L’istituto della diseredazione alla luce dell’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale
Quella di diseredazione è una clausola contenuta all’interno di un testamento attraverso la quale il testatore esclude eredi dalla propria successione.
La facoltà di diseredare, che era pacificamente riconosciuta nel diritto romano, non è espressamente disciplinata nel nostro Codice Civile, che non riconosce apertamente al testatore la possibilità di escludere dalla successione i propri eredi necessari (o alcuni di essi), ponendo in essere, in tal modo, una sanzione civile privata.
Non esistendo una espressa previsione normativa che la riconosca, la possibilità di ammetterla o meno è rimessa all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
A tal fine occorre distinguere la posizione dei legittimari, vale a dire il coniuge, i figli e gli ascendenti (art. 536 c.c.), da quella dei non legittimari.
La possibilità di diseredare i primi è esclusa, poiché la si ritiene totalmente preclusa dall’art. 549 c.c. La dottrina, infatti, assimila la clausola di diseredazione ad un peso sulla quota di legittima e, pertanto, fa ricadere questa disposizione nel divieto di pesi e condizioni di cui al 549 c.c., disposizione che è posta a salvaguardia dell’intangibilità della legittima e che, in quanto posta a tutela dei legittimari, esprime un divieto di rilievo pubblicistico.
Se per i legittimari nessun dubbio sussiste circa la inammissibilità di tale clausola, maggiori difficoltà si pongono rispetto ai non legittimari. In particolare dottrina e giurisprudenza si sono domandati se sia possibile considerare la volontà di escludere dalla propria successione come una volontà “dispositiva” ai sensi dell’art. 587 c.c. .
Parte della dottrina ammetteva una clausola di questo tipo, riconducendola al principio di autonomia testamentaria[1], in virtù del quale sarebbe possibile formulare non solo disposizioni attributive, ma anche disposizioni negative.
La giurisprudenza, invece, in un primo momento, tendeva ad escludere categoricamente questa possibilità[2], ritenendola in aperto contrasto con l’art. 587 c.c., ai sensi del quale il testamento è il negozio tramite il quale si “dispone”, ed una volontà negativa non può essere considerata dispositiva.
In seguito la Cassazione si è aperta ad un orientamento più permissivo, ammettendo la clausola diseredativa ma solo ove essa contenesse un’istituzione implicita a favore di un altro soggetto[3].
Un punto di svolta nella disputa in parola si è avuto nel 2012, con la sentenza n. 8352. Con questa pronuncia la Cassazione ha mutato orientamento ed ha affermato che “È valida la clausola del testamento con la quale il testatore manifesti la propria volontà di escludere dalla propria successione alcuni dei successibili”. Con questa sentenza quindi la Suprema Corte è arrivata ad ammettere la possibilità di diseredare, purché essa non sia riferita ai legittimari.
Occorre però sottolineare che, sebbene la giurisprudenza abbia escluso la possibilità di diseredare un legittimario, al testatore è comunque riconosciuta la possibilità di provare ad escludere un legittimario dalla propria successione. Il de cuius infatti potrebbe istituire eredi soltanto altri soggetti e prevedere, laddove questi non potessero o non volessero accettare, una serie di sostituzioni c.d. a catena. In questo modo otterrebbe un effetto analogo a quello della diseredazione, poiché escluderebbe i legittimari (o alcuni di essi) dalla propria successione, con una disposizione che, sebbene riducibile, è da considerare assolutamente valida.
[1] In questo senso, fra gli altri, A. Trabucchi in L’autonomia testamentaria e le disposizioni negative, in Riv. Dir. Civ.,1970
[2] cfr. Cass. n. 1458/1967; Cass. n. 5895/1994.
[3] cfr. Cass. n. 6339/1982; Cass. n. 5895/1994; in dottrina G. Capozzi, Successioni e donazioni.
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