Lo scioglimento dei Comuni

Lo scioglimento dei Comuni

Nell’ambito delle strategie di contrasto alla criminalità organizzata per mezzo di poteri amministrativi il legislatore si è mosso in due direzioni.

La prima è quella del controllo esterno sulle imprese esposte al rischio di infiltrazione mafiosa che intendano instaurare rapporti con una pubblica amministrazione: ci si riferisce alla funzione, attribuita al prefetto, di interdizione delle imprese. La seconda è, invece, quella del controllo esterno sugli enti territoriali: anche in tal caso ci si riferisce ai poteri prefettizi in tema di lotta alla mafia i quali, tuttavia, vengono esercitati in seno alla procedura di scioglimento dei consigli comunali e provinciali soggetti a pericolo di condizionamento mafioso.

Lo scioglimento dei Consigli comunali o provinciali per infiltrazioni mafiose costituisce una misura, non sanzionatoria, bensì cautelare di carattere straordinario poiché prevista qualora si verifichino ipotesi di collusione o ingerenza, anche mediata, voluta e/o subìta, degli organi elettivi e burocratici di Comuni e Province con le organizzazioni criminali. Lo scioglimento è, perciò, un “rimedio di extrema ratio volto a salvaguardare beni primari dell’intera collettività nazionale, messi in pericolo dalla collusione tra amministratori locali e criminalità organizzata, non fronteggiabile con altri apparati preventivi o sanzionatori dell’ordinamento” (così Tar Lazio, sez. I, 8 marzo 2019, n. 3101).

Si tratta di una misura che veniva introdotta in uno dei momenti più tormentati del nostro Paese, dilaniato dalla mafia, dal decreto legge 31 maggio 1991, n. 164[1], interamente abrogato, che ha inserito l’articolo 15 bis nella legge 19 marzo 1990, n. 55[2] poi trasfuso nell’articolo 143 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (T.U.E.L.[3]) e, infine, emendato ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94[4], cosiddetto Pacchetto sicurezza bis.

Rispetto alla precedente previsione, che si limitava ad un riferimento generico ad elementi, non meglio qualificati, espressione di “collegamenti diretti o indiretti” degli amministratori alla mafia o a forme di condizionamento degli stessi, l’attuale previsione, introdotta dall’articolo 2, comma 3 della legge n. 94/2009, richiede condizioni più rigorose.

Invero, la condizione dello scioglimento, ai sensi del nuovo articolo 143, comma 1, T.U.E.L., è “anche a seguito di accertamenti effettuati a norma dell’articolo 59, comma 7” l’esistenza di “concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare degli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, ovvero su forme di condizionamento degli stessi, tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi e da compromettere il buon andamento o l’imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica”.

Il procedimento, che inizia su impulso del Prefetto competente per territorio, finalizzato ad appurare l’esistenza degli elementi citati, è complesso; l’autorità prefettizia, infatti, ai sensi del comma 2 “dispone ogni opportuno accertamento, di norma promuovendo l’accesso presso l’ente interessato. In tal caso, il prefetto nomina una commissione d’indagine[5], composta da tre funzionari della pubblica amministrazione, attraverso la quale esercita i poteri di accesso e di accertamento di cui è titolare per delega del Ministro dell’interno (…). Entro tre mesi dalla data di accesso, rinnovabili una volta per un ulteriore periodo massimo di tre mesi, la commissione termina gli accertamenti e rassegna al prefetto le proprie conclusioni”. Quindi, il prefetto, “invia al Ministro dell’interno una relazione nella quale si dà conto della eventuale sussistenza degli elementi di cui al comma 1 (…)”[6]

Lo scioglimento, ai sensi del comma 4, “è disposto con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’interno, previa deliberazione del Consiglio dei ministri entro tre mesi dalla trasmissione della relazione di cui al comma 3, ed è immediatamente trasmesso alle Camere. Nella proposta di scioglimento sono indicati in modo analitico le anomalie riscontrate ed i provvedimenti necessari per rimuovere tempestivamente gli effetti più gravi e pregiudizievoli per l’interesse pubblico; la proposta indica, altresì, gli amministratori ritenuti responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento. Lo scioglimento (…) comporta la cessazione dalla carica di consigliere, di sindaco, di presidente della provincia, di componente delle rispettive giunte e di ogni altro incarico comunque connesso alle cariche ricoperte, anche se diversamente disposto dalle leggi vigenti in materia di ordinamento e funzionamento degli organi predetti”.

Tuttavia, qualora fossero mancati i presupposti per lo scioglimento, ma fossero state poste in essere condotte perniciose del “buon andamento e l’imparzialità delle amministrazioni comunali o provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi” il comma 7 bis dell’articolo 143, attribuiva al prefetto il potere di individuare “prioritari interventi di risanamento indicando gli atti da assumere, con la fissazione di un termine per l’adozione degli stessi, e fornisce ogni utile supporto tecnico-amministrativo a mezzo dei propri uffici”; il quale, inoltre, in caso di perdurante inadempimento, “si sostituisce, mediante commissario ad acta, all’amministrazione inadempiente”. Tuttavia, con sentenza del 20 giugno 2019, n. 195, tale disposizione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale.

La disposizione era stata introdotta dal legislatore, presa coscienza dell’inadeguatezza degli strumenti di contrasto alla mafia, nel tentativo di apprestare uno strumento più duttile rispetto agli ordinari interventi sostitutivi, non contemplando, in precedenza, l’articolo 143, una fase intermedia e meno invasiva tra la misura dello scioglimento e la dismissione, di cui al comma 7, dell’iniziativa di controllo mediante il “decreto di conclusione del procedimento”. Così facendo, però, il legislatore tratteggiava un potere prefettizio sostitutivo extra ordinem, ampiamente discrezionale, sulla base di presupposti generici e poco definiti, per di più non mirati specificamente al contrasto della criminalità organizzata, ossia incompatibili con l’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali territoriali” (così Corte Cost., sent. 20 giugno 2019, n. 195). “L’insufficiente determinazione del presupposto del potere sostitutivo risulta così aggravata dalla latitudine del suo contenuto atipico e indifferenziato, mentre ogni potere amministrativo deve essere determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa” (così Corte Cost., sent. 4 aprile 2011, n. 115). “Tutto ciò inficia irrimediabilmente la compatibilità di tale potere sostitutivo extra ordinem, in primo luogo, con il principio di legalità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), nonché con l’autonomia costituzionalmente garantita che la Repubblica promuove e riconosce agli enti locali territoriali (art. 5 Cost.)” (così Corte Cost., sent. 21 gennaio 2019, n. 29; 24 gennaio 2019, n. 33).

Con riguardo agli effetti, vengono in questione i commi 10 e 11 dell’articolo 143, ai sensi dei quali: “il decreto di scioglimento conserva i suoi effetti per un periodo da dodici mesi a diciotto mesi prorogabili fino ad un massimo di ventiquattro mesi in casi eccezionali, dandone comunicazione alle Commissioni parlamentari competenti, al fine di assicurare il regolare funzionamento dei servizi affidati alle amministrazioni, nel rispetto dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa (…). L’eventuale provvedimento di proroga della durata dello scioglimento è adottato non oltre il cinquantesimo giorno antecedente alla data di scadenza della durata dello scioglimento stesso (…). Fatta salva ogni altra misura interdittiva ed accessoria eventualmente prevista, gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento (…) non possono essere candidati alle elezioni per la Camera dei deputati, per il Senato della Repubblica e per il Parlamento europeo nonché alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, in relazione ai due turni elettorali successivi allo scioglimento stesso, qualora la loro incandidabilità sia dichiarata con provvedimento definitivo (…)”[7].

Come è stato autorevolmente osservato, si tratta di un unicum nel nostro ordinamento, con il quale il legislatore del 2009 ha arricchito di un altro tassello il range degli interventi di carattere tutorio nei confronti degli enti locali mediante una misura interdittiva di carattere personale[8].

Infine, ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo citato “si fa luogo comunque allo scioglimento degli organi, a norma del presente articolo, quando sussistono le condizioni indicate nel comma 1, ancorché ricorrano le situazioni previste dall’articolo 141”[9].

L’esame delle misure di cui all’articolo 143, dirette a ripristinare la legalità violata, prova che, in prevalenza, lo scioglimento si connota per la sua finalità preventiva e cautelare; ciò, invero, ha indirizzato, di recente, il Consiglio di Stato ad adottare, in quanto compatibile con la natura preventiva del provvedimento esaminato, anche il medesimo criterio di valutazione del “più probabile che non”, impiegato nel giudizio finalizzato al rilascio delle informative antimafia. Dunque, quanto detto, avvicina lo scioglimento alle informazioni antimafia, misure che hanno in comune anche quell’effetto interdittivo che caratterizza le seconde; ed è proprio tale effetto che giustifica, nel nostro ordinamento, la previsione di tale potere quale “eccezionale” e la sua compatibilità con i principi costituzionali.

La compatibilità dell’istituto, con l’assetto costituzionale, è stata, infatti, oggetto di polemiche in riferimento, tra l’altro, all’articolo 3 della Costituzione, quanto alla genericità dei presupposti della fattispecie e alla responsabilità personale degli amministratori locali; agli articoli 24 e 113 quanto alla scarsa tutela giurisdizionale; agli articoli 48 e 51 quanto al profilo dell’elettorato passivo. Ma, già con la sentenza del 19 marzo 1993, 103, la Corte Costituzionale dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 15 bis[10] della legge n. 55 del 1990[11], sollevate in riferimento agli articoli 3, 5, 24, 97, 113 e 128 della Costituzione. In particolare, la Corte ha osservato che si sarebbe in presenza di una “misura di carattere sanzionatorio, che ha come diretti destinatari gli organi elettivi” concludendo che “tale qualificazione, collegando la misura ad una emergenza straordinaria, attribuisce a quell’emergenza il valore di limite e di misura del potere, esercitabile perciò solo nei luoghi e fino a quando si manifesti tale straordinario fenomeno eversivo”[12].

Anche il Consiglio di Stato, in molteplici occasioni, ha evidenziato e valorizzato la finalità preventiva di contrasto alla criminalità organizzata dell’istituto che, mentre, in alcuni casi, interviene impedendo l’influenza della mafia sulla vita dell’ente, in altri spezza quel legame di correità fra la mafia stessa e gli amministratori locali. Invero, è ormai condiviso da dottrina e giurisprudenza che la misura de quo è avulsa dal concetto di sanzione, così come enucleato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo mediante i cosiddetti criteri Engel [13].

Essa non risponde, quindi, alle regole ordinamentali tendenti a stroncare la commissione di illeciti (…), ma si inquadra piuttosto nel sistema preventivo del controllo generale riservato allo Stato in ordine a fatti che, per la loro consistenza ed effettività, si reputano idonei a determinare uno sviamento dall’interesse pubblico, che necessariamente deve essere perseguito dall’ente locale, titolare esponenziale degli interessi della propria collettività”[14].

Il carattere di straordinarietà e la natura di atto di alta amministrazione[15], implicante l’intervento suppletivo dello Stato, ne giustificano la portata derogatoria rispetto ai principi generali e alle garanzie procedimentali, di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241[16] che, necessariamente, devono essere sacrificati; sacrificio che si rivela opportuno dato l’alto tasso di “amministrativizzazione”[17] che contraddistingue un tale procedimento di ordine pubblico. Infatti, in conformità con quanto affermato dalla Corte costituzionale[18], la giurisprudenza amministrativa nega la necessità di comunicare l’avvio del procedimento[19].

Ad ogni modo, i provvedimenti di scioglimento adottati ai sensi dell’articolo 143 T.U.E.L. vanno moltiplicandosi: dal 1991 al 26 febbraio 2020 sono stati emanati, complessivamente, 551 decreti, di cui 207 di proroga di precedenti provvedimenti; su 344 decreti di scioglimento, 23 sono stati annullati[20] dai giudici amministrativi.

Gli enti locali coinvolti nella procedura di verifica per infiltrazioni mafiose, considerando che 67 amministrazioni sono state colpite da più di un decreto di scioglimento, sono stati 292, dei quali 259 effettivamente sciolti.

Ciò è avvenuto, ancora una volta, grazie alla mutevolezza del fenomeno mafioso, capace di trasformarsi ed adattarsi, prontamente, ad ogni contesto. Specularmente, la reiterazione degli scioglimenti, ha dimostrato, in alcuni casi, l’inadeguatezza della misura.

 

 

 

 


[1] Intitolato “Misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, conseguente e a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso”, convertito nella legge 22 luglio 1991, n. 221.
[2] Intitolata “Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale”.
[3] “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”
[4] Intitolata “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”
[5] Tale passaggio può non essere necessario nei casi in cui emergano, nel corso delle indagini dell’autorità giudiziaria, elementi certi come avvenuto, ad esempio, per lo scioglimento dei Comuni di Delianuova in provincia di Reggio Calabria, sciolto il 30 settembre del 1991; Nardodipace, in provincia di Vibo Valentia, sciolto il 19 dicembre 2012; Scalea, in provincia di Cosenza, sciolto il 25 febbraio 2014.
[6] Articolo 143, comma 3, T.U.E.L.
[7] Il comma 11 è stato modificato dall’articolo 28, comma 1 bis del decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113 intitolato “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata”, convertito con modificazioni dalla legge 1 dicembre 2018, n. 132.
[8] R. CANTONE, P. PARISI, “Incandidabilità degli amministratori responsabili dello scioglimento di un ente locale per infiltrazioni mafiose”, in Giornale di diritto amministrativo 2015, n.6, p. 770.
[9] Vale a dire “a) quando compiano atti contrari alla Costituzione o per gravi e persistenti violazioni di legge, nonché per gravi motivi di ordine pubblico; b) quando non possa essere assicurato il normale funzionamento degli organi e dei servizi (…); quando non sia approvato nei termini il bilancio; c – bis) nelle ipotesi in cui gli enti territoriali al di sopra dei mille abitanti siano sprovvisti dei relativi strumenti urbanistici generali e non adottino tali strumenti entro diciotto mesi dalla data di elezione degli organi. In questo caso, il decreto di scioglimento del consiglio è adottato su proposta del Ministro dell’interno di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti”.
[10] Abrogato dall’articolo 274 del d.lgs. n. 267 del 2000.
[11] Rubricata: “Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale”.
[12] Corte cost., sent. 19 marzo 1993, n. 103.
[13] Si tratta di criteri, elaborati dalla Corte EDU e accolti in ambito eurounitario. V. CGUE, GS, 20 marzo 2018, Menci, (C-524/15) secondo la quale: nel valutare la “natura penale di procedimenti e di sanzioni (…) sono rilevanti tre criteri. Il primo consiste nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, il secondo nella natura dell’illecito e il terzo nel grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere”.
[14] Cons. St., sent. n. 4467/2004.
[15] V. Corte Cost. sent. n. 103/1993, la quale ha “escluso che tale atto possa essere di natura politica e, quindi, insuscettibile di sindacato giurisdizionale poiché libero nel fine”.
[16] Intitolata “Nuove norme sul procedimento amministrativo”.
[17] V. S. GAMBACURTA, “La documentazione antimafia: tipologia e contenuto”, in Giustamm, 2016.
[18] Sentenza n. 309 del 1993
[19] V., articolo 7 della legge n. 241 del 1990.
[20] V. S. GAMBACURTA, p. 26, secondo il quale “la percentuale degli annullamenti, da parte del giudice amministrativo e, in ultima istanza del Consiglio di Stato, è molto bassa poiché i provvedimenti di scioglimento risultano essere perlopiù ben motivati, per quanto non sempre esenti, per la mole dei dati da esaminare, da errori e inesattezze”.

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Federica Schilirò

Laureata in legge con 110 e lode tirocinante presso il Tribunale di Frosinone.

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