“L’insostenibile leggerezza” del divieto di discriminazione
Il divieto di discriminazione affonda le sue radici nel principio costituzionale di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., rappresentando una sua specificazione, ed informa l’intero ordinamento giuridico. La sua portata generale, infatti, si comprende in quanto si riscontrano norme poste a presidio del divieto di discriminazione sia nel codice civile, sia nel codice penale, sia nel codice del processo amministrativo. Per fare alcuni esempi: l’aver commesso un delitto per motivi di odio razziale comporta un aumento di pena; il non aver favorito, da parte della Pubblica Amministrazione le condizioni di parità e di concorrenza a favore dei possibili contraenti nelle procedure di evidenza pubblica comporta; il licenziamento per motivi discriminatori è nullo.
Il divieto di discriminazione, corollario del principio di uguaglianza, manifesta la necessità che si avvertiva nell’immediato dopoguerra di scongiurare il verificarsi di fenomeni che avevano caratterizzato il regime totalitario, quali la promulgazione delle leggi razziali: esempio paradigmatico di discriminazione per motivi di razza. Conferire al divieto in questione una copertura costituzionale, significa pertanto che lo stesso entra a far parte dei principi ispiratori dello Stato di diritto.
Il divieto di discriminazione ha diversi fondamenti normativi anche nel diritto europeo: la Convenzione internazionale di New York, il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea e la Carta di Nizza e la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo.
La circostanza che il divieto di discriminazione sia positivizzato nel TFU e nella Carta di Nizza, che a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha lo stesso valore giudico dei trattati, comporta che in caso di conflitto tra una norma interna e le norme del TFU e della Carta di Nizza che sanciscono il divieto di non discriminazione, la norma interna dovrebbe essere disapplicata dal Giudice oltre che essere sospetta di incostituzionalità per contrasto con l’art. 3 Cost.
Il divieto di discriminazione, come anticipato, ha una portata generale, essendo espressione in negativo del principio di uguaglianza e uno dei campi in cui maggiormente può manifestarsi la sua latitudine è il campo dei rapporti contrattuali, posto che il contratto assume centralità nell’intero diritto civile, in quanto esso è espressione del valore riconosciuto alla volontà dei singoli, la quale volontà è idonea a costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico patrimoniale.
Le volontà delle singole parti, intese come centri di interessi, per dar vita ad un contratto devono incontrarsi nell’accordo che è elemento essenziale in quanto in assenza di esso il contratto sarebbe nullo ex art. 1418 c.c.
Prima di addivenire all’accordo le parti potrebbero manifestare il loro consenso nelle trattative che, in un sistema economico moderno, rappresentano il momento genetico e funzionale all’accordo. Durante la fase delle trattative potrebbe accadere che, per motivi determinati da razza, opinioni politiche, sesso, lingua, religione, opinioni politiche e condizioni sociali, una delle parti non presti il consenso a stipulare il contratto dopo aver ingenerato nell’altra parte un affidamento circa la conclusione del contratto. Il comportamento appena descritto sarebbe contrario al divieto di discriminazione e potrebbe essere fonte di responsabilità. Riconoscere spazio applicativo al divieto di discriminazione nella fase delle trattative porta ad interrogarsi circa il possibile rimedio di cui la parte discriminata potrebbe avvalersi a fronte di un comportamento discriminatorio. In dottrina e in giurisprudenza si è registrato un vivace dibattito circa la natura da ascrivere alla responsabilità nella fase delle trattative. A chi la qualificava come responsabilità precontrattuale, in quanto prodromica alla stipulazione vera e propria, si contrapponeva chi la qualificava come extracontrattuale, facendo leva sulla presunta dicotomia esistente tra la responsabilità contrattuale e la responsabilità derivante da fatto illecito: si argomentava infatti che, non essendoci ancora un contratto stipulato, la responsabilità per un fatto che ha avuto luogo prima della sua stipula, non potendo essere contrattuale, sarebbe di tipo aquiliano. Si è fatta strada una terza tesi secondo la quale la responsabilità durante la fase delle trattative deriverebbe dal “contatto sociale” che si instaurerebbe tra le due parti. L’impostazione suddetta, qualificando l’art. 1173 c.c. come norma aperta, posto che le fonti delle obbligazioni sono il contratto, il fatto illecito e qualsiasi altro atto o fatto idoneo a farle sorgere in conformità con l’ordinamento giuridico, inseriscono l’ambito delle trattative all’interno della categoria di “qualsiasi altro atto o fatto idoneo a farle sorgere in conformità con l’ordinamento giuridico”. La trattativa infatti è una fase caratterizzata da uno scopo (la stipula del contratto) che ingenera nelle parti un reciproco affidamento circa il corretto agire vicendevole. Discriminare in fase di trattativa o meglio, concludere negativamente le trattative in ragione di motivi dettatati da razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni sociali e personali, accogliendo la suesposta tesi giurisprudenziale, comporterebbe la responsabilità della parte discriminante che ha violato il legittimo affidamento della parte discriminata con conseguente possibilità da parte del giudice di condannare al risarcimento dal danno ex art. 1218 c.c. ( poiché la responsabilità da “ contatto sociale” viene teorizzata mutuando la categoria del quasi-contratto di origine romanica)
Un altro campo inerente i rapporti contrattuali in cui il divieto di discriminazione potrebbe essere violato o aggirato, oltre alla trattativa, potrebbe essere la stipulazione vera e propria: vi potrebbe essere un contratto, infatti, all’interno del quale, la discriminazione, ponendosi come motivo oggettivante e determinante la stipulazione, sia stata funzionalizzante all’accordo così da concretizzarsi nella causa stessa del contratto. In una situazione questo tipo il contratto sarebbe nullo in quanto caratterizzato da una causa illecita ex art. 1418 c.c.. L’illiceità della causa, infatti, ai sensi dell’art. 1343 c.c. si riscontra in presenza di contrarietà a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. La causa del contratto che si sostanzia nella discriminazione di una delle due parti può essere considerata infatti illecita in quanto contraria all’art. 3 Cost. il quale, secondo illustre dottrina dovrebbe essere considerata norme imperativa. A parere della stessa, infatti, le norme costituzionali non sarebbero norme programmatiche, ma vere e proprie norme precettive nel senso che nelle stesse sarebbe direttamente rinvenibile un precetto, un comando e nel caso di specie un divieto, quello di discriminazione. La norma costituzionale, oltre ad essere precettiva non può non essere inderogabile, posto il livello più alto che la Costituzione occupa nella scala gerarchica delle fonti del diritto, essendo essa stessa parametro di valutazione di legittimità di tutte le altre disposizioni di legge primarie e secondarie. Accogliere l’impostazione dottrinale suddetta comporterebbe qualificare il contratto come caratterizzato da causa illecita perché concretizzatasi su ragioni discriminatorie e quindi nullo per contrarietà a norma imperativa. Si ricorda, inoltre che, qualora non si dovesse riconoscere alla norma costituzionale il carattere della imperatività, la causa discriminatoria ben potrebbe comunque condurre ad un giudizio di illiceità della stessa, posto che la causa illecita è anche quella contraria all’ordine pubblico e al buon costume. La discriminazione, infatti (oltre ad essere contraria all’art 3 Cost.) è anche contraria al buon costume inteso come insieme di norme con cui l’ordinamento fa propri i fenomeni di sensibilizzazione morale e sociale e all’ordine pubblico inteso come insieme di principi che sono alla base del corretto funzionamento dell’ordinamento giuridico. La discriminazione che si erge a divenire causa del contratto postula l’accoglimento della teoria della cd. “causa in concreto” di recente accolta dalla giurisprudenza maggioritaria. Infatti, muovendo dalla teoria tradizionale che qualifica la causa come la funzione economica e sociale del contratto, la stipulazione del contratto per ragioni discriminatorie, non inficerebbe mai l’elemento essenziale della causa, restando confinata all’ambito (irrilevante ai fini della nullità) dei motivi che determinano la nullità solo se comune ad entrambe. Le ragioni discriminatorie difficilmente potrebbero essere comuni alle parti posto che ontologicamente la discriminazione richiede una parte discriminante ed una parte che viene discriminata. Invece, accogliendo la teoria della causa in concreto che presta attenzione al reale assetto degli interessi esplicitati dalle parti nel programma contrattuale, più che alla funzione sociale economica del contratto che si confonde spesso con il “ tipo “ contrattuale, ben si potrebbero scorgere ipotesi di discriminazione. La discriminazione, infatti, potrebbe essere anche indiretta (oltre che diretta) e cioè potrebbe essere perpetrata utilizzando formalmente degli schemi neutri e delle modalità lecite che però, nel caso concreto, condurrebbero a trattamenti differenziati in ragione di razza, sesso, religione, lingua , opinioni politiche o condizioni sociali.
Il divieto di discriminazione si rietine operante anche nella fase dell’esecuzione del contratto. Vi potrebbe essere un rapporto contrattuale che, pur avendo origine in un contratto lecito, preceduto da trattative non discriminatorie, sia seguito da una prestazione che pur formalmente lecita si sostanzi nella pretesa di una prestazione illecita perché discriminatoria. In tal caso, però, a parere della giurisprudenza, non si ritiene sia possibile ricorrere al giudice per richiedere di ricondurre il contratto nell’ambito della legalità, posto che il nostro ordinamento giuridico non contempla la possibilità per il giudice di sindacare l’equilibrio contrattuale in fase di esecuzione in chiave “ manutentiva”. Il contratto, infatti, benché interpretato alla luce delle norme costituzionali, rimane disciplinato dal codice civile, il quale, essendo espressione dei principi liberali, non presenta aperture del potere giurisdizionale per sindacare lo squilibrio contrattuale se non in ipotesi eccezionali quali quelle tipiche che conducono alla rescissione del contratto. Una teoria evolutiva, prospetta l’operatività del dovere di buona fede, espressione del dovere di solidarietà ex art 2 Cost. anche in fase di esecuzione del contratto con possibilità di far sindacare al giudice lo squilibrio del contratto con conseguente obbligo di ricontrattare (e conseguente risarcimento del danno), ma senza la possibilità di emettere pronunce costitutive, posto che anche queste sono limitate alle ipotesi previste per legge, quali ad esempio la sentenza costituiva in luogo del contratto definitivo non concluso a seguito di contratto preliminare. Il divieto di discriminazione ben potrebbe essere inteso come violazione della clausola di buona fede e pertanto, anche in caso di violazione dello stesso potrebbe comportare il risarcimento del danno a carico del discriminante.
In conclusione, il divieto di discriminazione nei rapporti contrattuali comporta il risarcimento del danno in favore della parte discriminata.
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