo della contestazione in fatto della circostanza aggravante de qua, l’ulteriore questione, ancor più spinosa, che merita in tale sede di essere affrontata è quella relativa all’efficacia della eventuale contestazione suppletiva operata da parte accusatoria, ai sensi dell’art. 517 del Codice di rito, una volta spirato il termine di tre mesi normativamente dettato dalla disposizione transitoria di cui all’art. 85 del D. Lgs n. 150/2022.

Ebbene, la tematica in rilievo risulta, attualmente, al centro di un acceso, per non dire inconciliabile, dibattito giurisprudenziale.

Segnatamente, secondo un primo orientamento, allo stato senz’altro ampiamente maggioritario presso il Giudice di legittimità, in tema di reati divenuti, a seguito dell’entrata in vigore del D. Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, perseguibili soltanto a querela di parte, ove sia inutilmente decorso il termine previsto all’art. 85 del d.lgs. citato, senza che sia, nelle more, sopraggiunta un’espressa istanza punitiva, “è consentito al pubblico ministero di modificare l’imputazione in udienza mediante la contestazione di una circostanza aggravante per effetto della quale il reato divenga procedibile di ufficio, essendo lo stesso investito, anche in difetto di sopravvenienze dibattimentali rilevanti a tale fine, del potere-dovere di esercitare l’azione penale per un reato correttamente circostanziato” (cfr. Cass. fer. n. 43255 del 22.08.2023, dep. 20.10.2023, Rv. 285216; Cass. Pen. Sez. IV 22.11.2023, dep. 29.11.2023, n. 47769, Rv 285421).

Il fondamento ontologico di tale assunto ermeneutico, in base a quanto chiaramente evincibile dall’analisi degli arresti citati, andrebbe ravvisato nell’impossibilità per il Giudice della cognizione di inibire o, comunque, sottoporre a limiti, il pieno esercizio dell’azione penale nell’ambito della realtà processuale.

Ammettere, infatti, che il P.M. non sia l’unico arbitro della funzione accusatoria costituzionalmente assegnatagli, significherebbe – come si è più volte sostenuto – privare il suddetto potere della sua naturale funzione immanente e cogente.

A fronte di tale indirizzo interpretativo, chiaramente legato ad una concezione dell’obbligatorietà dell’azione penale poco permeabile al postulato, anch’esso costituzionalmente presidiato, di “ragionevolezza” del segmento processuale, si pone il minoritario – ma non per questo meno condivisibile – orientamento giurisprudenziale alla cui stregua, in presenza di reati divenuti unicamente procedibili a querela,  “ove sia decorso il termine previsto dall’art. 85 d.lgs senza che sia stata proposta la querela, il giudice è tenuto, ex art. 129 cod. proc. pen., a pronunciare sentenza di improcedibilità, non essendo consentito al pubblico ministero la modifica dell’imputazione ex art. 517 cod. proc. pen. mediante contestazione di un’aggravante che renda il reato procedibile d’ufficio” (cfr. Cass. Pen. Sez. V, n. 20093 del 24/01/2024, Rv. 286460-01; Cass. Pen. Sez. V, n. 3741 del 22/01/2024, Rv. 285878-02).

Trattasi, a ben vedere, di impostazione argomentativa (benché a vario titolo criticata, tanto in giurisprudenza, quanto in dottrina) senz’altro condivisibile a parere di chi scrive, anche in vista della piena realizzazione della ratio “efficientista” che ha ispirato il Legislatore della riforma.

A questo proposito, infatti, va evidenziato – a scapito di chi ritiene il contrario – come la tesi appena richiamata non intende affatto mettere a repentaglio il dominio esclusivo del P.M. in ordine alla sorti della propria funzione accusatoria, bensì, indirizzare l’esercizio di questa stessa funzione entro l’irriducibile corollario del favor rei.

Ed è gioco forza, dunque, che un simile obiettivo possa dirsi ragionevolmente pronosticabile soltanto ponendo al centro del segmento processuale quel referente normativo (l’art. 129 c.p.p. appunto) che impone al Giudice, ex officio, l’immediata declaratoria “di determinate cause di non punibilità” già cristallizzate in seno all’originaria contestazione accusatoria.

Opinando diversamente, considerando cioè l’exitus processus quale soluzione recessiva rispetto all’”obbligatorietà (opportunità) dell’azione penale”, si finirebbe per dimenticare che l’art. 129 c.p.p., rappresenta, sul versante tipicamente processuale, la naturale proiezione del principio di legalità sul piano del diritto sostanziale (così, Cass. Pen. Sez. U. n. 17179 del 27 febbraio 2002, Rv. 221403).


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Gabriele Ferro

Laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Siena, attualmente praticante avvocato, con predilezione per il settore del diritto penale sostanziale e processuale.

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