Liquidazione delle spese e iter motivazionale del giudice
Non è ancora dato sapere come l’ordinanza a breve in commento (Cass. civ., sezione I, 12 Gennaio 2018, n. 657) verrà accolta dai professionisti del settore, ma è bene chiarire che in essa non sembrano esserci elementi di significativa innovatività, riscontrandosi per il vero percorsi interpretativi già battuti dalla giurisprudenza (non solo di legittimità) e argomentazioni logico-giuridiche, oltre che sostanziali, prudentemente validabili.
In sintesi, l’ordinanza ripropone una acclarata conclusione: al giudice spetta di indicare specificamente le voci della parcella non provate (invero, un più incisivo impegno dottrinale aveva specificamente riguardato la liquidazione del CTU. Ne ricostruisce i passaggi salienti E Secchi, La CTU nel processo civile. Percorsi giurisprudenziali, Milano, 2011, pp. 68-69). È perciò da respingere, nel caso de quo, il reclamo avverso provvedimento di liquidazione in misura inferiore alla presentata richiesta di compenso per l’attività professionale svolta (per cui poscia il professionista adiva la Suprema Corte).
Decisioni consimili, anche presso altre sezioni (tra le buone ultime, Cass. civ., sezione VI, 11 Dicembre 2017, n. 29594), vanno nel senso di vincolare giudice e avvocato a una reciproca lealtà che non ha da essere intesa come unità di misura dei loro rapporti, quanto e ancor più quale ragione di integrità sistematica.
Il professionista ha l’obbligo di provare la voce per cui intende ottenere la liquidazione; il giudice ha parimenti obbligo di motivare, in modo non meno analitico, i compensi che ritiene dover essere esclusi (alcuni profili deontologici, di generalissima portata, in U. Perfetti, Deontologia dell’avvocato, ordinamento forense, amministrazione della giustizia, Torino, 2013, pp. 81 e ss.).
Pare che un argomentare siffatto sia duplicemente necessitato all’attività del giudice, perché la sua potestà decisionale può alternativamente ridurre le voci che sono ritenute eccessive o eliminare quelle non dovute: nell’un caso, devono chiaramente risultare le ragioni per cui la voce è stata ridimensionata; nell’altro, al giudice spetta di argomentare esaustivamente e pertinentemente sul perché la spesa sia da ritenersi non dovuta.
Si è acutamente osservato che questi consolidati temperamenti giurisprudenziali rispondono innanzitutto a una applicazione inappropriata del disposto di cui all’art. 91, I comma, del Codice della procedura civile (benché prima delle intervenute modifiche alle quali si farà a breve riferimento, v. L. D’Apollo, La responsabilità aggravata, in Id, a cura di, Le spese processuali, Milano, 2011, p. 27): se la previsione legislativa risente della sindrome arlecchinesca per cui ora si attua a maglie troppo larghe, ora a maglie troppo strette, il rigoroso bilanciamento della giurisdizione apicale perimetra ciò che altrimenti sarebbe stato ancora esposto a margini sin troppo opinabili.
Sembra, anzi, più incisivo che questo tentativo di razionalizzazione sistematica possa provenire dalla giurisprudenza, più che dalla legislazione generale, la quale, anche quanto alle tecniche redazionali, resta non sempre felice e risente di un complessivo detrimento della politica del diritto (in materia, non brilla per chiarezza, ancorché condivisibile nell’impianto, il comma 487 dell’art.1 della legge 27 Dicembre 2017, n. 205).
La statuizione normativa ha inteso limitare la discrezionalità del giudice vincolando il provvedimento di liquidazione ai parametri indicati dal regolamento del Ministro della giustizia, onde oggettivare l’apprezzabilità patrimoniale della prestazione professionale. È soprattutto la prassi applicativa, però, a necessitare di un provvedimento di liquidazione ponderato in cui l’ammontare non abbia toni e contenuti né forfettari né largheggianti, ma sia tangibile conclusione di un iter motivazionale di dettaglio.
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Domenico Bilotti
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