Lo ius poenitendi nelle procedure concorsuali volontarie

Lo ius poenitendi nelle procedure concorsuali volontarie

di Andrea Jonathan Pagano, ricercatore universitario e Francesca Moncini, abilitata all’esercizio della professione forense

Abstract. L’articolo inerisce alla dicotomia giuridica circa la legittimazione del debitore istante ad esperire l’istituto della rinuncia nelle procedure concorsuali volontarie. Il contributo, preliminarmente, cerca di fornire un generale quadro della disciplina civilistica, sostanziale e processuale, dell’istituto della rinuncia, fornendone caratteristiche e limiti. In particolare, l’analisi muove dal generale ius poenitendi riconosciuto, nonché espressamente disciplinato, nell’ambito del concordato preventivo, verificando presupposti, modalità e possibili declinazioni patologiche. Nel prosieguo, l’indagine si sposta nel solco del sovraindebitamento e nelle di questi declinazioni concorsuali operative, segnatamente il piano del consumatore, l’accordo di composizione della crisi ed, infine la liquidazione del patrimonio. Nell’ambito delle procedure minori, invece, alla luce di una generale assenza di una qualsivoglia norma espressa, la Giurisprudenza – scarsa numericamente – interpellata sulla quaestio, ha ritenuto congruo statuire nel senso di una generale irrinunciabilità – in capo al debitore – del piano, in qualsivoglia forma, presentato a mente della L.3/2012, appare opportuno verificare le motivazioni di tali pronunce e se, in astratto, vi siano delle vie teoreticamente diverse e, parimenti, legittime e percorribili.

 

Sommario: 1. Il diritto alla rinuncia nel diritto civile sostanziale e processuale. Brevi cenni – 2. La disciplina del concordato preventivo nella legge fallimentare – 3. L’assenza della rinuncia nell’alveo del sovraindebitamento. Esperienze giurisprudenziali – 4. Conclusioni e critiche

 

1. Come è noto, il codice civile non presenta una sezione a sé stante inerente all’istituto della rinuncia né finanche una norma di rinvio generale che ne identifichi i tratti peculiari. Il legislatore del ’42, difatti, ha ritenuto congruo fornire ai negozi unilaterali norme frammentarie ed affatto unitarie. Tale forma mentis del Legislatore sottende alla precisa scelta di disciplinare formalmente solo alcuni atti giuridici, dandone finanche la nozione, lasciando, invece, alla interpretazione la connotazione di altri. Tale scelta ha generato una configurazione positiva dell’istituto pressoché assente – pur considerando le eccezioni di cui alle disposizioni ex art. 1350 co. 5, 2643 co. 5 e 2659 u.c. maldestramente inserite nel codice civile – talché, finanche nei corsi universitari sia stato complesso operare uno studio omogeneo e sistematico della materia anche, in ragione, della quasi totale assenza di dottrina che si sia adoperata a fornire un quadro organico dell’istituto [1]. Suddetta noncuranza, in verità, non appare assolutamente condivisibile, stante la assoluta rilevante connotazione del negozio di rinuncia che, a parere di chi scrive, si innesta nel quadro delle manifestazioni più pregnanti dell’esercizio del diritto soggettivo.

Volendo elaborare una ricostruzione delle caratteristiche dell’istituto esaminato, si può qualificare la rinuncia come il negozio afferente alla dismissione di un diritto dal patrimonio in senso lato del rinunciante. L’istituto della rinuncia può essere riassunto quale negozio giuridico abdicativo, sostanzialmente unilaterale, non recettizio e, generalmente, privo della immediata efficacia [2].

Se sul piano del diritto sostanziale, le fattispecie afferenti alla rinuncia possono essere enucleate in via eziologico-deduttiva, nell’alveo del diritto processuale, l’istituto de quo è analiticamente descritto e tratteggiato.

Nel corso di un procedimento giudiziale può occorrere la fattispecie per cui l’attore ritenga opportuno concludere anzitempo la lite, senza attendere la fase decisoria del processo [3]. All’uopo, il codice di procedura civile disciplina la legittimazione attorea di rinunciare agli atti del processo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 306 c.p.c., ovvero di rinunciare tout court all’azione. In ambedue i casi soggiunge, de plano, l’estinzione anticipata del procedimento, sebbene gli istituti divergano sotto alcuni rilevanti aspetti.

La principale discrasia tra i due istituti sottende alla legittimazione, o meno, di riproporre la identica domanda giudiziale oggetto di rinuncia. Con la rinuncia agli atti, infatti, l’attore mantiene inalterata. senza limitazione alcuna, la legittimazione di agire in un giudizio successivo per il riconoscimento e la tutela dello stesso diritto medesimo, posto che, naturalmente, gli atti pregressi siano destinati a perdere qualsivoglia efficacia. Diversamente, allorquando la rinuncia giunga nel corso di un gravame, si determina l’automatico passaggio in giudicato della sentenza di primo grado appellata. La rinuncia all’azione, sottende, invece, ad un effettivo atto dispositivo di disposizione del diritto azionato ed equivale, sostanzialmente, ad un rigetto – di giudiziaria memoria – nel merito delle pretese attoree, talché, occorra la preclusione processuale a far valere in un successivo giudizio le identiche ragioni con una nuova domanda [4].

Ed è proprio dalla discrasia di cui alla disciplina – ora sostanziale ora processuale – che emerge la particolare natura delle procedure concorsuali volontarie, il cui atto introduttivo si atteggia come azione processuale – nella quale restano fermi i diritti e le tutele della rinuncia in capo al debitore/attore – per poi tradursi e tramutarsi in una fattispecie esecutiva parasostanziale, negli effetti e nei rimedi, immodificabile ed irrinunciabile per l’istante.

2. All’imprenditore fallibile è sempre concessa, in astratto, la facoltà di rinunciare alla domanda di concordato, senza che necessariamente la stessa sia stata depositata ai sensi e per gli effetti dell’art. 161 co. 6 l.f. ovvero corredata dei crismi di cui all’art. 160 l.f.. Per quanto di stretto interesse del presente articolo – non rilevando il profilo della ammissibilità dell’eventuale successiva presentazione di un nuovo ricorso ex artt. 160 ss. l. f. – appare opportuno verificare i tratti esplicativi dell’atto abdicativo ex se [5].

Anche nella stesura originale del R.D. 267/1942 – anteriore, dunque, alla riforma occorsa nel 2005 – in verità, era comunemente riconosciuta la revocabilità o rinunciabilità della domanda di concordato preventivo, a prescindere dal fatto che parte della dottrina [6] ritenesse prevalente la natura contrattuale dell’istituto, ponendo l’accento, dunque, sull’aspetto negoziale e, come tale, revocabile sino all’accettazione, mentre altra parte [7] qualificasse, come preminente, la natura processuale, sottendendo, dunque, alla identità della proposta come domanda giudiziale e, perciò, liberamente rinunciabile sino alla conclusione dell’aspetto decisionale.

In sintesi, sin dalla emanazione del Regio Decreto, sembrava chiaro come il piano concordatario potesse essere oggetto di rinuncia, mentre, tutt’al più, non era ben chiaro quale fossero i limiti dell’arco temporale entro cui tale istituto fosse legittimamente esperibile. Dalla dicotomia di cui sopra, gli uni – volti a porre l’accento sulla natura negoziale – ritenevano la rinuncia dovesse occorrere, in analogia con quanto statuito ex art. 1328 c.c., antecedentemente alla approvazione, rectius adunanza, della proposta da parte della massa, mentre gli altri, in antitesi – enfatizzando i profili pubblicistici del concorso – ritenevano la scadenza per procedere quale coincidente con il decreto di omologa [8].

La dottrina, divenuta poi maggioritaria, e le pronunce giurisprudenziali di legittimità e di merito succedutesi ante e post riforma, hanno convenuto nell’operare un contemperamento degli interessi delineando quale cesura temporale per il deposito della rinuncia la avvenuta omologazione, non rilevando in questa sede, il momento della votazione e susseguente approvazione del piano da parte della massa, non potendo ridurre l’impianto concordatario – di chiara matrice pubblicistica – alla mera volontà congiunta tra l’istante e gli aventi diritto [9]. Tale conclusione ermeneutica appare coerente con la concezione secondo la quale la sola occorrenza delle maggioranze prescritte dagli artt. 160 et seq.  non possa considerarsi bastevole ad integrare i presupposti di cui agli effetti del decreto di omologa, idoneo ex se ad operare una dicotomia giuridica tra la fase istruttoria e processuale – entro cui l’istante ha piena facoltà di decidere sulle sorti della società – e quella prettamente esecutiva e liquidatoria. Soggiunge, all’uopo, pregevole dottrina [10] secondo cui, infatti, “la proposta di concordato (sia preventivo sia fallimentare), pur dopo l’approvazione da parte dei creditori, è nella disponibilità della parte da cui proviene, la quale può ancora ritirarla. Infatti, […] se la proposta fosse vincolante e irretrattabile fin dall’approvazione da parte dei creditori, non dovrebbe essere affatto necessario un nuovo atto di impulso processuale riservato al proponente, ma dovrebbe essere possibile pervenire all’omologazione su impulso anche di uno dei creditori consenzienti o dell’organo “ausiliare” della procedura (curatore o commissario giudiziale)” [11].

Va da sé, dunque, che la naturale conclusione della elaborazione giurisprudenziale porti a ritenere definitivamente rinunciabile la proposta concordataria – su istanza ex parte debitoris – sino alla conclusione della parte strictu sensu giudiziale, mentre, una volta dischiusasi la fase esecutiva e liquidatoria, previa omologazione del piano, non v’è più legittimazione alcuna per la rinuncia de qua talché qualsivoglia manifestazione contraria o limitativa della volontà ab initio manifestata andrebbe intesa nell’alveo degli atti o fatti censurabili mediante eventuali istanze di risoluzione del concordato [11].

Un altro profilo critico, chiarita la natura ed i limiti temporali della rinuncia, concerne le modalità processuali di manifestazione della stessa. Tale profilo risulta dirimente allorquando la volontà di addivenire ad una rinuncia si innesti – o si appresti ad innestarsi – nei cardini di un subprocedimento concorsuale, quale, ex multis, la revoca del concordato disciplinata ai sensi dell’art. 173 l.f.; in particolare, la dottrina [12] ha avuto modo di domandarsi se, occorrendo tale fattispecie, l’atto squisitamente unilaterale della rinuncia sia lasciata alla autonoma volontà del debitore ovvero se sia necessario – oltre che opportuno – ottenere una qualche autorizzazione della massa o, comunque, degli interessati, al fine di addivenire al perfezionamento [13] rituale dell’atto. In tal guisa, una parte della dottrina ha sostenuto che “la rinunzia alla domanda di concordato nel corso del giudizio di revoca, se uno dei legittimati ha svolto istanza di fallimento, presuppone l’assenso di questi ultimi”, alla luce del fatto che la stessa “appare sussumibile nella fattispecie della rinunzia agli atti (art. 306 c.p.c.): essa infatti vuol evitare che il Tribunale si pronunzi sulla domanda concordataria, senza tuttavia rinunziare al diritto del debitore di chiedere il concordato [a]. Essa pertanto presuppone l’accettazione delle altre parti che abbiano un interesse ulteriore rispetto a quello del regolamento delle spese di lite” [11]. Tale lettura è stata avallata da alcune pronunce di merito che – all’uopo interpellate in ambito di specifiche fattispecie segnate dall’incardinamento del sub-procedimento ex art. 173 l.f. – hanno ritenuto di statuire nel senso di subordinare l’efficacia del ritiro della domanda all’accettazione di coloro i quali avessero fatto istanza ex art. 6 e 7 l.f. [b].

3. Se in ambito concordatario, la dottrina – maggiormente – e la giurisprudenza, in maniera minore, hanno avuto modo di enucleare e scandire le rigide maglie, concorsuali e temporali, entro le quali esperire i rimedi di cui alla rinuncia, giusta disposizione normativa espressa – quantomeno a far data dalla promulgazione del D.L. 83/2015 – nell’alveo del generale sovraindebitamento ed, in particolare della liquidazione del patrimonio ex art. 14 ter l.3/2012 [14], il compito, spesso schivato, per mancanza di interesse o ridotto a mero formalismo, è stato affrontato in via eziologica ed analogica, forse maldestramente, in pochissime occasioni, dalla sola giurisprudenza di merito.

In particolare, un vademecum temporale entro cui districarsi e verificare la correttezza giuridica dello stesso, è stato fornito da Trib. Venezia 11 ottobre 2016 e Trib. Treviso 22 giugno 2017. Ancorché i Tribunali di prime cure giungano a conclusioni simili, appare opportuno, per completezza dell’opera, analizzare le pronunce separatamente.

Per la Corte di Treviso, sebbene la scelta di ricorrere alla procedura alla procedura di liquidazione dei beni ex art. 14 ter della Legge 3/2012 in alternativa alla proposta di composizione della crisi sia liberamente rimessa al debitore istante, appare coerente ritenere che la natura concorsuale – di chiaro impianto pubblicistico – del mutato procedimento, dunque quello liquidatorio, vieti, post decreto di apertura del Giudice, al medesimo istante, di  rinunciarvi [15]. A tale conclusione, il Tribunale trevigiano, giunge, ritenendo che la norma non consenta la possibilità di revocare il decreto de quo, talché la fase esecutiva – evidentemente altro da sé da quella strettamente istruttoria e giudiziale strictu sensu – prosegua ai sensi e per gli effetti  del quarto comma dell’ art. 14 quinquies sino alla esatta esecuzione del programma di liquidazione [16]. In calce, forse volendo fare un rimando alla disciplina concordataria poc’anzi enucleata – senza mai citarla espressamente, a dire il vero – il Giudice adito conclude nel ritenere che gli interessi di cui alla procedura di liquidazione del patrimonio, asseritamente maggiormente sottesi al soddisfacimento di tutti i creditori, non possano essere compressi ovvero limitati sull’altare dell’esclusivo interesse – pur legittimo – del debitore alla luce di una postuma e diversa valutazione.

Il Tribunale di Venezia, confermando la irrinunciabilità del piano a seguito del decreto, fornisce ulteriori indicazioni e spunti peculiari.

In primo luogo, la Corte effettua una breve dissertazione sulla terminologia afferente alla apertura della procedura liquidatoria.

In particolare, l’art. 14-quinquies, comma 2, lett. b) statuisce che, mediante il decreto di apertura della liquidazione il giudice “dispone che sino al momento in cui il provvedimento di omologazione diviene definitivo, non possono, sotto pena di nullità, essere iniziate o proseguite azioni cautelari o esecutive né acquistati diritti di prelazione sul patrimonio oggetto di liquidazione da parte dei creditori aventi titolo o causa anteriore“. Nel solco di una lettura assai restrittiva – poi confermata dalla corte “sorella” veneta – ancorché la normativa, nella sezione afferente alla liquidazione del patrimonio, faccia un qualche riferimento all’istituto della omologazione, tale istituto sia collocato esclusivamente nell’alveo del provvedimento di chiusura della liquidazione ex art. 14-novies e non già anche in quello di cui all’art. 14-ter per il quale non sembra prescritta alcuna fase di omologa [17]

In secondo luogo, il Tribunale, chiarita la natura del decreto ex art. 14 ter, vaglia ed affronta la questione inerente alla intrinseca legittimazione della rinunciabilità della domanda di liquidazione dei beni successivamente alla emissione del provvedimento di apertura della procedura.

La Corte, concludendo nel senso di negare suddetta possibilità, ne ravvisava il principio alla luce del fatto che, “delle procedure disciplinate dalla L. n. 3/2012 sono l’accordo del debitore ed il piano del consumatore a presentare affinità con il concordato, mentre la liquidazione dei beni è più vicina alla procedura fallimentare“.

In particolare, il collegamento analogico con la procedura di insolvenza in quanto “con il decreto si determina una forma di spossessamento del debitore (ancorché attenuato e ridotto rispetto a quanto accade con il fallimento); il liquidatore nominato ha l’amministrazione dei beni che compongono il patrimonio di liquidazione (v.art. 14 novies comma 2) ed esercita ogni azione prevista dalla legge finalizzata a conseguire la disponibilità dei beni compresi nel patrimonio da amministrazione nonché le azioni volte al recupero dei crediti compresi nella liquidazione (v. art.14 decies). Il passivo della procedura viene determinato attraverso un vero e proprio sub-procedimento di accertamento del passivo, modellato sulla disciplina prevista per i1 fallimento, ma affidato al liquidatore, cui compete la formazione dello stato passivo definitivo, essendo riservata al Giudice soltanto la decisione sulle contestazioni dei creditori.

Nel solco di questa asserita analogia con la procedura fallimentare, il Tribunale opera definitivamente una cesura nel senso di statuire che “non è possibile allora consentire la rinuncia al debitore che vi è stato ammesso, così come non sarebbe possibile acconsentire alla rinuncia al fallimento successivamente all’emissione della sentenza dichiarativa di fallimento in accoglimento di istanza di fallimento“.

4. Posto che gli autori non convergano con le conclusioni dei Tribunali veneti sulla presunta generale analogia tra la procedura fallimentare e quella di cui alla liquidazione dei beni, se non altro per la volontarietà della seconda e la natura essenzialmente coatta della prima, le corti – in linea con l’opinione maggioritaria secondo cui la liquidazione dei beni appare analoga al fallimento più che al concordato preventivo (anche di tipo liquidatorio) – occorre svolgere alcune considerazioni.

Pur volendo restare nell’ambito dell’analogia con il fallimento, ebbene anche in quella procedura, quantomeno sino all’emanazione della sentenza dichiarativa di fallimento, è possibile che vi sia rinuncia all’istanza [c], sempre che l’istanza sia ad opera del fallendo – altrimenti non si comprende come possano essere avvicinati gli istituti – mentre, diversamente, la liquidazione ex art. 14 ter è esclusivamente attuabile dal solo debitore [d].

Ad avviso di chi scrive, difatti, l’analogia con il fallimento, rectius liquidazione giudiziale, è più apparente che reale e, dunque, la norma relativa all’insolvenza non sembra adattarsi a quelle di cui alla liquidazione dei beni.

Pertanto, appare opportuno osservare come nella disciplina liquidatoria di cui alla L. 3/2012, al più, vi sia una qualche analogia con la normativa civilistica di cui all’art. 1977 c.c., talché – posto che la norma contenuta nel codice civile sia legittimo prevedere il parziale interessamento dei beni del debitore – la procedura concorsuale minore possa effettivamente qualificarsi come cessio bonorum coatta giusti effetti del decreto di apertura di cui all’art. 14-quinquies.

Il richiamo alla cessione dei beni ai creditori, in assenza di una qualsivoglia norma espressa, oltre che di un modello-base di riferimento, conduce ad escludere la possibilità di applicare sic et simpliciter la norma sull’irrinunciabilità dell’istanza di fallimento che appare norma eccezionale.

Il che non significa che la procedura sia rinunciabile – nei limiti della fase giudiziale nella accezione di cui sopra – in ogni caso [18].

Difatti, ancorché le procedure disciplinate dalla normativa sul sovraindebitamento siano fisiologicamente promuovibili esclusivamente dal debitore, la procedura di liquidazione del patrimonio prevede una particolare fattispecie per cui, all’occorrer di alcuni requisiti, può essere richiesta anche dalla massa dei creditori ai sensi e per gli effetti dell’art. 14-quater in sede di conversione della procedura [d].

Nella totalità delle altre soluzioni e fattispecie di cui alla L.3/2012 altre ipotesi, non sembra ammissibile negare in rito un diritto alla rinuncia in capo al debitore istante, almeno sino al momento in cui il piano non sia giunto nella fase esecutiva – post decreto di omologa ovvero di apertura – e allorquando non siano occorse delle posizioni di ex parte creditoris [e].

[a] Cass. civ., Sez. I, Sentenza, 28/04/2015, n. 8575 ha prescritto che “la rinuncia da parte del debitore agli effetti favorevoli della decisione resa in sede di appello, con la quale è stato omologato il concordato preventivo da lui proposto, previa revoca del fallimento dichiarato in primo grado, non esclude la necessità che la S.C. si pronunci sui motivi di ricorso, non potendo rivivere la sentenza di primo grado, la cui efficacia è stata definitivamente assorbita dalla sentenza d’appello, e non essendovi spazio per una dichiarazione di cessazione della materia del contendere. Invero, la menzionata rinuncia si tradurrebbe, sostanzialmente, in una revoca della proposta di concordato, non più ammissibile una volta che gli effetti vincolanti del concordato preventivo, anche nei confronti dei creditori rimasti assenti o dissenzienti, siano stati tradotti in un provvedimento di omologazione.”

[b] Cass. civ. Sez. I Ord., 25/10/2018, n. 27120 ha stabilito che “in vista di un complessivo bilanciamento degli interessi dei soggetti variamente legittimati ad assumere iniziative per la regolazione della crisi e dell’insolvenza» – che «la rinuncia alla proposta di concordato non soffre del limite temporale imposto alla sua modifica (prima del 2015 “l’inizio delle operazioni di voto” ex art. 175 L.F., ora “quindici giorni prima dell’adunanza dei creditori” ex art. 172, 2° co., L.F.), in quanto destinata all’arresto dell’iter concordatario.

[c] Cass., sez. I, 19 settembre 2013, n. 21478 ha precisato che ” Il nuovo procedimento per la dichiarazione di fallimento, non prevedendo alcuna iniziativa d’ufficio, suppone, affinché il giudice possa pronunciarsi nel merito, che la domanda proposta dal soggetto a tanto legittimato sia mantenuta ferma, cioè non rinunciata, per tutta la durata del procedimento stesso, derivandone, quindi, che la desistenza dell’unico creditore istante intervenuta anteriormente alla pubblicazione della sentenza di fallimento, pur se depositata solo in sede di reclamo avverso quest’ultima, determina la carenza di legittimazione di quel creditore e la conseguente revoca della menzionata sentenza.

[d] Sussistendo suddetta fattispecie, dunque, non sarà affatto possibile consentire al debitore di ricorrere ad una qualche forma di rinuncia alla procedura non essendo stato lui a promuovere e determinarne l’istanza.

[e] Nel solco della irrinunciabilità, finanche per carenza di interesse sopraggiunto, appare opportuno ricordare che Trib. Roma 29 gennaio 2019 ha precisato che ” il debitore sovraindebitato, che abbia chiesto l’apertura della liquidazione ai sensi degli artt. 14 ter ss. della L. n. 3/2012, non può pretenderne la chiusura per sopravvenuta carenza di interesse, dovendo la procedura proseguire necessariamente in funzione dell’interesse dei creditori ad ottenere il soddisfacimento secondo le modalità concorsuali sino alla completa esecuzione del programma di liquidazione e, in ogni caso, ai fini di cui all’art. 14 undecies, per i quattro anni successivi al deposito della domanda.

 

 

 

 

 

 


Bibliografia
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[16] A. J. Pagano and S. Sforzi, “La tutela della maggior soddisfazione del ceto creditorio legittima la sospensione della procedura esecutiva su beni di terzi,” Cris. e Risanamento, vol. Giuffrè, 2021.
[17] A. J. Pagano, S. Giugni, and L. Provaroni, “Accesso al sovraindebitamento : la sorte degli atti dispositivi in frode ai creditori,” Altalex, 2022.
[18] F. Gabassi,  Impossibilità per i debitore di rinunciare, una volta avviata, alla procedura di liquidazione dei beni prevista dagli artt. 14 ter e seguenti della Legge 3/2012, 2017.

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Andrea Jonathan Pagano

Corporate Lawyer at Sime s.r.l.
M.D. Law at University of Pisa 2010-2015;Ph.D. Law at Turiba University 2017-2018;Lecturer Private International Law at Turiba University 2017;Ph.D. Management Engineering (Insurance Law) at Riga Technical University 2018 - in progress;Lecturer Smart Insurance Contract at Riga Technical University 2018;Visiting Fellow Insurance risk management at University of Pisa 2020 - 2022;Adjunct Professor “Insurance risk: evaluation and management” Master in Risk Management at University of Pisa 2022 - in progress

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