Lo sciopero della fame dei detenuti: profili psicologici e normativi
1. Profilo psicologico: interpretazione dello sciopero della fame. Lo sciopero della fame può definirsi come «rifiuto volontario, totale dell’assunzione del cibo senza giustificato motivo medico che duri più di tre giorni».[1] Esso costituisce una forma di protesta non violenta annoverata tra le possibili strategie comunicative di cui può servirsi un individuo od un gruppo sociale per il raggiungimento di un fine che si assume come giusto ovvero, in altri casi, per esternare un proprio disagio.
All’interno dell’istituzione penitenziaria – luogo di residenza di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune in un regime chiuso e formalmente amministrato – quest’ultimo aspetto viene in rilievo più che in ogni altro ambiente: il detenuto, infatti, è sottoposto ad un regime di restrizione della libertà personale che recide i suoi rapporti con il mondo esterno, sicché, in simili contesti, il disagio interiore «di una mente intrappolata mediante il castigo del suo fedele alleato (il corpo)» non può trovare altro sfogo se non in comportamenti “patologici e paradossali”[2] in grado di scuotere proficuamente la normalità del vivere sociale. Il recluso, infatti, è consapevole che il suo gesto diverrà quasi certamente un fenomeno mediatico che non solo indurrà l’Ater chiamato in causa a prendere in considerazione le sue richieste, ma anche aumenterà le probabilità che esse vengano accolte.
A ben vedere, dunque, più che il desiderio di morire o rifiuto del cibo sic et simpliciter, il soggetto attraverso l’astensione al nutrimento rivela il suo desiderio di vivere[3], ossia quello di trasmettere alla società esterna, al mondo giuridico, politico e legislativo dei messaggi che possono riguardare la situazione processuale, il miglioramento della vita quotidiana in carcere, il riconoscimento di alcuni diritti inviolabili (es. l’ammissione al lavoro) o, più in generale, la riforma dell’intero sistema penitenziario.
Ergendosi in un primo momento come fenomeno a valenza chiaramente para-suicidaria, al fine di poter interpretare correttamente lo sciopero della fame nei termini suddetti, è necessario che siano presenti alcune condizioni che facciano emergere in modo quantomeno inequivocabile il suo significato “dimostrativo” [4].
Anzitutto, alla base, vi deve essere una scelta volontaria ed autonoma del detenuto affiancata dalla dichiarazione delle sue motivazioni allo sciopero e dalla definizione degli obiettivi auspicati dei quali, successivamente, verrà valutata la legittimità, ossia quanto essi siano ragionevolmente ottenibili.
Infine, occorre comprendere se il modo in cui l’astensione al nutrimento è condotta sia finalizzata a preservare lo stato di salute oppure sia volto a provocare la morte.
Difatti, i detenuti che indicono uno sciopero della fame il cui fine è realmente quello di produrre un cambiamento e migliorare la propria condizione, lo perseguono attraverso una modalità “protetta” tesa, cioè, alla salvaguardia della propria condizione fisica, avvalendosi, ad esempio, dell’assunzione di liquidi o dell’utilizzo di integratori vitaminici che gli consentano di sopravvivere il più a lungo possibile.
La scelta del digiunante, quindi, di astenersi anche dall’assunzione dell’acqua potrebbe essere una chiara interpretazione del desiderio di morte che ha sin dal principio animato il soggetto oppure del cambiamento del fine che ha sedimentato lo sciopero. Non avviene di rado, infatti, che a seguito di un fallimento incorso nel tentativo di raggiungere lo scopo preposto, quello che originariamente era un gesto dimostrativo possa spogliarsi della sua spinta vitale e mutare in un bisogno puramente personale di rinuncia alla vita: la morte, in questi casi, è concepita nella mente e nell’animo del detenuto quale unica via di uscita in grado di portare a termine il suo piano nonostante la sconfitta ed il disagio correlato.
In conclusione, dunque, nonostante la presenza dei “requisiti” di cui sopra, cercare di approdare ad una corretta esegesi dello sciopero della fame appare piuttosto arduo, essendo un fenomeno, come si è avuto modo di constatare, dietro al quale potrebbero celarsi diversi significati reconditi capaci di rendere molto labile la linea di demarcazione tra il desiderio di battersi per degli obiettivi precisi volti al riconoscimento di diritti fondamentali per ogni uomo e il desiderio di sottrarsi a tale negazione attraverso la ricerca passiva della morte.
2. Profilo normativo: lo sciopero della fame tra “libertà” del detenuto ed obblighi degli operatori penitenziari. Nel paragrafo precedente si è avuto modo di affermare che nella non rarità dei casi il detenuto attraverso il rifiuto alla nutrizione si riappropria dei suoi spazi di autodeterminazione e l’atto in quanto tale finisce per essere di per sé desiderio di vita, un libero sfogo fisico alla sopraffazione istituzionale, conservativo della propria identità personale e culturale.
Tuttavia, lo sciopero protratto per lungo tempo può provocare conseguenze molto gravi per la salute dell’individuo in quanto l’organismo per svolgere in assenza di cibo le regolari funzioni è costretto ad utilizzare le sue riserve, finendo così per innescare un meccanismo di autodistruzione che può andare dal rallentamento della produzione di calore all’insorgere di patologie neurologiche fino ad arrivare all’evento mortale.
A ben vedere, sotto il profilo giuridico, l’astensione al nutrimento impone di risolvere due questioni tra loro connesse: in primo luogo occorre valutare se sia lecito procedere all’alimentazione coatta del detenuto che rifiuti tenacemente di nutrirsi, ove ciò sia atto ad impedire proprio l’evento morte; in secondo luogo, domandarsi, qualora ciò si verificasse, se possa ascriversi in capo all’istituto penitenziario e ai suoi operatori – detentori non solo della libertà del recluso, ma anche garanti della tutela della sua integrità psico-fisica – l’eventuale responsabilità penale del decesso.
In via generale, qualora il soggetto che compia la scelta di rifiuto del cibo sia capace di intendere e di volere, anche se tale scelta possa comportare un rischio per la sua vita, non può ritenersi legittimo applicare contro la sua volontà un intervento medico realizzato con le modalità dell’alimentazione forzata.[5]
Tale trattamento, per la maggior parte della dottrina[6], rientra nel catalogo di quelli di tipo sanitario la cui attuazione si pone in contrasto con il diritto alla salute nel suo risvolto negativo di libertà di rifiutare le cure, sancito dal combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32 Cost.[7] e che non incontra limiti neanche se il suo esercizio possa condurre al sacrificio del bene vita.[8]
Ciò premesso, occorre ora chiedersi se il particolare status di persona in vinculis consenta o addirittura imponga al legislatore di riconoscere al recluso un livello di tutela dell’integrità fisica superiore a quella prevista per tutti gli individui non detenuti.
Un primo orientamento – ad oggi superato – fondandosi su combinato disposto ricavabile dalle previsioni normative degli artt. 579, 580 c.p. – i quali puniscono, rispettivamente, l’omicidio del consenziente e l’aiuto o l’istigazione al suicidio – e l’art. 41, comma 3 Op – che ammette la liceità tout court dei mezzi di coercizione fisica volti a tutelare lo stesso soggetto che li subisce – riteneva che gli operatori penitenziari, essendo titolari di una posizione di garanzia della vita altrui, sono tenuti ad impedire il fatto suicidario senza che assuma rilevanza l’eventuale dissenso del detenuto digiunante all’alimentazione forzata.
Tale soluzione è stata criticata su più fronti dalla dottrina prevalente la quale sostiene che tale problematica vada risolta alla luce di una corretta interpretazione sia della disciplina dei trattamenti sanitari obbligatori, avendo la pratica dell’alimentazione coatta natura medica, sia della normativa penitenziaria in materia.
Invero, la riserva di legge prevista dall’art. 32, comma 2 Cost – “nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge” – esige che l’atto legislativo individui il determinato trattamento autorizzato e la specifica malattia che esso mira a curare o a prevenire, requisiti questi che non sono riscontrabili nell’art.41, comma 3, Op. A ciò si deve aggiungere che la disposizione de qua nonché gli artt. 33 e 34 della legge n°833 del 1978[9] consentono l’uso della coercizione fisica solo per i detenuti affetti da gravi patologie mentale, escludendola, dunque, per quelli capaci di intendere e di volere.
Al fine di ovviare quest’ultima considerazione, alcuni autori hanno sostenuto che la protrazione del digiuno per un lungo periodo di tempo farebbe cadere il soggetto in uno stato di incoscienza assimilabile allo stato di infermità mentale, cosicché non sarebbe in grado di rinnovare il suo dissenso alle cure[10]. Al riguardo si è obiettato che nel caso in cui il detenuto decida di protrarre il digiuno, accettando anche il rischio di morire, il sopravvenuto stato di incoscienza non giustificherebbe l’intervento medico, operando il limite della libertà terapeutica del soggetto che implica, come si è detto, anche la libertà di lasciarsi morire.
La giurisprudenza di legittimità ha, tuttavia, precisato che «ove non si riesca a provare che il rifiuto dell’alimentazione artificiale sia realmente espressivo – in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti – della voce del rappresentato, deve essere data incondizionata prevalenza all’istanza solidaristica di protezione della vita, indipendentemente dal grado di salute e dalla capacità di intendere e di volere del soggetto interessato».[11]
In conclusione, deve riconoscersi al detenuto il diritto di autodeterminazione terapeutica quale diritto fondamentale dell’individuo in quanto tale: dinanzi alla libera e consapevole scelta del soggetto di rifiutare il cibo, il personale sanitario dell’amministrazione penitenziaria deve, quindi, astenersi da qualsiasi trattamento coattivo, salvo il caso in cui la situazione patologica metta in pericolo la salute dei terzi[12] ovvero si dimostri inconfutabilmente che essa non corrisponda all’esatta volontà del recluso. Gli istituti e gli operatori sanitari penitenziari non saranno, dunque, penalmente responsabili dell’eventuale morte o delle lesioni che colpiranno il digiunante in quanto, ponendosi il dissenso di quest’ultimo come limite alla loro posizione di garanzia, verrebbe a mancare lo stesso fatto oggettivo del reato di omicidio o di lesioni personali. Ciò nonostante – si badi – l’amministrazione carceraria, in virtù della sua posizione di garanzia, deve comunque continuare ad operare con tutti i mezzi a sua disposizione, ad esempio attraverso l’assistenza sanitaria o psicologica, per informare il digiunante sulle conseguenze del protrarsi del suo gesto e per cercare di persuaderlo ad accettare il cibo necessario per sopravvivere[13].
[1] Così I. Allegranti – G. Giusti, Lo sciopero della fame del detenuto. Aspetti medico-legali e deontologici, Cedam, Padova, 1983, pag.6
[2] Vd. V. Mastronardi, Le strategie della comunicazione umana, Franco Angeli Editore, Milano, 2000, pag.13
[3] M.G. Maffei, Lo sciopero della fame della persona detenuta, in Rass. Penit. crim., n.3 del 2003, pag.16.
[4] Così, Ferrara Matteo Pio, La pena nei luoghi di pena: lo sciopero della fame tra protesta e rifiuto alla vita, in www.accademia.edu.
[5] Per scongiurare i danni alla salute e la morte del digiunatore occorre sottoporlo a un’adeguata terapia di supporto alimentare consistente nel transitorio ricovero in un ambiente intensivo, sedazione profonda continua, protezione delle vie aeree mediante intubazione o ventilazione meccanica, incannulazione venosa centrale per monitoraggio volemico, posizionamento di una sonda naso-gastrica per graduale rialimentazione enterale e monitoraggio continuo dei parametri vitali.
[6] Secondo, invece, il Comitato nazionale per la bioetica, nel parere intitolato L’alimentazione e l’idratazione di pazienti in stato vegetativo persistente, adottato in data 30 settembre 2005, l’acqua e il cibo sono elementi indispensabili per garantire le condizioni fisiologiche di base per vivere sicché non possono tramutarsi in una terapia medica solo perché somministrati in via artificiale.
[7] In questo senso anche la giurisprudenza costituzionale. Cfr., ad esempio Cort. Cost. sent. n.218 del 1994.
[8] Ciò si giustifica alla luce del principio personalistico che anima il nostro ordinamento giuridico e che conduce ad una nuova dimensione della salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e che quindi coinvolge, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza. Sull’evoluzione del diritto alla salute nell’ordinamento italiano si veda D. Morana, La salute come diritto costituzionale. Lezioni, G.Giappichelli Editore, 2018
[9] Art. 33, comma 2, l.n.833/1978:«Possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici previsti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto di scelta del medico e del luogo di cura»
Art. 34,comma 2, l.833/1978:«Le misure di cui al comma 2 del precedente articolo possono essere disposte nei confronti di persone affette da malattia mentale».
[10] In questo senso M.G. Maffei, Lo sciopero della fame della persona detenuta, in Rass. Pent. Crim. N,3 del 2003,pag 34. Sull’ammissibilità del trattamento sanitario obbligatorio si vedano anche A. Pennisi, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale,G. Giappichelli Editore, Torino, 2002, pag.100-101 e D. Pulitanò, Sullo sciopero della fame di imputati in custodia preventiva, in Quest. Giust. n.2 del 1982, pag. 373 e ss.
[11] Così Cort. Cass. Sez. I civ., sent. n. 21748 del 4 Ottobre 2007.
[12] Lo sciopero della fame potrebbe, infatti, avere una certa «potenzialità epidemica» e costituire una minaccia per la microsocietà penitenziaria più esposta a subire gli effetti di condizionamento ed imitazione dell’agire. Solo in questo caso si configura un dovere giuridico di intervento da parte del personale sanitario.
[13] In questo senso vanno anche numerose circolari adottate dalla seconda metà degli anni’80: Cfr. Circolare n.605202/9 del 1984 inerente al Servizio Sanitario Penitenziario; Circolare n. 3132/5582 del 1985 sull’assistenza sanitaria dei detenuti; Circolare n. 566285 del 1996 sulle procedure per l’avvio delle comunicazioni concernenti la tutela della salute e della vita dei detenuti.
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