L’indennizzo da ingiusta detenzione ed il pignoramento presso terzi previsto dall’ art. 72 bis d.P.R. n. 602 del 1973
Sommario: 1. Introduzione dell’istituto di cui agli artt. 314 e 315 c.p.p. – 2. Norme sovranazionali di riferimento – 3. La quantificazione dell’indennizzo – 4. Il pignoramento presso terzi previsto dall’art. 48 bis del d.p.r. n. 602/73
1. Introduzione dell’istituto di cui agli artt. 314 e 315 c.p.p..
Innanzitutto, val la pena evidenziare che oltre a chi sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 530 c.p.p. “… il diritto alla riparazione[1], ai sensi dell’articolo 314 c.p.p., comma 2, spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280 c.p.p.. Le disposizioni citate si applicano, alle medesime condizioni, a favore delle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione ovvero sentenza di non luogo a procedere …”[2]
In dettaglio, il comma primo dell’art. 314 c.p.p., richiamato dal comma 3° dello stesso articolo, fa pacifico riferimento alla manifesta infondatezza della notizia di reato quale dispositivo d’archiviazione necessario a giustificare la domanda per l’ingiusta detenzione, mentre il capoverso dell’art. 314 c.p.p., si riferisce alla “decisione irrevocabile” che accerti l’insussistenza delle condizioni di applicabilità della misura custodiale, segnatamente proveniente dal Tribunale del Riesame ovvero in ultima istanza dalla Suprema Corte di cassazione.
Ciò succintamente rammentato, anche laddove non si volesse ritenere sostanzialmente ingiusta la restrizione della libertà personale della persona prosciolta, sol perché, ad esempio, nel provvedimento dichiarativo l’archiviazione è carente la formula rituale prevista richiamata dal comma 1 dell’art. 314 c.p.p., non v’è dubbio alcuno che vi possa essere il caso di una ingiustizia formale della restrizione della personale libertà, proprio quando è stato acclarato irrevocabilmente dall’Organo giurisdizionale competente in materia, che la misura cautelare veniva disposta e mantenuta a carico dell’istante illegittimamente, ergo nell’assenza delle condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 274 c.p.p.[3], a nulla valendo la formale interpolazione terminologica eventualmente utilizzata nel provvedimento archiviativo. [4].
Come è noto, la custodia cautelare può ritenersi ingiusta solo qualora l’istante non abbia tenuto un comportamento doloso o colposo che abbia concorso a cagionare la misura.
Inoltre, si sottolinea che, agli effetti dello scrutinio circa la condotta sinergica dell’interessato deve intendersi dolosa non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una previsione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’Autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo.
Una situazione, in altri termini, tale da occasionare una non voluta ma prevedibile ragione di intervento dell’Autorità Giudiziaria sostanziatasi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale come quello subito[5].
Notoriamente è auspicio precipuo degli Investigatori, nell’ambito dell’attività inquirente, raccogliere ogni elemento indiziante al fine di assortire il quadro probatorio, come non v’è dubbio che è d’obbligo per la Magistratura Requirente verificare ogni elemento controverso e incerto anche eventualmente favorevole all’indagato, come purtroppo è altrettanto vero che in molti casi ciò è fatto eventualmente solo incidentalmente su istanza della difesa.
Per comprendere l’effettivo pregiudizio che il periodo di ingiusta detenzione ha arrecato a carico della persona ristretta ingiustamente, occorre delineare, in ultimo, la vita condotta dal medesimo, sia prima, che dopo, l’ingiusta detenzione patita.
2. Norme sovranazionali di riferimento
In ambito europeo la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, all’art. 5, par. 5, in via sussidiaria rispetto a quella predisposta dal legislatore negli artt. 314 e 315 c.p.p., stabilisce che «ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione a una delle disposizioni di questo articolo ha diritto ad una riparazione». Tale previsione, risponde all’esigenza di assicurare la riparazione ogni qual volta la restrizione della libertà personale risulti disposta o mantenuta contra legem (al contrario, la Convenzione europea tace sulla ingiustizia ex post, non riconoscendo il diritto riparatorio all’imputato prosciolto per le restrizioni apportate legittimamente alla sua libertà), ossia in violazione di uno dei diritti fondamentali garantiti dallo stesso art. 5, par. 1.
Nello specifico, secondo quest’ultima disposizione, nessuno può essere privato della libertà quando non si ravvisino «ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso un reato» (fumus commissi delicti) oppure «motivi fondati per ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso» (pericolosità sociale e pericolo di fuga).
Infine non è superfluo ricordare, come sia fatto obbligo ai singoli Stati contraenti adeguare la disciplina interna alle garanzie fissate nel menzionato art. 5; in caso di inadempimento, l’interessato può attivare un giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo (art. 34 CEDU), alle cui Sentenze è riconosciuta forza vincolante (art. 46 CEDU).
3. La quantificazione dell’indennizzo
In tema di liquidazione dell’indennizzo la Cass. Pen. Sez. IV^ con sentenza del 16 luglio 2009, n. 42510, ha consolidato l’orientamento in forza del quale il canone base per la liquidazione è costituito dal rapporto tra la somma massima posta a disposizione dal legislatore (€ 516.456,90), il termine di durata massima della custodia cautelare (di cui all’art. 303, co 4, c.p.p., espresso in giorni) e la durata dell’ingiusta detenzione patita nel caso concreto. Tale criterio aritmetico di calcolo costituisce uno standard che fa riferimento all’indennizzo in un’astratta situazione in cui diversi fattori di danno derivanti dall’ingiusta detenzione si siano concretizzati in modo medio e ordinario, per cui esso potrà subire delle variazione verso l’alto o verso il basso in ragione di specifiche contingenze proprie del caso concreto[6].
Ebbene, occorrerà, nel caso pratico, analizzare i fattori documentati, afferenti la personalità e la storia personale dell’imputato (se una persona dedita alla famiglia[7]), al suo ruolo professionale e sociale (se una persona con un impiego fisso e stimata nell’ambito lavorativo dai colleghi), alle conseguenze pregiudizievoli concretamente subite (stress post-traumatico con conseguenti crisi depressive) e tutti gli altri in cui sia riscontrata la rilevanza e la connessione eziologica con l’ingiusta detenzione patita.
È ragionevole, evidentemente, ritenere che al giudice è chiesta una valutazione che pur equitativa, non può mai essere arbitraria, pertanto è richiesta una adeguata motivazione che dia conto della decisione cui è giunto.
4. Il pignoramento presso terzi previsto dall’art. 48 bis del d.p.r. n. 602/73
Tale disposto normativo[8], in estrema sintesi e fuori dalla complessa procedura d’attuazione di anno in anno ampliata e rimodulata dalle logiche prettamente utilitaristiche delle Entrate, stride vistosamente con le ragioni dell’istituto sin qui descritto, nella misura in cui letteralmente consentirebbe allo Stato di mettere le mani nelle tasche di quella persona la cui libertà personale è stata violata in maniera tanto ingiustificata quanto certificata.
Praticamente, l’Ente dello Stato, nel caso specifico il Ministero dell’Economia e delle Finanze, che deve pagare un cittadino il quale vanti un credito verso il primo, è legittimato, ex art. 48 bis appunto, prima di procedere a tale pagamento, a verificare se vi sia l’ammontare d’un debito pari o superiore ad euro 5.000,00 verso l’Agenzia delle Entrate da parte del soggetto/contribuente creditore. In caso positivo, trasmette i dati del soggetto all’Agenzia medesima, la quale può procedere al pignoramento “inaudita altera parte” presso terzi, di fatto trattenendo le somme risultanti a debito verso le Entrate dello Stato.
Ora, senza pretesa d’esaustività, come già del resto osservato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato – Prot. N. 54923, come non possono essere assoggettati alla procedura di cui all’art. 48 bis gli indennizzi connessi allo stato di salute della persona[9]o al ristoro da danno biologico subito, men che mai, evidentemente, in un coerente Stato di Diritto e secondo un’interpretazione analogico-sistematica e costituzionalmente orientata, potrà ritenersi “pignorabile” quanto in forma d’indennità viene riconosciuto a chi ha visto leso a suo danno l’art. 13 della Costituzione da parte di quello stesso Stato che vanta un credito, si certo liquido ed esigibile, ma mai paragonabile e/o scontabile con quello di chi ingiustamente è stato recluso.
E però, se sin troppo banali paiono tali argomenti, desta stupore quanto facilmente si apprende nella fase burocratico amministrativa prevista dal Ministero dell’Economia e delle Finanze[10] per il pagamento dell’indennizzo in favore d’un soggetto ingiustamente detenuto, ovvero, l’assoggettamento di tali somme alla procedura sin qui accennata.
V’è in tali evenienze il paradosso di uno Stato che punisce due volte ed ingiustamente un proprio consociato, prima privandolo del bene più prezioso, forse secondo solo alla salute, la libertà personale, e poi negandogli quanto la stessa Autorità giudiziaria, ripristinando in un certo modo i propri errori, gli rendeva sotto forma d’indennizzo, commettendo di tal guisa, ad inevitabile avviso di chiunque abbia buon senso, un inammissibile arbitrio, consistente nel porre sullo stesso medesimo identico piano, la libertà personale ed il diritto di credito tributario, tra l’altro quello di chi la libertà altrui ingiustamente limitava.
In conclusione, nella logica del più elementare bilanciamento degli interessi di rango costituzionale, merita essere modificato il regolamento[11] nella parte in cui non prevede expressis verbis di escludere tale indennizzo dalla procedura di cui all’art. 48 bis[12], pena una inammissibile e palese violazione dei diritti inviolabili di cui agli artt. 2 e 13 della Costituzione, per non dire di una non meno evidente elisione degli artt. 24 e 27 della Costituzione, nella misura in cui una persona che ha potuto difendersi provando la propria totale estraneità ai fatti di reato contestatigli, sino ad ottenere l’indennizzo di cui agli artt. 314 e 315 c.p.p. attraverso un complesso procedimento giurisdizionale, viene “sanzionato” dallo Stato nel frangente della massima espressione riparatoria degli errori commessi dalla Magistratura, determinando, con estrema evidenza, tra l’altro, un annullamento complessivo degli effetti che l’istituto analizzato nei precedenti paragrafi è volto ad ottenere.
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[1] Cfr. art. 13 Cost. che sancisce l’inviolabilità della libertà personale conseguendone, quindi, la necessità di una disciplina particolare per gli errori in tema di custodia cautelare, sia essa subita in carcere sia agli arresti domiciliari, trattandosi di misure detentive che sono applicate prima della sentenza definitiva e, quindi, nella sola ipotesi che ci sia una previsione di un’alta probabilità di condanna trattandosi di un valore fondamentale nello Stato di diritto che può essere sacrificato solo in presenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari specificamente individuate. Cfr., altresì, l’art. 24 ultimo comma della Cost. in base al quale “la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”.
[2] Così in Cass. Pen., sez. IV, 10-07-2013, n. 38167, su Foro Italiano;
[3] V. per un maggior approfondimento, C. Cass. Pen., Sez. Un., 27-05-2010, n. 32383, in cui: “La circostanza di avere dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, anche in relazione alle misure disposte in difetto delle condizioni di applicabilità previste dagli art. 273 e 280 c.p.p.”, (la Corte ha, peraltro, precisato che tale operatività non può concretamente esplicarsi, in forza del meccanismo causale che governa l’indicata condizione ostativa, nei casi in cui l’accertamento dell’insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura in oggetto avvenga sulla base dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha reso il provvedimento cautelare, in ragione unicamente di una loro diversa valutazione);
[4] Cfr. C. Cass. Pen., Sez. IV, 15-01-2014, n. 14000, dove sul tema della riparazione per ingiusta detenzione si ribadisce che il giudice di merito “per valutare se l’imputato vi abbia dato causa con dolo o colpa grave, deve apprezzare tutti gli elementi probatori disponibili, tenendo conto di quei comportamenti che denotino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di norme o regolamenti, fornendo del convincimento conseguito motivazione, che, se adeguata e congrua, è incensurabile in sede di legittimità”; Ancora v. C. Cass. Pen., sez. IV, 15-10-2013, n. 43458, nella quale si sottolinea come: “Sussiste il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione anche nell’ipotesi di misura cautelare applicata in difetto di una condizione di procedibilità, la cui necessità sia stata accertata soltanto all’esito del giudizio di merito in ragione della diversa qualificazione attribuita ai fatti rispetto a quella ritenuta nel corso del giudizio cautelare”; A conferma v. anche Cass. Pen. sez. IV, 30-01-2015, n.5886; sul punto v anche. Sent. C.E.D.U. 5 marzo 2015, caso Kotiy c. Ucraina; a questo specifico riguardo la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, il cui art. 5, par. 5, in via sussidiaria rispetto a quella predisposta dal legislatore negli artt. 314 e 315 c.p.p., stabilisce che «ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione a una delle disposizioni di questo articolo ha diritto ad una riparazione». Tale previsione, è bene sottolinearlo, risponde all’esigenza di assicurare la riparazione ogni qual volta la restrizione della libertà personale risulti disposta o mantenuta contra legem (al contrario, la Convenzione europea tace sulla ingiustizia ex post, non riconoscendo il diritto riparatorio all’imputato prosciolto per le restrizioni apportate legittimamente alla sua libertà), ossia in violazione di uno dei diritti fondamentali garantiti dallo stesso art. 5, par. 1. Nello specifico, secondo quest’ultima disposizione, nessuno può essere privato della libertà quando non si ravvisino «ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso un reato» (fumus commissi delicti) oppure «motivi fondati per ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso» (pericolosità sociale e pericolo di fuga). La legittimità della detenzione, poi, è subordinata al rispetto di un iter procedurale minimo, che comprende la tempestiva informazione dei motivi dell’arresto e dell’accusa, la traduzione «al più presto» dinanzi ad un magistrato, la ragionevole durata del procedimento, nonché la facoltà di adire un tribunale per il controllo – «entro brevi termini» – sulla legalità della detenzione. Infine si ricorda, anche se superfluo, come sia fatto obbligo ai singoli Stati contraenti adeguare la disciplina interna alle garanzie fissate nel menzionato art. 5; in caso di inadempimento dell’interessato attivare un giudizio di responsabilità dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo (art. 34 CEDU), alle cui sentenze è riconosciuta forza vincolante (art. 46 CEDU);
[5] Così C. Cass. Pen .Sez. 4, n. 43302 del 23-10-2008, Tucci, Rv. 242034; C. Cass. Pen. Sez. U, 13 12 1995,Sarnataro, Rv. 203637;
[6] Cass. pen., sez. III, 01-04-2014, n. 29965. n materia di riparazione per ingiusta detenzione, il parametro aritmetico, al quale riferire la liquidazione dell’indennizzo, è costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo fissato in euro cinquecentosedicimila quattrocentocinquantasei virgola novanta dell’art. 315, 2º comma, c.p.p. e il termine massimo della custodia cautelare pari a sei anni ex art. 303, 4º comma, lett. c), espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch’esso espresso in giorni, di ingiusta restrizione subìta, che deve essere opportunamente integrato dal giudice innalzando o riducendo il risultato di tale calcolo numerico, nei limiti dell’importo massimo indennizzabile, per rendere la decisione più equa possibile e rispondente alla specificità (positiva o negativa) della situazione concreta.
[7] Cass. pen., sez. IV, 17-12-2013, n. 997 -Foro italiano -: In sede di quantificazione dell’indennizzo spettante per l’ingiusta detenzione, ove da essa sia derivato un comprovato pregiudizio all’ordinario svolgimento delle relazioni familiari, è possibile far applicazione di un criterio di liquidazione diverso da quello equitativo purché siano compiutamente illustrate le ragioni di adeguamento dell’indennizzo alla peculiarità del caso concreto.
[8] L’art. 48-bis del D.P.R. n. 602/1973, per pronta consultazione, è di seguito trascritto nel testo attualmente vigente, come modificato, da ultimo, dall’articolo 1, comma 986, della legge 27 dicembre 2017, n. 205: “1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del regolamento di cui al comma 2, le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e le società a prevalente partecipazione pubblica, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore a cinquemila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo.La presente disposizione non si applica alle aziende o società per le quali sia stato disposto il sequestro o la confisca ai sensi dell’articolo 12-sexies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, ovvero della legge 31 maggio 1965, n. 575, ovvero che abbiano ottenuto la dilazione del pagamento ai sensi dell’articolo 19 del presente decreto. 2. Con regolamento del Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono stabilite le modalità di attuazione delle disposizioni di cui al comma 1. 2-bis. Con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, l’importo di cui al comma 1 può essere aumentato, in misura comunque non superiore al doppio, ovvero diminuito”.
[9] Ad Ex l’indennità ex art. 5 Legge 14 dicembre 1970, n. 1088, per i cittadini colpiti da tubercolosi.
[10] “L’Ufficio IX, prima di procedere al pagamento della somma dovuta, per i pagamenti superiori ad € 10.000,00, accerta lo stato di non inadempienza del beneficiario, mediante richiesta effettuata ai sensi dell’art. 48 bis del D.P.R. 602/73 e del D.M. 18 gennaio 2008 n. 40, in vigore dal 29 marzo 2008”, così su http://www.dag.mef.gov.it/indennizzi/ingiusta_detenzione/procedura_di_pagamento/
[11] D.M. 18 gennaio 2008, n. 40 “Modalità di attuazione dell’articolo 48-bis del DPCM n. 602/1973, recante disposizioni in materia di pagamenti da parte delle Pubbliche Amministrazioni”.
[12] Con la circolare n. 13/2018 vengono diramati chiarimenti aggiuntivi in ordine alla disciplina recata dall’articolo 48-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, nonché dal relativo regolamento di attuazione, adottato con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 18 gennaio 2008, n. 40. Ciò a seguito delle modifiche normative introdotte dall’articolo 1, commi da 986 a 989, della L. n. 205/2017 – sostanzialmente concernenti, da un lato, la riduzione, a decorrere dal 1° marzo 2018, da diecimila euro a cinquemila euro del limite di importo oltre il quale le amministrazioni pubbliche (e le società interamente partecipate dalle stesse) prima di effettuare, a qualunque titolo, un pagamento verificano se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento per un ammontare complessivo pari almeno a tale importo.
Avv. Ivano Ragnacci
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