Lo ius osculi ed il diritto al bacio
Abstract. L’analisi, anche comparativa, tra il concetto di ius osculi dell’antica Roma ed il “diritto al bacio”, in senso moderno, rivela un’interessante convergenza di tematiche, sebbene separati da secoli di evoluzione storica, culturale e giuridica. Questi due fenomeni, distinti, offrono spunti di riflessione sulla natura del diritto e dei costumi sociali nel corso del tempo. Nell’antica Roma, infatti, perdurò a lungo una peculiare norma che imponeva alle donne sposate di concedere baci sulle labbra non solo al marito, ma anche al padre ed ai fratelli, ogni volta che veniva richiesto. Benché questo gesto non avesse alcuna connotazione sessuale, è fondamentale comprendere la ragione per cui fosse necessario regolamentare un atto così intimo e personale, esteso oltre che al solo coniuge, anche ai familiari. Questa pratica era motivata da una precisa finalità, che risiedeva nell’assertività del ruolo patriarcale e nella coesione familiare. La norma del bacio tra parenti femminili e maschi rientrava in un contesto sociale e familiare in cui l’autorità ed il controllo maschile erano prevalenti.
Sommario: 1. Ius osculi: contesto storico e significato ‒ 2. Il diritto al bacio in senso moderno ‒ 3. Riflessioni conclusive
1. Ius osculi: contesto storico e significato
Prima di analizzare il concetto di “ius osculi” è necessario, quanto indispensabile, per un’agevole comprensione, premettere quanto segue. Il termine “osculum” è il diminutivo di “os, oris”, che significa “bocca”. Quindi, “osculum” può essere tradotto letteralmente come “piccola bocca”, il che è un modo “poetico” per riferirsi al bacio, che si dà, infatti, con la bocca. Esso si distingue dal “basium”, altro termine latino per “bacio”, che poteva avere una connotazione più romantica o passionale.
L’“osculum” era legato alle manifestazioni di affetto tra familiari, parenti, dove l’eros era escluso, ma il contatto fisico era una componente naturale della relazione. Come molti termini latini, “osculum” ha influenzato le lingue derivate dal latino. A tal riguardo, in italiano “osculare” è un verbo arcaico che significa proprio “baciare”.
In molte culture antiche, inclusa quella romana, i baci avevano diverse connotazioni sociali e rituali. Nel caso dello ius osculi, esso era un diritto particolarmente diffuso, riconosciuto come una prerogativa maschile (parentela sino al sesto grado), generalmente esercitata dal padre, fratello o marito, di baciare una propria parente donna. Lo ius osculi fra parenti era intrinsecamente legato alla moralità ed alla reputazione delle donne. Questo è dimostrato dal fatto che il bacio era negato alle donne con una reputazione discutibile, come spiegava, eloquentemente, Cicerone, nel De rep. 4, 6, 6.
La fama della donna influenzava direttamente il comportamento dei suoi parenti maschi: se la sua reputazione era compromessa, i parenti non avrebbero concesso il bacio. Ogni mattina, durante l’incontro con i parenti maschi, si svolgeva implicitamente un “tribunale familiare” dove il bacio diventava un’occasione per emettere un verdetto sulla reputazione e l’onore della donna. Questo atto era finalizzato anche al controllo della presenza od al consumo di sostanze vietate (i.e. l’assunzione di vino) sulla persona della donna, che potessero comprometterne la sua castità e purezza.
La menzione del vino, nel suddetto contesto, è alquanto rilevante. La testimonianza più antica che ci è pervenuta su questo argomento è un frammento degli “Annales” di Fabio Pittore[1]. Secondo questo resoconto, una matrona romana, la quale aveva aperto le casse contenenti le chiavi della cantina del vino, fu condannata dalla sua famiglia a morire di inedia.
L’inedia, ovvero l’assenza di cibo, indica una forma estrema di digiuno volontario che porta alla privazione totale di alimenti. Nell’antica Roma, questo era considerato un atto estremamente grave e spesso veniva utilizzato come forma di punizione o di auto-punizione. La condanna a morire di inedia, come nel caso della matrona menzionata, rappresentava una punizione severa inflitta dalla famiglia per il presunto atto di aprire la cantina del vino senza consenso. Questo episodio evidenzia la rigidità delle norme sociali e culturali riguardanti il consumo di alcolici da parte delle donne romane, nonché le conseguenze severe che potevano derivare dalla trasgressione di tali norme. È bene, però, dire che anche Polibio[2] ricorda tale divieto, aggiungendo che le donne potevano bere il c.d. passum, ossia una bevanda alcolica molto diffusa nell’antica Roma e particolarmente apprezzata per il suo sapore dolce, simile al moderno vino liquoroso o al vino da dessert. Il passum veniva ottenuto dalla fermentazione del mosto d’uva cotto, spesso con l’aggiunta di spezie ed erbe aromatiche. Questa bevanda era popolare sia per il suo gusto che per le sue proprietà, ed era consumata in varie occasioni, inclusi i banchetti e le celebrazioni religiose. Tuttavia, il passum era spesso associato alle donne ed alle pratiche religiose femminili, ed era considerato più adatto al consumo femminile rispetto al vino normale.
Inoltre, un frammento dell’orazione sulla dote di Catone[3] evidenzia un aspetto del diritto romano riguardante il ruolo del giudice nel caso di ripudio della moglie da parte del marito. Nel contesto romano, il censore era una figura pubblica incaricata di supervisionare il comportamento morale e civico dei cittadini; aveva il potere di escludere i cittadini dalla lista dei senatori o di revocare privilegi speciali in base al loro comportamento. Nel caso del ripudio della moglie, il giudice assumeva un ruolo simile a quello del censore, in quanto doveva valutare il comportamento della donna e decidere se concederle o meno la restituzione della dote. La “retentio propter mores” era una disposizione legale che consentiva al giudice di trattenere la dote se la donna era stata trovata colpevole di comportamenti considerati contrari alla moralità o alla buona condotta. Questo includeva il consumo del vino, poiché nell’antica Roma esso era associato a comportamenti considerati impropri per le donne, come la perdita di autocontrollo o la promiscuità. Sul punto, è importante ricordare la vicenda di Egnatius Metennius, riportata da Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia” (14.89) e da Valerio Massimo (6.3.9); quest’ultimo, in particolare, sostenne che «[Egnatius Mecennius] uccise sua moglie, colpendola con un bastone, perché aveva bevuto vino e questo atto non solo non ebbe alcun accusatore, ma neppure alcun critico, poiché tutti ritennero che ella avesse pagato la pena per aver violato la sobrietà con un esempio eccellente (la morte)».
Secondo le fonti, pertanto, l’azione di Metennius non fu solo priva di accuse formali, ma anche di qualsiasi critica. In altre parole, nessuno trovò da ridire sul fatto che l’uomo avesse punito severamente la donna per aver bevuto vino, indicando che l’azione era accettata e, forse, anche approvata socialmente. Ciò accadeva in virtù dell’antica lex Romuli, secondo la quale era interdetto alla donna il consumo di vino, pena la sua uccisione (poena capitis). Dionigi di Alicarnasso afferma che, nel caso di colpe commesse dalla moglie, il marito offeso agiva come giudice e decideva l’entità della punizione, benché assistito nel giudizio dai parenti. Le colpe giudicate erano l’adulterio ed il bere vino, e Romolo permise che entrambe fossero punite con la morte. Egli considerava, queste, le colpe femminili più gravi, ritenendo che l’adulterio fosse causa di follia e che l’ubriachezza conducesse all’adulterio (riferimento: Dion. Hal. Ant. Rom. 2.25.6).
Tra il II e il III secolo d.C., il divieto di consumare vino per le donne viene ricordato sia da Ateneo, autore greco del II-III secolo d.C., noto per la sua opera “Deipnosophistae” (i dotti a banchetto), che da Eliano, autore romano del II-III secolo d.C., noto per la sua opera “Varia Historia” (Storia varia). Entrambi gli autori, con parole quasi identiche, sottolineano che il vino è proibito alle donne, sia libere che schiave (Ateneo si riferisce genericamente agli schiavi) ed ai giovani ingenui (cioè cittadini liberi non ancora maturi) al di sotto dei trenta o trentacinque anni.
Ateneo di Naucrati (Deipnosophistae 10.33 [429b]): «παρὰ δὲ Ῥωμαίοις οὔτε οἰκέτης οἶνον ἔπινεν οὔτε γυνὴ ἐλεύθερα οὔτε τῶν ἐλευθέρων οἱ ἔφηβοι μέχρι τριάκοντα ἐτῶν».
Trad.: «tra i Romani, né uno schiavo beveva vino, né una donna libera, né i giovani liberi fino a trent’anni».
Claudio Eliano (Varia Historia 2.38): «οὐκοῦν καὶ Ῥωμαίοις ἦν ἐν τοῖς μάλιστα ὁ νόμος ὁ ἐρρωμενῶς· οὔτε ἐλεύθερα γυνὴ ἔπινεν οἶνον οὔτε οἰκέτης, οὔτε μὴν τῶν εὐγενομένων οἱ ἐφ’ ἥβης μέχρι πέντε καὶ τριάκοντα ἐτῶν».
Trad.: «e quindi tra i Romani vigeva principalmente la legge più rigorosa: né una donna libera beveva vino, né uno schiavo, né i giovani nobili fino ai trentacinque anni».
Ci troviamo di fronte ad un modello comportamentale che eleva il gesto del bacio, da parte dei consanguinei maschi della donna, ad uno status di ius, ossia di “diritto”, il che implica un giudizio implicito sulla moralità e sulla reputazione della stessa. In quanto tale, lo ius osculi sottolinea il ruolo dei parenti maschi nell’esercitare un controllo sul comportamento delle donne all’interno della famiglia. Tale ius ‒ come ben osserva Guarino[4] ‒ implicava non solo il diritto degli uomini di baciare le loro parenti femmine, ma anche un corrispondente dovere delle donne stesse di accettare e corrispondere questo bacio. La pratica di verificare “la sobrietà” delle donne attraverso un bacio rappresentava una forma, potremmo dire, di sorveglianza ed un giudizio costante sulle loro azioni. Basti pensare a Valerio Massimo, secondo cui «ogni donna eccessivamente avida di vino chiude la porta alla virtù e la apre al vizio». Difatti, questa visione riflette le norme ed i valori morali dell’antica Roma riguardo al comportamento femminile ed al consumo di alcol. Valerio Massimo, storico e scrittore del I secolo a.C., nel suo lavoro “Factorum et dictorum memorabilium libri IX” (nove libri di fatti e detti memorabili), raccoglie aneddoti e storie che evidenziano esempi di virtù e vizi umani, spesso utilizzati come modelli di comportamento per la società romana. La sua citazione riflette la credenza secondo la quale il vino corrompa le donne, allontanandole dalle virtù tradizionalmente attribuite alla femminilità, come la modestia, la castità e la sobrietà. L’associazione tra consumo di alcol ed il comportamento immorale sottolinea l’importanza della disciplina e del controllo, sia personale che sociale. Invero, il controllo sul consumo di vino da parte delle donne era un aspetto del più ampio sistema patriarcale romano, in cui gli uomini esercitavano una auctoritas significativa sulle donne honestae. Questo “controllo” era giustificato con l’idea di proteggere l’onore familiare e mantenere l’ordine sociale. Si potrebbe pensare che Valerio Massimo utilizzasse l’immagine del vino per rappresentare il confine tra virtù e vizio. Questa visione rinforza l’idea che la moralità femminile fosse fragile e facilmente compromessa da tentazioni esterne.
Lo ius osculi può essere considerato come un precursore dell’alcoltest moderno, sebbene la sua applicazione e le conseguenze fossero molto diverse. La ragione dietro queste severe punizioni risiedeva nella percezione romana della donna come soggetto moralmente e fisicamente inferiore, ossia infirmitas sexus, incapace di controllare i propri desideri e di dominare i propri impulsi.
2. Il diritto al bacio in senso moderno
Una norma come quella che imponeva alle donne sposate di concedere baci sulle labbra ai membri maschili della famiglia, ai giorni d’oggi può sembrare singolare, ma nel contesto romano il vino era strettamente associato all’adulterio ed all’immoralità femminile. La convinzione era che l’eccitazione e l’irresponsabilità indotte dall’alcol potessero spingere le donne a comportamenti indecorosi. Uno ius osculi moderno sarebbe difficile da immaginare nelle stesse forme e con gli stessi significati dell’antica Roma. Esso, oggi, sarebbe considerato una violazione dei diritti individuali e della dignità personale. Tuttavia, considerando l’evoluzione delle norme sociali, giuridiche e culturali, esso potrebbe essere concepito come un concetto moderno in cui sono da tutelare il rispetto dei confini personali ed il consenso reciproco al contatto fisico, ivi compreso il bacio.
La questione del bacio e della sua qualificazione come reato è stata oggetto di diverse sentenze e pronunciamenti da parte della Suprema Corte di Cassazione italiana. La definizione degli “atti sessuali” ha visto un’evoluzione significativa attraverso numerosi interventi della Corte di Cassazione, pertanto la definizione del bacio, come parte di tali atti, ha generato una letteratura dedicata, meritevole di particolare attenzione. Questo perché l’interpretazione del bacio non può essere limitata ad una semplice analisi anatomica, ma deve necessariamente considerare il contesto socio-culturale e ambientale in cui esso avviene.
Nell’analisi giuridica della “rilevanza penale del bacio”, è fondamentale considerare gli usi, i costumi e l’insieme del bagaglio storico e culturale di un popolo in un determinato periodo. Questo approccio riconosce che il significato e l’accettabilità del bacio possono variare enormemente a seconda delle norme sociali e culturali prevalenti. Per accertare la condotta illecita relativa al bacio, è necessario esaminare tutte le modalità attraverso le quali tale comportamento si manifesta nel contesto specifico. Il reato di violenza sessuale, come disciplinato dall’art. 609-bis del Codice Penale, è configurato come un reato di danno.
Secondo la normativa, ai sensi del primo comma dell’art. 609bis c.p. «chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da 6 a 12 anni». Prima dell’introduzione della legge attuale, il Codice Penale del 1930 disciplinava separatamente i delitti di “congiunzione carnale” (art. 519 c.p.) e di “atti di libidine violenti” (art. 521 c.p.). Queste distinzioni classificavano in modo differente le varie forme di aggressione sessuale. Con la riforma legislativa, è stata introdotta la nuova locuzione di “atti sessuali”, che ha unificato le precedenti fattispecie in un’unica categoria. Questo cambiamento ha eliminato le distinzioni tra “congiunzione carnale” e “atti di libidine violenti”, comprendendo sotto il termine “atti sessuali” qualsiasi comportamento di natura sessuale. La nozione di “atto sessuale” abbraccia un significato ampio e comprende non solo le azioni che coinvolgono direttamente la sfera genitale, ma anche tutte le altre azioni che possono compromettere la libera determinazione del soggetto passivo nella sfera sessuale. Questo concetto si estende quindi anche a quelle azioni che coinvolgono parti del corpo considerate erogene secondo la conoscenza scientifica, psicologica ed antropologico-sociologica. Ciò, lo chiarisce la sentenza della Cassazione n. 23869 del 2002. In conformità con la concezione oggettiva della nozione di “atti sessuali”, l’elemento soggettivo o psicologico, rappresentato dal dolo, si configura come generico, a prescindere dal consenso della persona offesa.
Inoltre, riguardo all’espressione “reati sessuali”, però, sorge una critica in relazione alla sua, per così dire, genericità, poiché comprende una vasta gamma di comportamenti che possono presentare notevoli differenze anche dal punto di vista ontologico. Questa genericità provoca incertezze linguistiche che conducono, ancora oggi, a difficoltà interpretative, specialmente nei “casi limite”, come nel caso del “bacio non consensuale”. Per affrontare queste incertezze, la Suprema Corte è spesso chiamata ad intervenire. Il suo ruolo è fondamentale nel fornire chiarimenti che possano rendere omogenee le diverse interpretazioni, stabilizzando così la giurisprudenza. In particolare si fa menzione:
– Sentenza Cass. Pen. Sez. III, 11 dicembre 2000, n. 45913. In questa sentenza, la Corte ha stabilito che il bacio può essere considerato reato di violenza sessuale, ai sensi dell’art. 609-bis del Codice Penale, qualora avvenga senza il consenso della persona baciata e sia idoneo a ledere la libertà sessuale della stessa. La Corte ha sottolineato che la violenza sessuale comprende non solo gli atti di congiunzione carnale, ma anche altri atti che violano la libertà sessuale.
– La valutazione della penale rilevanza del bacio in relazione al reato di violenza sessuale è stata oggetto di approfondimento da parte della Cassazione. Con la pronuncia n° 12425/2007, la Corte ha stabilito che anche il semplice sfioramento con le labbra sul viso altrui al fine di dare un bacio può essere considerato un atto suscettibile di integrare il delitto di violenza sessuale, purché tale gesto, per la sua rapidità ed insidiosità, superi la contraria volontà del soggetto passivo. La sentenza chiarisce, inoltre, che non è possibile distinguere, ai fini penali, tra baci caratterizzati solo dal contatto delle labbra e quelli che coinvolgono anche la lingua. Entrambe le tipologie di baci possono ledere la libertà e l’integrità sessuale del soggetto passivo, a meno che non si verifichino in contesti non erotici che escludono la connotazione sessuale del gesto. È importante sottolineare che il bacio sulla bocca può assumere rilevanza di violenza sessuale se viene dato senza il consenso o con abuso della posizione di inferiorità del soggetto passivo. Inoltre, se il bacio è rivolto a soggetti infraquattordicenni o a soggetti infrasedicenni, legati da un rapporto di subordinazione con il soggetto agente, si può configurare il reato di atti sessuali con minorenne, come stabilito dalla sentenza n. 25112/2007 della Cassazione.
– La recente sentenza n. 22696 del 2023 della Cassazione ribadisce quanto già stabilito in precedenti pronunce, confermando la rilevanza penale del bacio quando questo non è consensuale. La sentenza richiama altre decisioni in materia, come la n. 43423 del 2019 e la n. 549 del 2005, che consolidano l’orientamento giurisprudenziale sul tema della violenza sessuale e del bacio non voluto.
3. Riflessioni conclusive
Nella società contemporanea, un concetto simile allo ius osculi potrebbe essere difficile da immaginare, poiché le norme sociali e giuridiche riguardanti il consumo di alcol ed il comportamento delle donne sono drasticamente diverse rispetto a quelle dell’antica Roma. Nondimeno, se dovessimo adattare concetti simili ai nostri tempi, potremmo considerare, invece di un “diritto al bacio” che implichi un controllo sulla sobrietà delle donne, un “diritto alla privacy” ed al rispetto dei confini personali. Questo potrebbe sottolineare l’importanza del consenso reciproco nelle interazioni fisiche e la necessità di rispettare le preferenze e le scelte individuali riguardo all’intimità ed al contatto fisico. Nella nostra società contemporanea, c’è un’ampia attenzione al concetto di “cultura del consenso”. Questo significa che le interazioni fisiche e sessuali devono essere basate sul consenso esplicito e volontario di tutte le parti coinvolte. Ciò include anche il contatto fisico come il bacio. L’idea è che il consenso debba essere chiaro, positivo e continuo, e che nessuno debba sentirsi obbligato a fare qualcosa contro la propria volontà. Pertanto, mentre il concetto di ius osculi non ha un equivalente diretto nella società contemporanea, esplorare analogie e contrasti può aiutarci a comprendere meglio le dinamiche di controllo sociale, consenso ed autonomia personale sia nell’antichità romana che nel mondo moderno.
Si nota, dunque, che di base, lo ius osculi, rifletteva una pratica sociale intrinsecamente connessa alla preservazione dell’onore e della virtù femminile nell’ambito della cultura romana. Questo fenomeno non deve essere considerato isolato, ma piuttosto inserito nel contesto più ampio delle norme sociali e culturali dell’antica Roma. La sua pratica si inserisce nel quadro delle relazioni familiari e dei ruoli di genere rigidamente definiti, in cui il controllo sulla sessualità e la moralità femminile era una questione di primaria importanza per il mantenimento dell’ordine sociale e della reputazione familiare.
Bibliografia
GUARINO A., Il «ius osculi» e Romolo, in ANA, XXXIV, 1985, 71, ora in Pagine di diritto romano, IV, Napoli, 1994.
Principali fonti romanistico-letterarie citate
Ateneo di Naucrati (Deipnosophistae 10.33 [429b]);
Cat. dot. fr. 221-222 Malcovati, riportata da Aulo Gellio 10.23.4-5.;
Cicerone, nel De rep. 4, 6, 6.;
Claudio Eliano (Varia Historia 2.38);
Dion. Hal. Ant. Rom. 2.25.6.;
Fab. Pict., Fragmenta Historicorum 1 F 25;
Lex Romuli;
Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia” (14.89);
Polyb. 6.11a.4, Athen. deipn. 10.56 (440e);
Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri IX (6.3.9).
[1] Fab. Pict., Fragmenta Historicorum 1 F 25. Il passaggio è riportato da Plinio il Vecchio nella sua opera “Naturalis Historia” (14.89): «Fabius Pictor in annalibus suis scripsit matronam, quod loculos in quibus erant claves cellae vinariae resignavisset, a suis inedia mori coactam». Trad.: «Fabio Pittore nei suoi annali scrisse che una matrona, poiché aveva aperto i lucchetti nei quali erano le chiavi della cantina del vino, fu costretta dalla sua famiglia a morire di inedia».
[2] Polyb. 6.11a.4, Athen. deipn. 10.56 (440e). Questo si riferisce ad un passaggio nell’opera “Deipnosophistae” (Letteralmente: “gli uomini che cenano insieme”) di Ateneo, un antico autore greco: «Secondo Polibio, nella sua storia, agli abitanti di Roma è vietato alle donne di bere vino, ma bevono una bevanda chiamata passum».
[3] Cat. dot. fr. 221-222 Malcovati, riportata da Aulo Gellio 10.23.4-5: «vir cum divortium fecit, mulieri iudex pro censore est, imperium, quod videtur, habet, si quid perverse taetreque factum est a muliere; multatur, si vinum bibit, si cum alieno viro probri quid fecit, condemnatur». Trad.: «quando un uomo compie un divorzio, il giudice si sostituisce al censore per quanto riguarda la donna; ha il potere, come sembra, di punirla se ha fatto qualcosa di riprovevole e osceno; viene punita se beve vino, se commette atti disonorevoli con un altro uomo, viene condannata».
[4] A. GUARINO, Il «ius osculi» e Romolo, in ANA, XXXIV, 1985, 71, ora in Pagine di diritto romano, IV, Napoli, 1994, p. 58.
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