Liquidazione coatta amministrativa, per le SU è valida ed efficace la cessione del credito Ires da parte del commissario liquidatore

Liquidazione coatta amministrativa, per le SU è valida ed efficace la cessione del credito Ires da parte del commissario liquidatore

Le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, con la Sentenza n°2608/2021, depositata in Cancelleria il 04/02/2021 hanno pronunciato un nuovo principio di diritto in tema di circolazione dei crediti delle procedure concorsuali.

La vicenda processuale. La vicenda su cui si sono pronunciate le Sezioni Unite Civili riguarda la richiesta di rimborso di un credito Ires, effettuata da un Istituto di Credito nei confronti di una Società Cooperativa a Responsabilità Limitata in liquidazione coatta amministrativa. Il contratto sottostante al credito Ires, oggetto della richiesta dell’Istituto di Credito, era stato stipulato dal commissario liquidatore nel 2010, benché la procedura di liquidazione coatta amministrativa si fosse chiusa con decreto del 28 gennaio 2008 da parte del Tribunale di Pavia, con cancellazione della società dal Registro delle Imprese il successivo 18 aprile 2008.

Di conseguenza, l’Agenzia delle Entrate rigettò la richiesta di rimborso attraverso l’istituto del silenzio-rifiuto. La società impugnò tale silenzio-rifiuto dinanzi al giudice di primo grado. A questo punto la Pubblica Amministrazione finanziaria motivò il suo diniego sostenendo che l’Istituto di Credito aveva acquistato il credito fiscale quando, ormai, il commissario liquidatore non era più titolato a cederlo, in quanto era già cessato dalla carica,  a causa della chiusura della procedura concorsuale. Per di più, continuava l’Agenzia delle Entrate, il credito tributario a quell’epoca neanche esisteva, in quanto non era stata ancora presentata la dichiarazione finale dei redditi dalla quale esso sarebbe poi scaturito.

Sia la Commissione Tributaria Provinciale di Pavia sia la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia hanno accolto le ragioni dell’Istituto di Credito, condannando l’Agenzia delle Entrate a pagare alla Banca l’importo del credito fiscale contestato.

Per di più, la CTR della Lombardia ha osservato sul punto che la dichiarazione dei redditi con l’eventuale indicazione del credito verso l’Erario va fatta entro i sette mesi successivi alla chiusura della procedura di liquidazione coatta amminitrativa; il che comporta per legge una prorogatio dei poteri del commissario liquidatore.

E proprio l’impossibilità di determinare con esattezza il credito prima della chiusura della procedura spiega, ad avviso del giudice d’appello, lo scambio di corrispondenza relativo alla cessione tra la società cooperativa cedente e l’Istituto di Credito cessionario; laddove il contratto di cessione munito dei requisiti di forma previsti dall’articolo 69 del R.D n° 2440/1923 è stato appunto stipulato dopo la chiusura.

Da quanto sopra, la CTR della Lombardia ha concluso che, come il commissario liquidatore è legittimato, dopo la chiusura della procedura, a presentare la dichiarazione dei redditi relativa al maxi-periodo concorsuale, così è legittimato a cedere il credito che pur sempre emerge dalla dichiarazione.

Il contrasto giurisprudenziale rimesso alle S.U.. Successivamente, la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione ha emesso l’Ordinanza interlocutoria n° 10129 del 28 maggio 2020. Con tale Ordinanza è stato portato all’attenzione delle Sezioni Unite Civili il contrasto giurisprudenziale concernente la valutazione del rapporto tra il sistema della tassazione in acconto fissato dall’art. 26, comma 2, del DPR 600/73 e la tassazione del reddito delle procedure concorsuali liquidatorie, con particolare riferimento alla circolazione dei crediti delle procedure concorsuali.

In pratica, si è chiesto alle Sezioni Unite, da una parte, se sussista le legittimazione del commissario liquidatore di una procedura di liquidazione coatta amministrativa a chiedere il rimborso del credito Ires da eccedenza di imposta versata a titolo di acconto, liquidato all’atto della presentazione della dichiarazione dei redditi ai sensi dell’art.10, comma 4, del DPR 600/73, successivamente all’archiviazione della procedura; e, dall’altra, se sussista la legittimazione del commissario liquidatore di una procedura di liquidazione coatta amministrativa a chiedere il rimborso del credito Ires da eccedenza di imposta versata a titolo di acconto, il cui importo sia stato acquisito dalla procedura cedente prima della predisposizione del piano di riparto finale, ma sia divenuto certo, liquido ed esigibile successivamente all’archiviazione della procedura per effetto della dichiarazione presentata, anche successivamente alla suddetta archiviazione e alla cancellazione della società, quale attività meramente esecutiva, effettuata in regime di prorogatio, volta a dare attuazione all’archiviazione della procedura concorsuale.

La decisione delle Sezioni Unite. Le Sezioni Unite chiariscono, preliminarmente, che si tratta di un credito scaturito dalle ritenute d’acconto sugli interessi attivi di conti correnti bancari maturati a favore della procedura, in base al disposto dell’art.26 DPR 600/73.

A tal fine, continuano le Sezioni Unite, i sostituti d’imposta hanno l’obbligo di operare le ritenute d’acconto sugli interessi derivanti da conti correnti e da depositi bancari e postali anche quando l’impresa a favore della quale sono corrisposti sia sottoposta a liquidazione coatta amministrativa, in virtù del principio di uguaglianza tributaria.

Di norma, però, il credito da eccedenza è accertato soltanto alla fine della liquidazione. Quindi, spiegano i giudici di legittimità, qualora vi sia un residuo attivo imponibile, dall’imposta che risulterà dovuta si devono scomputare gli acconti prelevati dal sostituto nel corso della procedura e versati all’Erario, mentre il diritto al rimborso totale o parziale delle somme è destinato a manifestarsi nell’impotesi in cui, in base ai risultati del conto di gestione e del bilancio finale, non siano dovute imposte sui redditi d’impresa o siano dovute imposte per un ammontare inferiore a quello delle ritenute d’acconto.

Se questa è la regola, spiegano le Sezioni Unite Civili, la stessa rischia di entrare in frizione col regime delle procedure concorsuali.

Per risolvere tale contrasto le Sezioni Unite richiamano, innanzitutto, il disposto dell’articolo 80 del Tuir, in tema di “Riporto o rimborso di eccedenze” . Tale disposizione, al comma 1, afferma che “se l’ammontare complessivo dei crediti…, delle ritenute d’acconto e dei versamenti in acconto di cui ai precedenti articoli è superiore a quello dell’imposta dovuta il contribuente ha diritto, a sua scelta, di computare l’eccedenza in diminuzione dell’imposta relativa al periodo d’imposta successivo, di chiederne il rimborso in sede di dichiarazione dei redditi ovvero di utilizzare la stessa in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n° 241″.

Con tale norma deve essere collegata e coordinata, secondo gli Ermellini, la disposizione contenuta al successivo articolo 183 del Tuir, ovviamente nel testo applicabile all’epoca dei fatti. Tale norma, in tema appunto di “Fallimento e liquidazione coatta”, al comma 2, individuando il c.d. maxi-periodo concorsuale, prevede che “il reddito d’impresa relativo al periodo compreso tra l’inizio e la chiusura del procedimento concorsuale, quale che sia la durata di questo ed anche se vi è stato esercizio provvisorio, è costituito dalla differenza tra il residuo attivo e il patrimonio netto dell’impresa o della società all’inizio del procedimento, determinato in base ai valori fiscalmente riconosciuti”.

Da ciò deriva come logica conseguenza, secondo i supremi giudici, che in relazione a questo periodo il reddito d’impresa risulta dalle dichiarazioni iniziale e finale che devono essere presentate dal curatore o dal commissario liquidatore; ma il curatore o il commissario liquidatore presentano la dichiarazione concernente il risultato finale delle operazioni di liquidazione entro i sette mesi successivi alla chiusura del Fallimento o alla cessazione della liquidazione.

Per tali motivi, è il ragionamento delle S.U., la tassazione non opera, quindi, in relazione ai risultati economici della gestione di ciascun periodo d’imposta, ma con riguardo ad una grandezza patrimoniale, data dalla differenza tra il residuo attivo risultante al termine della procedura e il patrimonio netto all’inizio della stessa, che si riferisce ad un periodo d’imposta unico.

Secondo le S.U. Civili, quindi, né il curatore né il commissario liquidatore potranno fare applicazione dell’articolo 80 del Tuir, perché, non sussistendo i presupposti per la compensazione, non si può computare in diminuzione in un periodo d’imposta successivo l’eccedenza accertata.

Se questa è la normativa cui fare riferimento per trovare la soluzione del contrasto giurisprudenziale rimesso alle S.U. della Cassazione, le stesse S.U. non possono fare a meno di evidenziare i diversi orientamenti formatisi sulla questione posta all’interno della stessa Suprema Corte.

Da una parte, infatti, si è sostenuto che in caso di fallimento, come pure in caso di liquidazione coatta amministrativa, la dichiarazione concernente il maxi-periodo concorsuale, che presuppone il compimento di tutte le operazioni necessarie alla definizione del rapporti giuridico- economici facenti capo alla procedura, in mancanza di un’espressa previsione di legge che lo vieti e in considerazione del fatto che il legislatore prevede il termine ultimo, ma non quello iniziale per ottemperarvi, è presentata in modo legittimo ed efficace anche prima della chiusura della procedura.

D’altra parte, vi è la tesi in base alla quale, avvenuta l’estinzione della società per effetto della cancellazione dal registro delle imprese, il diritto al rimborso spettante per l’eventuale eccedenza corrisposta può essere esercitato dai soci pro quota e sul rimborso ottenuto si possono soddisfare i creditori rimasti insoddisfatti nella procedura concorsuale.

Infine, secondo i giudici di legittimità, ciò che si rivela dirimente per la decisione del giudizio è la questione concernente la cessione avvenuta in corso di procedura concorsuale.

E, a questo proposito, le S.U affermano che il credito Ires poteva essere oggetto di cessione nel corso della procedura.

L’articolo 106 della Legge Fallimentare, in materia di “Cessione dei crediti, dei diritti e delle quote, delle azioni, mandato a riscuotere”, stabilisce, infatti, che “il curatore può cedere i crediti, compresi quelli di natura fiscale o futuri, anche se oggetto di contestazione”. L’obiettivo del Legislatore, infatti, hanno fatto notare le S.U., è stato proprio quello di evitare ritardi nella chiusura delle procedure concorsuali, che, spesso, veniva rallentata dai tempi di accertamento e di rimborso dei crediti tributari.

Per di più, continuano gli Ermellini, ai fini della cessione, non rileva che il credito sia esposto in una dichiarazione, la quale non ha natura negoziale o comunque dispositiva, ma è esternazione di scienza o di giudizio. Quel che importa è che esso scaturisca da uno specifico rapporto tributario e che in quanto tale sia qualificabile come credito futuro, o che derivi da rapporti tra cedente e ceduto anche soltanto eventuali al momento della cessione.

Facendo applicazione dei principi suddetti al caso di specie, le S.U.  chiariscono che, quando è stato ceduto, il credito Ires non si poteva dire certo, perché erano in corso le attività di liquidazione dalle quali sarebbe scaturito.

Tuttavia, il credito è divenuto certo e attuale al termine di quelle operazioni, che hanno individuato la materia imponibile.

Ciò è avvenuto durante la pendenza della procedura di liquidazione coatta amministrativa: a norma dell’articolo 213 della Legge Fallimentare, in tema di “Chiusura della liquidazione”, la procedura è destinata a cessare, e a comportare la cancellazione della società che vi è stata sottoposta, soltanto in esito all’approvazione del bilancio finale di liquidazione, del conto di gestione e dell’ultimo riparto ai creditori, che postulano, tutti, appunto la chiusura delle operazioni di liquidazione.

Essendo in presenza di un credito tributario, con quanto sopra occorre coordinare le peculiari disposizioni in tema di contabilità generale dello Stato.

In particolare, a norma dell’art.69 del R.D. n° 2440/1923 “Le cessioni, le delegazioni, le costituzioni di pegno e gli atti di revoca, rinuncia o modificazione di vincoli devono risultare da atto pubblico o da scrittura privata, autenticata da notaio”.

A tanto si aggiungono le prescrizioni dell’articolo 70 del R.D, n° 2440/1923, il cui comma 1 stabilisce che “Gli atti considerati nel precedente articolo 69, debbono indicare il titolo e l’oggetto del credito verso lo Stato, che si intende colpire, cedere o delegare”.

Come pure le prescrizioni dell’articolo 43-biscomma 1, a norma del quale “Le disposizioni degli articoli 69 e 70 del R.D. n° 2440/1923 si applicano anche alle cessioni dei crediti chiesti a rimborso nella dichiarazione dei redditi”.

E, infine, occorre tenere in considerazione quanto disposto dall’articolo 1comma 4, del Decreto ministeriale 30 settembre 1997 n° 384, secondo cui “Per essere efficace, l’atto di cessione è notificato all’ufficio delle entrate o al centro di servizio presso il quale è stata presentata la dichiarazione dei redditi del cedente, nonché al concessionario del servizio di riscossione competente in ragione del domicilio fiscale del cedente alla data di cessione del credito”.

Dopo aver richiamato queste disposizioni, le S.U. fanno notare che i requisiti formali richiesti non incidono sulla validità del contratto di cessione e sul conseguente rapporto sostanziale tra cedente e cessionario, perché il legislatore non dispone che l’atto sia fatto in un determinato modo, ma che la cessione, quando riguardi crediti della pubblica amministrazione, “risulti” da atti muniti di una forma determinata. La cessione realizzata in forma diversa, quindi, sebbene valida fra cedente e cessionario, è inefficace nei confronti del fisco, fatta salva l’accettazione.

Da ciò deriva, secondo gli Ermellini, che a fronte di una cessione priva dei requisiti formali prescritti, la successiva stipulazione di un atto che, invece, li osservi si traduce in una riproduzione contrattuale, che consente al cessionario di far valere il credito nei confronti del fisco.

La riproduzione, dopo la chiusura del fallimento o la cessazione della procedura di liquidazione coatta amministrativa, della cessione stipulata quando la procedura pendeva si atteggia come mero adempimento materiale; e si tratta di un adempimento dovuto, perché per effetto della cessione il credito non fa più parte della sfera giuridica del cedente. Sicché non è necessario evocare l’ultrattività dei poteri del commissario liquidatore, in quanto l’adempimento in questione è conseguenziale alla dichiarazione che il commissario deve fare per legge dopo la cessazione della procedura e che espone il credito già oggetto dell’atto di disposizione.

Da tutto quanto sopra riportato, le S.U. fanno derivare il rigetto del ricorso proposta dall’Agenzia delle Entrate e l’enunciazione del seguente principio di diritto: “In tema di circolazione dei crediti delle procedure concorsuali, posto che il credito Ires da eccedenza d’imposta versata a titolo di ritenuta d’acconto nasce in esito e per l’effetto del compimento delle attività di liquidazione, di modo che la dichiarazione concernente il maxi-periodo concorsuale comporta soltanto la rilevazione di un credito già sorto, valida ed efficace tra cedente e cessionario è la cessione di quel credito operata dal commissario liquidatore di una società sottoposta a liquidazione coatta amministrativa antecedentemente alla cessazione della procedura, benché non rispondente ai requisiti formali stabiliti dal regolamento sulla contabilità generale dello Stato; laddove il contratto stipulato dopo la cessazione della procedura, che risponda a quei requisiti, si traduce in una riproduzione contrattuale, la quale costituisce un adempimento dovuto, funzionale a consentire al cessionario di far valere nei confronti del fisco il credito che gli è stato ceduto”.


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