L’interversio possessionis nel delitto di peculato
Nel novero dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione〈1〉, la fattispecie prevista all’art. 314 c.p. disciplina il peculato, secondo una disposizione dal seguente tenore:
“Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi.
Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.”
Buon andamento e imparzialità dell’operato pubblico, pertanto, i valori tutelati dalla norma in parola, canoni che rinvengono il proprio presidio normativo nell’art. 97 co. 1 Cost.〈2〉.
Volgendo l’analisi sul versante oggettivo e, più precisamente, alla condotta incriminata, è facile intuire come questa si risolva nell’appropriazione di denaro o altra cosa mobile altrui. Naturalmente, dovrà pur sempre sussistere in capo al soggetto agente, quale presupposto indefettibile, il possesso o la disponibilità di quanto poc’anzi menzionato, sebbene al riguardo debba considerarsi non solo la disponibilità materiale in senso stretto, ma anche quella giuridica, che si risolve nel potere di disporre del bene materialmente detenuto da terzi.
In stretta correlazione con quanto appena indicato, ulteriore elemento risulta altresì la ragione d’ufficio o servizio che deve qualificare il possesso della cosa fatta propria: stando all’orientamento prevalente in giurisprudenza, il possesso che rileva ex art. 314 c.p. non è unicamente quello interessato da un connotato funzionale, ma anche quello che, per qualsiasi altra ragione〈3〉 risulta collegabile all’ufficio ricoperto o al servizio espletato.
A questo punto, il quesito principale: l’espropriazione del legittimo proprietario e la conseguente disponibilità materiale della res da parte del soggetto pubblico è da sola sufficiente a determinare un autentico mutamento del possesso?
Stando ad un certo orientamento giurisprudenziale〈4〉, ciò non basta. Il quid pluris che farebbe ricadere il fatto nel perimetro tracciato dall’art. 314 c.p. è rappresentato dall’intenzione dell’agente di tenere il bene per sé〈5〉.
Significativa al riguardo la pronuncia n. 381/2001 della VI Sezione della Cassazione, secondo cui “l’elemento oggettivo del reato di peculato è, in ogni caso, costituito esclusivamente dall’appropriazione, la quale si realizza con una condotta del tutto incompatibile con il titolo per cui si possiede, da cui deriva una estromissione totale del bene dal patrimonio dell’avente diritto con il conseguente incameramento dello stesso da parte dell’agente. Sul piano dell’elemento soggettivo si realizza il mutamento dell’atteggiamento psichico dell’agente nel senso che alla rappresentazione di essere possessore della cosa per conto di altri succede quella di possedere per conto proprio“.
A titolo esemplificativo, seguendo l’impostazione richiamata l’interversione del possesso ex art. 314 c.p. potrà dirsi integrata con l’impiego, da parte del soggetto agente, di denaro pubblico per spese di natura privata e in assenza di qualsiasi utilizzo riferibile alle specifiche funzioni istituzionali del reo.
A parere di chi scrive, porre l’accento sulla direzione della volontà nel senso indicato dalla giurisprudenza richiamata non può che essere accolto con favore, considerato che questa è l’unica via percorribile per il massimo rispetto del principio di colpevolezza in materia, evitando così insopportabili automatismi nell’attribuzione dell’illecito che, alla luce del dettato costituzionale, nulla hanno a che vedere col moderno diritto penale.
〈1〉 Si badi che il riferimento alla qualifica soggettiva ad hoc richiesta da tale reato proprio rimanda agli artt. 357 e 358 c.p.
〈2〉 La tutela è incardinata sull’interesse statale all’imparzialità e ad una serie di valori compositi, quali il prestigio, la fedeltà, la probità e la riservatezza delle persone che espletano compiti di pubblico rilievo.
〈3〉 Basti pensare al possesso scaturente dalla mera consuetudine.
〈4〉 Cass. Pen., Sez. VI, 24 agosto 1993, n. 8009; Cass. Pen. , Sez. VI, 18 gennaio 2001, n. 381; Cass. Pen. n. 23066/2009.
〈5〉 Tale orientamento è chiaramente ispirato a modelli civilistici, in linea con il brocardo animus rem sibi habendi.
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Avv. Giovanni Ciscognetti
Nato nel 1992, ha conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo con il Prof. Vincenzo Maiello una tesi in Diritto Penale dal titolo "Le circostanze del reato". È iscritto all'Albo degli Avvocati di Napoli. È attualmente membro della Scuola Forense Enrico De Nicola.
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