L’influenza del diritto romano sul concetto moderno di diritto d’autore

L’influenza del diritto romano sul concetto moderno di diritto d’autore

Abstract. Numerosi principi giuridici sviluppati nell’antico diritto romano costituiscono fondamenta essenziali della moderna legislazione sul diritto d’autore. È possibile notare ciò, attraverso un’indagine accurata delle fontes iuris romani che offrano una cornice concettuale utile per comprenderne le varie sfaccettature. Le teorie giuridiche romane forniscono un prezioso quadro interpretativo per capire, in maniera analoga, i principi fondamentali nel contesto contemporaneo del diritto d’autore. Tali princìpi giuridici romani rappresentano un indispensabile punto di riferimento, anche in un’epoca caratterizzata dalla pervasività delle tecnologie digitali.

Sommario: 1. Introduzione ‒ 2.  Sintetico quadro delle fonti romanistiche in materia ‒ 3. Convergenza tra il moderno diritto d’autore e lo ius romanorum4. Violazione del diritto d’autore e forma di tutela: aspetti romanistici. ‒ 5. Conclusioni

 

1. Introduzione

Nell’antichità, non esisteva il concetto di proprietà intellettuale. Le societas romane e/o greche, non avevano istituzioni giuridiche che riconoscessero la proprietà su opere intellettuali come le conosciamo oggi. Questo aspetto contrastava con il sistema legale contemporaneo, che offre protezione legale per le opere creative attraverso leggi sul copyright, sui marchi registrati e sui brevetti.

Le ragioni di questa assenza possono essere attribuite a diversi fattori. Innanzitutto, nelle antiche società agricole e artigianali, la produzione di beni materiali aveva una maggiore rilevanza economica rispetto alla produzione di opere intellettuali. La mancanza di mezzi tecnologici per la riproduzione e la diffusione su larga scala di opere creative potrebbe aver contribuito al fatto che la protezione giuridica di tali opere non fosse considerata una priorità. Inoltre, le concezioni filosofiche dell’epoca riguardo alla creatività e alla conoscenza differivano significativamente da quelle moderne (i.e. in alcune società antiche, come la Grecia classica, la conoscenza e la creatività erano considerate doni degli Dèi piuttosto che proprietà individuale).

Questo approccio filosofico influenzava le percezioni sociali e legali sulla proprietà intellettuale. Fu solo con lo sviluppo della stampa e della rivoluzione industriale che il concetto di proprietà intellettuale cominciò ad emergere. Di conseguenza, nel corso dei secoli successivi, sono state introdotte leggi e normative per regolamentare la proprietà intellettuale e per garantire ai creatori il controllo e il beneficio delle proprie opere. L’esplorazione delle radici storiche del diritto d’autore rivela, dunque, un panorama complesso e sfaccettato. Tra le sfumature più significative, emerge il ricco tessuto delle pratiche giuridiche rinascimentali, evidenziato soprattutto dal sistema dei “privilegi”, adottato dalla Repubblica di Venezia nel XV e XVI secolo.

Venezia, nota per essere un eminente centro editoriale durante il Rinascimento, rappresentò un contesto particolarmente fecondo per lo sviluppo di normative e pratiche relative alla produzione e alla distribuzione di testi stampati. In tal senso, il suddetto sistema costituiva un meccanismo fondamentale attraverso il quale il governo veneziano conferiva ad alcuni editori il diritto esclusivo di pubblicare e distribuire specifiche opere. Questi “privilegi” andavano ben oltre la mera protezione della produzione editoriale: essi permettevano ai detentori dei diritti non solo di controllare la stampa e la distribuzione dei loro testi, ma spesso includevano anche disposizioni che limitavano l’importazione e la vendita di opere da parte di altre librerie. In questa ottica, “i privilegi” assumevano una funzione simile a quella svolta dal moderno concetto di diritto d’autore, garantendo un’ampia protezione dei diritti di proprietà intellettuale.

Vale la pena sottolineare che “i privilegi” non erano riservati esclusivamente agli editori e agli stampatori; autori ed altri detentori di diritti potevano anch’essi beneficiare di tali provvedimenti, che garantivano loro il controllo esclusivo sulla pubblicazione e sulla diffusione delle proprie opere. Storicamente, la concessione del primo privilegio registrato ci viene fornita dall’opera seminale sulla storia della stampa veneziana, “The Venetian Printing Press” del 1891, in cui l’autore, Horatio Brown, osserva che nel 1486 il “Collegio” veneziano, un organo governativo, conferì a Marc’ Antonio Sabellico il diritto esclusivo di autorizzare la pubblicazione della sua opera sulla storia della Repubblica di Venezia (Rerum Venetarum), sotto la minaccia di una multa pecuniaria consistente, pari a 500 ducati.

L’evento, come evidenziato da Brown, rappresentava il primo caso documentato in cui il governo veneziano riconobbe la proprietà letteraria di un autore sulla propria opera. Il privilegio, infatti, venne concesso direttamente all’autore, anziché ad un editore, evidenziando ‒ per la prima volta, appunto, ‒  un riconoscimento istituzionale dell’autore come detentore dei diritti sulla propria opera. Per di più, la scelta di Sabellico di affidare la stampa dell’opera ad Andrea de’ Torresani di Asola sottolinea il ruolo cruciale dello stampatore come partner (diremmo oggi) nella produzione e nella diffusione delle opere. Successivamente, divenne sempre più comune che gli autori detenessero diritti esclusivi sulle loro opere, sebbene la prassi più diffusa fosse ancora quella di conferire tali diritti solo agli stampatori.

Dopo il pionieristico privilegio concesso a Marc’Antonio Sabellico, si assiste a una significativa evoluzione nella pratica del diritto d’autore a Venezia. Tuttavia, il privilegio “autore-editore”, inizialmente conferito direttamente agli autori, presto si eclissa a favore del privilegio “stampatore-editore”. Un caso emblematico, però, è rappresentato dal poeta Ludovico Ariosto, la cui opera principale, “l’Orlando Furioso”, ottenne un privilegio speciale nel 1515, garantendogli i diritti a vita, ossia per la durata della sua esistenza e non del libro stesso. Con tale concessione, le autorità veneziane si stavano gradualmente avvicinando all’idea di ricompensare non solo l’opera stessa, ma anche l’opera vissuta, riconoscendo il valore intrinseco del lavoro creativo e la sua relazione con la vita e il contributo dell’autore alla società.

È bene, però, notare che il diritto d’autore non era un automatismo; esso doveva essere esplicitamente richiesto, non era garantito in tutte le circostanze e, quando concesso, di solito andava al primo richiedente. Questa disposizione evidenziava la necessità di un’azione proattiva da parte degli autori e degli stampatori per preservare i loro interessi ed i loro investimenti creativi. Ulteriori forme di copyright riguardavano le immagini stampate, come le xilografie, le incisioni e le acqueforti. In questi casi, pare che i diritti fossero concessi all’incisore, talvolta all’artista, ma più comunemente allo stampatore.

La Santa Sede fu un’autorità particolarmente influente nel conferire diritti d’autore, spesso su richiesta del Papa. Questo indicava un coinvolgimento significativo della Chiesa cattolica nel sistema normativo dell’epoca e nella protezione del moderno concetto di proprietà intellettuale. Tale sistema, sebbene differisse significativamente dal concetto moderno di diritto d’autore, costituiva una pietra miliare nel cammino evolutivo verso le moderne leggi sulla proprietà intellettuale. L’esperienza veneziana, durante il Rinascimento, offre un’illuminante finestra su come le società premoderne affrontavano le questioni di protezione e controllo delle opere creative, gettando le basi per il dibattito e lo sviluppo successivo del diritto d’autore.

2. Sintetico quadro delle fonti romanistiche in materia

Nell’opera “Roman Law: An Historical Introduction” di Hans Julius Wolff (1951), l’autore afferma che «i tempi antichi non conoscevano il diritto d’autore[1]». Questa osservazione è ulteriormente supportata da Brander Matthews, nel suo articolo “The Evolution of Copyright”, pubblicato nel 1890 sulla rivista Political Science Quarterly. Matthews spiega che a Roma, nonostante l’esistenza di librai che avevano decine di schiavi specializzati nel trascrivere i manoscritti destinati alla vendita, non si trova traccia di un concetto di copyright (inteso nel senso moderno) o di protezione legale degli interessi dell’autore. Secondo Matthews non vi era neppure alcuna lamentela da parte degli autori romani per la violazione dei loro diritti, suggerendo che l’autore stesso non fosse consapevole di averne[2].

Anche Alan Watson, nel suo lavoro “The Spirit of Roman Law” del 1995, sottolinea che il diritto privato romano raramente manifestava interesse per ciò che Egli definisce una «dimensione pubblica[3]». Watson argomenta che questa mancanza di una «dimensione pubblica» è un tratto caratteristico distintivo dello ius privatum romanorum, soprattutto quando si considera che il diritto d’autore, per sua natura, implica una dimensione pubblica, in quanto esso regola la distribuzione e l’utilizzo delle opere creative nell’interesse della società nel suo insieme. Dunque, è forse per la mancanza di tale interesse che si potrebbe spiegare, in parte,  il perché gli antichi Romani non svilupparono una legislazione specifica sul diritto d’autore. La loro concezione del diritto privato potrebbe non aver riconosciuto la necessità di regolamentare i diritti degli autori in relazione al pubblico e alla società nel suo complesso, proprio per la mancanza di consapevolezza da parte degli autori dei propri diritti e la natura stessa dello ius, che spesso trascurava la dimensione pubblica.

È ben intuibile che nell’antica Roma, il sistema di produzione e distribuzione delle opere letterarie e artistiche differisse notevolmente dalle dinamiche moderne del diritto d’autore e della commercializzazione delle opere stesse. Gli autori, i pittori e gli scultori romani, anziché dipendere esclusivamente dalla vendita delle loro opere, erano spesso finanziati dai mecenati o lavoravano su commissioni finanziate dai governi locali. Questo modello di sostegno finanziario garantiva loro un reddito stabile, riducendo la necessità di cercare una ricompensa pecuniaria attraverso la diffusione e la vendita delle loro produzioni.

La pratica comune tra gli autori e gli artisti di “prestarsi” reciprocamente le proprie opere potrebbe oggi essere considerata una violazione del diritto d’autore, ma a ben vedere, in quell’epoca, essa rifletteva un approccio differente alla creazione e alla condivisione della conoscenza e dell’arte, dove la priorità era spesso data alla circolazione delle idee piuttosto che al profitto individuale in sé.

Un punto di svolta significativo si verificò intorno al 300 d.C., con l’introduzione del Codex, che sostituì i rotoli di papiro come formato dominante per la scrittura e la conservazione dei testi. Questo cambiamento portò alla necessità di regolare la produzione e la distribuzione delle opere scritte, stimolando la riflessione sulla protezione degli interessi degli autori e sulla gestione della loro proprietà intellettuale.

Benché gli antichi Romani non abbiano formulato concetti specifici di diritto d’autore, intendibile nel senso moderno, essi hanno fornito i primi elementi costitutivi che ne hanno plasmato il concetto stesso. In particolare, il concetto romano di “res” includeva tutte le cose di valore economico, ovvero res corporales e res incorporales, come sottolineato da Gaio[4] nelle Institutiones, intorno al 161 d.C. Quest’ultima nozione di res quae tangi non possunt ha rappresentato un notevole progresso concettuale nell’ambito del diritto romano, poiché ha riconosciuto e trattato i diritti immateriali come entità separate, dotate di valore economico proprio.

Nello ius romanum il concetto di res incorporales, identificava (consistunt) propriamente iura, ovvero i diritti soggettivi che potevano avere come oggetto sia cose corporee che incorporee. Tra questi diritti, spiccano l’eredità (ius successionis), l’usufrutto (ius utendi fruendi), le obbligazioni e le servitù prediali.

L’elencazione gaiana, una delle fonti più importanti per comprendere il diritto romano, è comunemente interpretata come avente un valore esemplificativo anziché esauriente.

È degno di nota il fatto che tra i diritti soggettivi incorporali non sia incluso il diritto di proprietà. Ciò può essere spiegato dal fatto che per i Romani l’idea di appartenenza, e quindi di proprietà, era strettamente associata all’oggetto stesso, rendendo il diritto di proprietà un diritto corporale. Questa concezione evidenzia una peculiarità nell’approccio romano alla proprietà e alla distinzione tra diritti incorporali e proprietà corporea. Nella mentalità giuridica romana, il rapporto dell’uomo con le res era caratterizzato da una piena e immediata comprensione, al punto che lo ius veniva identificato direttamente con l’oggetto materiale.

Per un lungo periodo storico, il concetto di proprietà non possedeva una dimensione concettuale separata rispetto al suo referente materiale, ovvero il dominium, veniva considerato “tutt’uno con il suo oggetto”. Questa prospettiva riflette una profonda connessione tra l’individuo e la cosa posseduta, tanto che il diritto stesso diventava una sorta di estensione dell’oggetto su cui si esercitava. Tale identificazione suggerisce una visione dell’ordine sociale e giuridico romano in cui il possesso materiale era intrinsecamente legato al diritto stesso. In questo contesto, la proprietà non era semplicemente una questione di diritto formale, ma piuttosto una manifestazione tangibile della relazione tra l’uomo e il mondo materiale che lo circondava.

La categoria delle res incorporales comprendeva i diritti o gli elementi del patrimonio secondo diverse prospettive adottate dalla dottrina giuridica, ma è importante sottolineare che le res incorporales non riguardavano gli oggetti del diritto stesso. Questa classificazione non contemplava opere d’ingegno o produzioni intellettuali, quali esempi di beni immateriali che esistevano anche nella società romana. Ciò non implica che tali entità non esistessero affatto; semplicemente, nell’ambito giuridico romano, le opere d’arte non erano considerate “cose” o “beni” e, di conseguenza, non rientravano nella classificazione delle res incorporales di Gaio. Inoltre, agli autori di tali opere non veniva riconosciuto alcun diritto[5]. Sul punto, un esempio eloquente è fornito da Orazio, in una delle sue epistole, relative ad un libro che stava per pubblicare[6]. E così anche Simmaco, nel IV secolo d.C., espresse chiaramente questa concezione:

Symm. epist. 1.31.2: «Cum semel a te profectum carmen est, ius omne posuisti. Oratio publicata res libera est».

Trad.: «Una volta che una poesia è partita da te, hai deposto ogni diritto. Una orazione pubblicata è cosa libera».

Pertanto, l’editore (il librarius) rappresentava l’unico soggetto in grado di trarre profitto dalla pubblicazione delle opere, attraverso la vendita delle singole copie fisiche del libro. Ma, come suddetto, essendo il “prestarsi” delle opere pratica comune, nessuna salvaguardia era prevista per mitigare il rischio di plagio, ad eccezione, forse, del metodo adottato da Marziale, famoso per la sua schiettezza. In un epigramma indirizzato ad un amico, Marziale affrontò il caso di un certo Fidentino che si attribuiva versi non di sua creazione, dicendo:

Marz. 1.52: «Commendo tibi, Quintiane, nostros –/ nostros dicere si tamen libellos/ possum, quos recitat tuus poeta –:/ si de servitio gravi queruntur,/ adsertor venias satisque praestes,/ et, cum se dominum vocabit ille,/ dicas esse meos manuque missos./ Hoc si terque quaterque clamitaris,/ inpones plagiario pudorem».

Trad.: «Ti raccomando, Quintiano, i nostri – sì, posso chiamarli i nostri – libretti, che il tuo poeta recita. Se si lamentano di un grave servaggio, tu intervieni come difensore e, quando costui si dichiara autore, tu dichiara che siano miei e inviati per mano mia. Se ripeterai queste parole tre o quattro volte, infliggerai vergogna al plagiario».

Nelle fonti giuridiche romane – è bene dire ‒ il termine plagiarius si riferiva a colui che riduceva in schiavitù un servo altrui, ma è grazie a Marziale che il termine acquisì il significato moderno di “plagio”, inteso come l’appropriazione non autorizzata di un’opera dell’ingegno.

Infatti, Marziale, sempre contro tale Fidentino sottolinea:

Marz. 1.53.11-12: «Indice non opus est nostris nec iudice libris,/ stat contra dicitque tibi tua pagina «Fur est».

Trad.: «I miei libri non hanno bisogno né di un testimone né di un giudice, contro di te sta la tua pagina che grida: «Sei un ladro!»

3. Convergenza tra il moderno diritto d’autore e lo ius romanorum

L’uso delle opere protette durante il periodo di validità del diritto d’autore presenta una somiglianza concettuale con l’usufructus nel diritto romano. Nelle Istituzioni di Giustiniano, l’usufrutto viene definito come «ius alienis rebus utendi fruendi salva rerum substantia (Inst. 2.4.)», ossia «il diritto di utilizzare e godere delle cose altrui, mantenendo intatta la loro sostanza». Questa analogia sottolinea, oggi, che il pubblico può usare e godere delle opere protette dal diritto d’autore, purché questi “frutti” siano considerati solo idee e non parte dell’espressione tutelabile dell’opera stessa.

È bene anche ricordare, in relazione a tale contesto, che furono gli antichi Romani i precursori nello stabilire e sviluppare il concetto giuridico del confinamento di certi tipi di proprietà per l’uso pubblico, rimanendo al di fuori del dominio privato individuale, come nel caso delle opere di pubblico dominio. Il riferimento, però, qui è relativo alle res in patriminio (cose in grado di essere possedute da individui) e res extra patrimonium (cose incapaci di essere possedute da individui). Lo ius romanorum, infatti, delineava due categorie di proprietà che presentavano somiglianze con le opere di dominio pubblico, ossia le “res communes” e le “res publicae”.

Inst. 2.1 pr.: «Quaedam enim naturali iure communia sunt omnium, quaedam publica, quaedam universitatis, quaedam nullius, pleraque singulorum, quae variis ex causis cuique adquiruntur, sicut ex subiectis apparebit».

Trad.: «Alcune cose sono comuni a tutti per diritto naturale, alcune sono pubbliche, alcune sono dell’intera comunità, alcune non appartengono a nessuno, molte sono dei singoli, come sarà evidente dalle questioni esposte».

Le  “cose pubbliche” non erano considerate proprietà di nessuno in particolare, ma erano ritenute appartenenti all’intera comunità.

Le “cose private”, invece, appartenevano ai singoli individui.

Inst. 2.1.1: «Et quidem naturali iure communia sunt omnium haec: aer et aqua profluens et mare et per hoc litora maris. Nemo igitur ad litus maris accedere prohibetur, dum tamen villis et monumentis et aedificiis abstineat, quia non sunt iuris gentium, sicut et mare».

Trad. : «Comuni a tutti per diritto naturale sono queste: l’aria, l’acqua corrente, il mare, e, di conseguenza, i lidi del mare. A nessuno quindi è proibito accedere al lido del mare, purché però stia lontano da ville, monumenti ed edifici, che non sono di diritto delle genti come il mare».

Le res communes, inoltre, includevano beni di godimento comune che erano a disposizione di tutti in virtù della loro natura essenziale e che, quindi, non potevano essere oggetto di appropriazione privata, poiché il loro utilizzo era un aspetto della personalità umana piuttosto che della proprietà stessa. D’altra parte, le res publicae differivano dalle res communes, in quanto non appartenevano all’umanità nel suo insieme, ma allo Stato o al popolo – diremmo oggi.

Questa distinzione rifletteva l’idea romana di una sfera pubblica e di una sfera privata, con beni e risorse che erano destinati all’uso e al beneficio collettivo della comunità e altri che erano soggetti all’appropriazione individuale.

Oltre a tale categorizzazione dei beni, un altro principio fondamentale del diritto romano, che ha esercitato un’influenza significativa sul concetto moderno di dominio pubblico, è l’usucapio. In termini più specifici, esso rappresentava un’opportunità per coloro che occupavano e utilizzavano un bene in maniera continuativa di trasformare tale possesso in diritto di proprietà effettivo. Questo principio giuridico non solo promuoveva l’efficienza nell’utilizzo delle risorse, incoraggiando una gestione produttiva della proprietà, ma anche sottolineava l’importanza dell’occupazione e dell’uso attivo dei beni nel contesto sociale ed economico dell’antica Roma.

È rispetto a questa tipologia concettuale che il diritto romano getta le basi sulle moderne nozioni di diritto d’autore che riguardano i “tipi” di opere tutelabili e la nozione stessa di “originalità”.

È interessante notare come il giurista romano Sesto Pomponio concepisse le proprietà in termini che oggi potrebbero essere interpretati in modo analogo rispetto alle opere intellettuali. Pomponio delineava tre categorie di proprietà:

  • corpora quae uno spiritu continentur, che rappresentavano oggetti uniti in una singola entità;

  • corpora quae ex cohaerentibus corporis sunt, che consistevano in oggetti che esistevano grazie alla coesione con altre entità;

  • corpora quae ex distantibus corporibus sunt, composti da oggetti distinti.

I corpora quae uno spiritu continentur potrebbero essere paragonate alle opere autonome, che si presentano come entità distinte e integre, non derivanti da altre fonti o compilazioni. D’altra parte, i corpora quae ex cohaerentibus corporis sunt possono essere assimilati a opere derivate, soprattutto quando l’opera di base rimane sostanzialmente invariata nonostante l’aggiunta di altro materiale o la modifica della stessa, e possono anche ricondursi a compilazioni quando si uniscono materiali preesistenti. Infine, i corpora quae ex distantibus corporibus sunt si allineano con il concetto di opera collettiva, dove un insieme di contributi separati e indipendenti viene assemblato in un unico corpus.

È da notare, però, che la proprietà dell’opera derivata o dei materiali preesistenti, che costituiscono una compilazione o un collettivo, non è influenzata dall’originalità attribuita all’autore del derivato o della compilazione stessa, poiché, di base, tale distinzione offre un parallelismo tra le antiche categorie di proprietà romane e le moderne interpretazioni del diritto d’autore e della proprietà intellettuale.

Con una maggiore attenzione al tema trattato, anche altri princìpi del diritto romano forniscono un’utile cornice concettuale per comprendere la proprietà delle opere libere, delle opere derivate e delle compilazioni.

Tre concetti ‒ occupatio, accessio e adiunctio ‒ risultano istruttivi in questo ambito.

L’occupatio, principio romano relativo all’acquisizione della proprietà tramite occupazione o possesso, può essere rilevante per stabilire la proprietà delle opere libere (res nullius). Esso implica che ciò che non è ancora di proprietà di nessuno può essere acquisito attraverso il possesso fisico. Applicato al contesto delle opere intellettuali, l’occupatio potrebbe riflettere la possibilità di acquisire la proprietà su opere non ancora soggette a diritto d’autore, ad esempio creazioni non registrate o non soggette a restrizioni di proprietà intellettuale. Si noti, però, che l’analogia con l’occupatio non è del tutto perfetta,  poiché con l’occupatio il proprietario si limita a prendere possesso di una res già esistente in natura. Al contrario, quando un autore crea un’opera indipendente, produce qualcosa di nuovo e originale, che non può essere considerato né un derivato né una semplice raccolta di opere altrui. È di base, dunque, un concetto di utile comprensione ma, mentre l’occupatio riguarda l’appropriazione di beni esistenti, il processo creativo dell’autore comporta la generazione di qualcosa di unico e distintivo, che non può essere assimilato alla mera appropriazione di ciò che già esiste.

Il concetto romano di accessio arricchisce la comprensione delle opere derivate, ovvero opere che si basano su una o più opere preesistenti. Per capirne appieno il contributo del diritto romano, è fondamentale considerare tre aspetti cruciali. Innanzitutto, un’opera derivata deve presentare una sostanziale somiglianza con l’opera originale su cui si basa, e il contributo dell’autore deve essere, appunto, originale. In secondo luogo, il proprietario di un’opera soggetta a diritto d’autore detiene il diritto esclusivo di creare o autorizzare opere derivate. Infine, un autore di opere derivate non acquisisce alcun diritto d’autore se crea un’opera derivata non autorizzata. Nel diritto romano, l’accessio rappresentava un mezzo attraverso il quale si poteva acquisire la proprietà di un bene materiale. De facto, l’accessio avveniva quando un oggetto tangibile veniva incorporato in un altro oggetto già appartenente all’acquirente. Barry Nicholas ha chiarito questo concetto affermando che «se l’identità di un oggetto accessorio si fonde e si perde nell’identità di un altro oggetto principale, il proprietario del principale diventa il proprietario dell’intera entità [7]» (giuridicamente, questo fenomeno è noto come accessione). L’accessio, si riferisce all’aggiunta o al miglioramento di una res preesistente e, nell’ambito delle opere derivate, esso potrebbe essere interpretato come il processo mediante il quale un’opera originale viene modificata, arricchita o trasformata in una nuova creazione intellettuale. Questo concetto fornisce un quadro utile per comprendere la trasformazione di opere preesistenti in nuove espressioni artistiche o intellettuali.

Infine, l’adiunctio, che riguarda l’unione di cose che non sono necessariamente dipendenti l’una dall’altra, offre una prospettiva sulla formazione delle opere collettive. Nel contesto delle opere intellettuali, l’adiunctio potrebbe essere interpretato come il processo mediante il quale diverse opere separate vengono combinate o assemblate per formare un’unica opera collettiva.

Complessivamente, l’applicazione di questi princìpi romanistici offre un quadro concettuale utile per comprendere la natura e la proprietà delle suddette opere, riguardo i moderni concetti di diritto d’autore e della proprietà intellettuale.

4. Violazione del diritto d’autore e forma di tutela: aspetti romanistici

È possibile rintracciare almeno quattro princìpi/concetti giuridici romani che, per affinità, possono arricchire la nostra comprensione della violazione del diritto d’autore:

  1. il riconoscimento delle lesioni immateriali: nella giurisprudenza romana, veniva riconosciuta l’esistenza di danni non solo fisici, ma anche immateriali. Questo concetto può essere paragonato alle lesioni causate alla proprietà intellettuale, che non necessariamente danneggiano fisicamente l’opera, ma ne compromettono il valore o l’integrità;

  2. l’iniuria (danno): il concetto di iniuria nel diritto romano comprendeva un’ampia gamma di offese e lesioni ai diritti di una persona. Nella sfera del diritto d’autore, potrebbe essere equiparato al danno causato alla reputazione o all’integrità dell’opera a causa di violazioni del copyright;

  3. il furtum (furto): nel diritto romano si riferiva al furto di proprietà materiale. Similmente, nel contesto del diritto d’autore, si potrebbe considerare come furto l’appropriazione non autorizzata dell’opera di un autore da parte di un’altra persona, privando così l’autore stesso dei suoi diritti e del valore del suo lavoro;

  4. la legittimazione di terze parti: secondo il diritto romano, non solo i proprietari di un bene, ma anche altre persone, potevano essere legittimate a far valere i diritti su di esso. Nel contesto del diritto d’autore, questo princìpio potrebbe permettere ad altre parti, oltre all’autore stesso, di agire legalmente contro le violazioni del copyright, come editori o società di gestione dei diritti d’autore.

Questi concetti romani forniscono un quadro utile per conoscere la complessità della violazione del diritto d’autore, nonché i rimedi legali disponibili per tutelarne i diritti degli autori e/o degli altri detentori di proprietà intellettuale. Inoltre, considerando tale prospettiva, poiché il diritto d’autore è considerato una forma di proprietà immateriale, affinché esista un’azione legale per violazione, è necessario che un sistema giuridico riconosca le lesioni immateriali come perseguibili. Il diritto romano ha dimostrato chiaramente questa capacità. Sebbene inizialmente l’azione per iniuria fosse applicabile solo alle lesioni fisiche o tangibili, con lo sviluppo della lex, essa si estese anche alle lesioni immateriali, quali le “aggressioni verbali”.

È degno di nota che, in passato, l’iniuria era considerata un reato sia intenzionale che non, ovvero poteva essere perpetrata senza alcuna intenzione. In questo senso, la più antica forma di iniuria era considerabile simile alla violazione del moderno diritto d’autore [8]. Pertanto, benché vi siano differenze tecniche, le teorie centrali di iniuria e furtum sono fondamentali anche per le nostre moderne teorie sulla violazione del diritto d’autore.

Infine, in aggiunta a quanto summenzionato, nell’ambito del diritto romano, si assistette all’istituzione di un meccanismo di tutela per gli autori, conosciuto come actio iniuriarium aestimatoria. Benché emessa da un’autorità legislativa, il cui ruolo fondamentalmente ricadeva sul giudice, le specificità e l’efficacia di questa azione nella salvaguardia dei diritti dell’autore rimangono tuttora oggetto di discussione e incertezza. È plausibile ritenere che l’actio non conferisse agli autori un diritto patrimoniale diretto, particolarmente nel caso degli autori di opere intellettuali quali quelle letterarie o artistiche, bensì fosse limitata all’editore che deteneva fisicamente il manoscritto. Nonostante ciò, essa garantiva protezione contro il plagio, il diritto di decidere se e quando pubblicare l’opera e il privilegio dell’inedito. Pertanto, si delineava una normativa che, sebbene possa apparire, forse, antiquata ai nostri occhi, rappresentava un notevole passo avanti per l’epoca. Al tempo, la pubblicazione di un’opera letteraria era un processo articolato, caratterizzato principalmente da due fasi distintive: una prima fase, durante la quale l’opera veniva presentata al pubblico attraverso una lettura, ed una successiva di diffusione dell’opera stessa.

5. Conclusioni

Come sopradetto, la società romana antica, non sviluppò una legge specifica sul diritto d’autore, tuttavia gli sviluppi giuridici riguardanti la proprietà, i contratti e la responsabilità hanno prodotto un impatto rilevante sui concetti fondamentali che riguardano la vigente legge italiana in materia. Emerge, infatti, da un’attenta analisi che vi è un’importante continuità tra i fondamenti romani e le strutture concettuali contemporanee nel campo della proprietà intellettuale, centrale nella tradizione giuridica romana, tanto da permeare lo stesso concetto di diritto d’autore, considerato come una forma di proprietà intangibile. Questa trasposizione concettuale riflette la natura immateriale delle opere creative e stabilisce una correlazione tra la proprietà materiale e quella intellettuale.

Un’altra nozione di rilievo è quella del “pubblico dominio”, anch’esso radicato nelle antiche leggi romane. L’idea di base che alcune opere possano diventare accessibili a tutti senza restrizioni di diritti d’autore dopo un determinato periodo di tempo risuona con i princìpi romani sulla libertà di accesso a beni comuni, garantendo la circolazione e l’uso delle opere nel corpus culturale. Inoltre, la varietà di opere considerate protette dal diritto d’autore e la loro commerciabilità possono essere collegate ai concetti romani di vendita e trasferimento di proprietà. Questo aspetto evidenzia l’influenza dei princìpi romani sulla determinazione dei confini della proprietà intellettuale e sulle modalità di scambio e commercio delle opere creative. La questione della paternità congiunta e del lavoro su commissione, così come la responsabilità legale per violazione del diritto d’autore, sono ulteriori tematiche che presentano somiglianza con i princìpi romani di proprietà e contratto.

La coautorialità e la commissione di opere artistiche riflettono le dinamiche delle relazioni contrattuali romane, mentre la responsabilità per la violazione del diritto d’autore si collega alla tradizione romana di responsabilità civile per violazioni di proprietà. Pertanto, mentre gli antichi Romani non hanno formulato una legge in materia, i princìpi giuridici che hanno elaborato hanno notevolmente influenzato lo sviluppo della moderna legge sul diritto d’autore. [9]

 

 

 

 

 


Bibliografia
  • GUARINO A., Diritto privato romano, Napoli, 1992.
  • IZZO U., Alle origini del copyright e del diritto d’autore. Tecnologia, interessi e cambiamento giuridico, Carocci Editore, 2010.
  • MATTHEWS B., “The Evolution of Copyright”, Political Science Quarterly, vol. 5, no. 4, 1890.
  • NICHOLAS B., “An Introduction to Roman Law”, Journal of Legal History 14, no. 2 (1962).
  • THOMAS J.A.C., Textbook of roman law 3, 1976.
  • WATSON A., The Spirit of Roman Law, University of Georgia Press, 1995.
  • WOLFF H. J. , Roman Law: An Historical Introduction, University of Oklahoma Press, 1951.

Principali fonti romanistico-letterarie citate
  • Gaio, 2.12-14.
  • Horatio, epist. 1.20.1-6.
  • epist. 1.31.2.
  • 1.52; 1.53.11-12.

[1] Vd. J.A.C. THOMAS, Textbook of roman law 3, 1976, p. 369.
[2] Il riferimento è relativo alle res in patriminio (cose in grado di essere possedute da individui) e res extra patrimonium (cose incapaci di essere possedute da individui).
[3] B. NICHOLAS, “An Introduction to Roman Law”, Journal of Legal History 14, no. 2 (1962): p. 133.
[4] Gai 2.12-14: «Quaedam praeterea res corporales sunt, quaedam in. [13] Corporales hae quae tangi possunt, veluti fundus homo vestis aurum argentum et denique aliae res innumerabiles. [14] Incorporales sunt quae tangi non possunt, qualia sunt ea quae iure consistunt, sicut hereditas, ususfructus, obligationes quoquo modo contractae. Nec ad rem pertinentur et fructus, qui ex fundo percipiuntur, corporales sunt, et quod ex aliqua obligatione nobis debetur, id plerumque corporale est, veluti fundus homo pecunia; nam ipsum ius successionis et ipsum ius utendi fruendi et ipsum ius obligationis incorporale est. Eodem numero sunt iura praediorum urbanorum et rusticorum».
[5] A. GUARINO, Diritto privato romano, Napoli, 1992, 330 nt. 26.2: «del tutto al di fuori dell’esperienza giuridica romana erano le creazioni intellettuali […] di cui ancora non si avvertivano i peculiari riflessi economici».
[6] Hor. epist. 1.20.1-6: «Vertumnum Ianumque, liber, spectare videris,/ scilicet ut prostes Sosiorum pumice mundus./ Odisti clavis et grata sigilla pudico;/ paucis ostendi gemis et communia laudas,/ non ita nutritus. Fuge quo descendere gestis./ Non erit emisso reditus tibi».

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