Litiga con la moglie e fugge dai domiciliari. Per la Cassazione non è evasione.
Cass. Pen., sez. VI, 4 novembre 2015, n. 44595
a cura di Eleonora Contu
Con la sentenza n. 44595/15 pubblicata lo scorso 4 novembre, la S.C. ha stabilito che non integra il delitto di evasione ex art. 385 c.p., la condotta di colui che, trovandosi presso la propria abitazione in stato di detenzione domiciliare, se ne allontani, in seguito ad una lite familiare essendo la fattispecie preceduta da una sollecitazione telefonica ai Carabinieri per una traduzione in carcere.
La sentenza della Corte di Cassazione sez. VI penale n. 44595/15 ha stabilito che non si configura il reato di evasione ex art. 385 c.p. qualora l’imputato, stanco dei litigi con la moglie, si allontani senza autorizzazione dal domicilio coatto (e condiviso con la compagna) ove si trova agli arresti, qualora comunichi l’imminente allontanamento dall’utenza del 113 manifestando altresì ai Carabinieri la maturata decisione di volersi sottoporre ad un regime cautelare più rigoroso come quello della detenzione in carcere.
Con la sentenza n. 236/15 la Corte d’Appello di Messina, confermando la sentenza di primo grado, aveva condannato l’imputato alla pena di quattro mesi di reclusione per il reato di evasione dagli arresti domiciliari. La Corte territoriale, a sostegno delle proprie ragioni, rilevava che il motivo dell’allontanamento dell’imputato dal domicilio coatto, consistito in un litigio con la moglie, “non incide sull’ elemento soggettivo del reato di evasione, potendo essere valorizzato unicamente ai fini di determinazione della pena” come poi avvenuto.
Invero, l’elemento soggettivo del reato di evasione, di cui all’art. 385 c.p., si concreta nel dolo generico che consiste nella consapevole violazione del divieto di lasciare il luogo di esecuzione della misura cautelare senza la prescritta autorizzazione (a nulla rilevando i motivi che determinano la condotta dell’agente) combinata con la consapevolezza di trovarsi legalmente arrestato (Trib. Catanzaro, sez. I penale, ordinanza del 28.10.08; Trib. Monza n. 3585/03; Cass. pen. n. 32668/10; Cass. pen. N. 25583/13; Trib. Napoli Nord n. 812/15; Cass. sez. VI penale, n. 6693/15).
Tuttavia alcuni autori [1] hanno prospettato “l’introduzione di un requisito psicologico della condotta di allontanamento, ritenendo che l’agente deve consapevolmente voler riacquistare la libertà non essendo sufficiente ad integrare il reato la semplice violazione della sfera del proprio domicilio”.
Ed infine, il reato si perfeziona soltanto in seguito alla completa sottrazione dell’agente al controllo dell’autorità di sorveglianza.
Avverso tale sentenza, l’imputato proponeva ricorso deducendo l’insussistenza del reato, essendosi la condotta concretizzata nell’aver comunicato telefonicamente ai Carabinieri l’intenzione di volersi allontanare dalla propria abitazione, dove si trovava agli arresti domiciliari, a causa di un litigio con la moglie.
La S.C. ha ritenuto corrette le motivazioni della Corte territoriale laddove quest’ultima osserva che la ratio su cui si basa l’impianto normativo dell’art. 385 c.p. consista nell’interesse al mantenimento della forma di restrizione della libertà personale legittimamente disposta (in questo caso, misura detentiva domiciliare) poiché idonea a soddisfare sia le esigenze cautelari di cui all’ art. 274 c.c.p., sia le esigenze relative al controllo dell’agente da parte delle autorità di polizia giudiziaria. Tuttavia, considerando la condotta dell’imputato nel suo insieme, la Cassazione evidenzia l’assenza di offensività concreta della stessa (Corte Cost. n. 225/08). Difatti secondo l’art. 49 c.p. che al secondo comma prevede la figura del c.d. reato impossibile “la punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”. Questa norma è decisamente importante poiché ha permesso di enucleare il principio di offensività che rientra tra i principi generali del diritto penale ed è facilmente riassumibile nel brocardo latino nullum crimen sine injuria [2]. Tale principio trova fondamento nel presupposto che non possa esservi reato in assenza di una concreta lesione del bene giuridico che la norma tende a tutelare con la conseguenza che il fatto materiale deve poter essere idoneo a ledere o porre in pericolo il bene protetto. Nel caso in esame, la condotta dell’agente non ha mai in concreto impedito all’autorità di P.G. di effettuare i dovuti controlli. Infatti l’imputato non solo ha comunicato preventivamente ai Carabinieri il proprio allontanamento dal domicilio coatto (nonché i motivi del medesimo) ma è sempre rimasto nelle vicinanze dello stesso. Preme ricordare come già in una precedente sentenza (Cass. VI sez. penale n. 25583/13) la Cassazione rilevava che “non integra il reato di evasione, per carenza dell’elemento soggettivo, la condotta dell’imputato, in stato di arresto presso la propria abitazione, che esce dalla casa, dove si era creata una situazione per lui insostenibile di convivenza con i familiari, per recarsi dai Carabinieri”. Alla luce anche dei precedenti giurisprudenziali, la S.C. ha concluso che non possa ritenersi leso l’interesse specifico tutelato dall’art 385 c.p. e, di conseguenza, che nella fattispecie in esame il reato non possa affatto configurarsi. La Cassazione ha quindi accolto il ricorso dell’imputato ritenendolo fondato ed ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata poiché il fatto non sussiste.
[1] GAROFOLI, manuale di diritto penale, parte speciale I, Percorsi Giuffrè, II edizione, Milano, 2006, p. 341.
[2] MOCCIA e PENSA, il principio di offensività tra contrasti interpretativi e progetti di riforma, in www.altalex.com.
Eleonora Contu
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