Lo scontro secolare tra libertà di stampa e difesa della reputazione
La libera manifestazione del pensiero nella sua accezione di diritto di cronaca e libertà di stampa si concretizza nel divulgare informazioni in relazione a fatti che rispondano ad un pubblico interesse.
Si comprende, allora, dalla definizione suesposta, come il diritto di cronaca si cali nella strette maglie del vivere quotidiano di una società civile e ciò fa di lui un facile bersaglio di dibattiti politici, sociali e giuridici, di oggi come di ieri.
Il diritto di cronaca, invero, realizza una particolare congiuntura tra la sfera civile e quella amministrativa: infatti, si tratta sostanzialmente di un diritto privatistico, ossia quello di manifestare la libertà di stampa che, al contempo, è teso a soddisfare un interesse collettivo all’informazione[i], divenendo oggetto di un servizio pubblico, erogato dalla PA, per il tramite del concessionario preposto.
Capita, spesso, che la libertà di informare – id est diritto di cronaca – si trovi a travalicare i confini di un fondo contiguo, sul quale riposa un diverso valore della persona, meritevole delle medesime tutele, quale quello del diritto di difende il proprio credito sociale da accuse diffamatorie; in tal caso, sarà compito del giudice comprendere quando il superamento dei limiti possa configurare un’occupazione abusiva del diritto di cronaca, integrando il reato di diffamazione di cui all’art. 595 c.p., ovvero quando si è in presenza di un legittimo esercizio del diritto ex art. 51 c.p.
In realtà, per lungo periodo, in Italia, il diritto di stampa ha goduto di una certa immunità e, solo recentemente, la dottrina ha avviato un vero processo di erosione, già cominciato in altri ordinamenti, come quello nordamericano, nel lontano 1964, in cui per la prima volta veniva riconosciuta l’esistenza di un illecito civile per «false light in the public eye»[ii].
Ebbene, attese le evidenti esigenze di bilanciare l’aspirazione alla libertà di informazione con quella alla difesa della sfera intima di ogni individuo, ha condotto la giurisprudenza a ricercare dei limiti al diritto di cronaca, affinché rispettati questi, possa qualificarsi come scriminante l’eventuale antigiuridicità della condotta del giornalista.
Il processo interpretativo della giurisprudenza è stato lungo e tortuoso ma, nel 1984, ha condotto ha un singolare esito, in quanto, per la prima volta, si giunse ad un concordato giurisprudenziale tra le Sezioni Unite penali ( n. 8959) e la prima Sezione Civile (n. 5259), in cui quest’ultima è passa alla storia per aver fornito il “decalogo del giornalista”: in sostanza, al suo interno vengono indicati i limiti a cui il giornalista deve attenersi nell’esercizio del diritto di cronaca, cosicché le condizioni rispettate legittimano e scriminano, rendendo prevalente la libertà di informazioni rispetto ai contrapposti diritti.
Tali requisiti vengono indicati quali pertinenza; la verità putativa dei fatti narrati; la continenza delle espressioni adottate: “rispettate queste tre condizioni, il diritto all’onore sarà sempre recessivo rispetto alla libertà di manifestazione del pensiero” [iii].
La prima regola che viene in rilievo è la pertinenza (detta anche regola della rilevanza), secondo la quale i fatti divulgati devono essere d’interesse pubblico o, più precisamente, è necessaria l’utilità sociale dell’informazione, dovendo i fatti risponde ad un bisogno di essere informati della collettività[iv].
Procedendo con l’esplicazione, la seconda regola dalla quale dipende la prevalenza del diritto di cronaca è la verità dei fatti narrati, la quale assume una duplice declinazione in relazione alla pubblicazione della notizia: infatti, da un lato, il giornalista è onerato del compito di fornire fatti obiettivamente veri o quantomeno tali rispetto alla fonte da cui la notizia è tratta; al contempo, però, l’autore dell’articolo deve valutare che “ogni accostamento di notizie vere può considerarsi lecito se esso non produce un ulteriore significato che le trascenda e abbia autonoma attitudine lesiva”[v].
Va ricordato, poi, che affinché possa dirsi rispettato il limite della verità putativa, si necessita della ricorrenza di due elementi, l’uno oggettivo e l’altro soggettivo: anzitutto, dal punto di vista oggettivo, allo scrittore i fatti devono apparire “non manifestamente implausibili”; sul versante soggettivo, deve, poi, apparire che il giornalista abbia compiuto uno sforzo diligente nella ricerca della verità, utilizzando come parametro la diligenza esigibile dal giornalista medio, secondo la previsione dell’art. 1176, comma 2, c.c.; solo se a qualsivoglia giornalista mediamente attento le notizie appariranno verosimili, allora, lo scrittore sarà scriminato.
In conclusione, per la consolidata giurisprudenza “il rispetto della verità putativa non può dirsi sussistente sol perché l’autore abbia riferito di fatti appresi da una fonte giudiziaria, poliziesca od amministrativa. Sussiste solo se l’autore riferisca donde abbia appreso quei fatti; non taccia fatti connessi o collaterali di cui sia a conoscenza; non ricorra ad insinuazioni allusive con riferimento ai fatti riferiti; si attivi con zelo e prudenza nel vagliare la verosimiglianza dei fatti riferiti”[vi].
Infine, la terza condizione del decalogo richiede che i fatti divulgati vengano necessariamente esposti con correttezza formale del linguaggio, evitando che “un fatto storico si tramuti in uno strumento di lesione degli altrui diritti”[vii].
È il requisito cd. della continenza verbale, la quale ricerca una narrazione improntata verso una serietà espositiva, epurata da termini denigratori o dispregiativi e tesa alla chiarezza del linguaggio che evita giochi subdoli di parole ambivalenti, suggestionanti o un di “sottinteso sapiente”: “ed infatti uno scritto allusivo od insinuante, anche quando fondato su fatti veri, può riuscire in concreto molto più pernicioso per l’onore altrui rispetto ad uno scritto vituperoso, giacché mentre questo sollecita il riso, quello suscita il dubbio, che molto più del primo corrode la reputazione di chi ne sia investito”[viii]. Ovvero, per dirla col Poeta, quando “de’ suoi detti il vero, da chi l’udiva in altro senso è torto” (T. Tasso “La Gerusalemme Liberata”).
Illustrati i limiti a cui soggiace il diritto di cronaca, la giurisprudenza ha avuto, poi, cura di graduarli in relazione alle diverse attività che concretamente il giornalista pone in essere.
Difatti, allorquando il diritto di manifestazione del pensiero assume la curvatura di diritto di critica, le tre condizioni suesposte verranno diversamente bilanciate, essendo consentito, in questo caso, esporre fatti senza l’obiettività richiesta per il diritto di cronaca.
Diversamente, quando il giornalista decide di voler dar voce alla storia passata, non avrà necessità di urgenza e, pertanto, gli sarà richiesto una scrupolosa ricerca del requisito della verità, che non potrà subire affievolimenti (come spiega Cass. 2016, n. 6784 potrebbe accadere nel diritto di cronaca, quando si è innanzi ad una impellenza).
Infine, un ultimo caso che presenta un diverso dosaggio nella composizione dei limiti del decalogo è il diritto di satira, il quale nato sul paradosso e l’ironia, vuole suscitare riso e ilarità, sottraendosi così, legittimamente, dal raccontare fatti veri[ix].
Quindi, da quanto detto, se ne ricava che il reato di diffamazione a mezzo stampa previsto dall’art. 595, comma 3, c.p. potrà considerarsi scriminato dall’esercizio legittimo del diritto, ogni qualvolta ricorrano i tre limiti al diritto di cronaca, cosicché, l’attività del giornalista prevarrà lecitamente sugli altri interessi in giuoco.
È necessario, a quest’ultimo riguardo, scrutare le possibili conseguenza che si ingenerano nel momento in cui i presupposti in questione vengano violati.
In questo senso, sul piano penalistico, tra le conseguenze prospettabile, vi è la configurazione del reato di diffamazione.
Ebbene, in caso di lesione all’onore e alla reputazione, la celebrazione di un procedimento penale a cui è inevitabilmente connesso uno strepitus fori, non è sempre conveniente per la vittima, la quale potrebbe ritenere più vantaggioso agire in sede civile, per chiedere il ristoro dei danni.
Anzitutto, è indubitabile che in tema di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. per lesione della reputazione personale, la condotta asseritamente diffamatoria della persona “non vada valutata […] in riferimento alla considerazione che ciascuno ha della sua reputazione, bensì come effettiva lesione dell’onore e della reputazione di cui la persona goda tra i consociati” [x].
Inoltre, occorre precisare che, differentemente dalla tutela penalistica che protegge la mera lesione arrecata al bene giuridico dell’onore, in sede civilistica, il danno all’onore e alla reputazione non trova risarcibilità in re ipsa ma acquistano rilievo le conseguenza percettibili di tale lesione.
Da ciò ne consegue che, la configurazione del danno non patrimoniale, intesa come conseguenza pregiudizievole di una lesione suscettibile di essere risarcita dovrà essere oggetto di allegazione e prova, anche per presunzioni semplice[xi].
Si rammenti, poi, che oltre la richiesta di risarcimento danni, il soggetto leso potrà agire ai sensi dell’art. 12 della L. 47 del 1948, il quale prevede oltre il risarcimento del danno non patrimoniale, l’aggiunta di una somma a titolo di riparazione, commisurata alla gravità dell’offesa e al grado di diffusione dello stampato; siamo innanzi ad un chiaro caso di danno punitivo.
Resta, infine, da individuare i soggetti responsabili che concretamente saranno tenuti a rispondere del reato e del danno arrecato.
Sul punto, la disciplina penalistica, ripudiando ogni forma di responsabilità oggettiva, riconosce come responsabile l’autore dell’articolo e, solo in via sussidiaria, ritiene ascrivile la responsabilità, ai sensi dell’art. 57 c.p., al direttore del giornale, in caso di omesso controllo e, ai sensi dell’art. 57-bis c.p., all’editore, solo quando l’autore è ignoto ovvero non imputabile.
Nell’ambito civile, invece, l’art. 11 L. 47 del 1948 prevede una responsabilità in solido tra i soggetti coinvolti a cui si applica il regime di cui all’art. 2055 c.c.: in tal senso, l’autore è responsabile soggettivamente, per dolo o colpa, così come il direttore del giornale, per aver omesso di effettuare il controllo sulla non lesività della notizia; invece, in capo all’editore si configura una responsabilità di tipo oggettivo, basata sul rischio di impresa, in quanto questi risponderà per il semplice fatto di essere proprietario della testa giornalistica.
[i] Sin dalla sentenza n. 105 del 1972, la Corte Costituzionale abbia ritenuto «esiste un interesse generale all’informazione che, quale manifestazione dei diritti propri di una democrazia».
[ii] La vicenda giurisprudenziale in questione è “New York Times Co. v. Sullivan”, 376 U.S. 254 (1964). Nel diritto inglese, la “false light” è un illecito relativo alla privacy, simile all’illecito alla diffamazione.
[iii] Cass. Civ., Sez. III, n. 27592, anno 2019.
[iv] In particolare, i fatti che generano un particolare allarme sociale (ad esempio ipotesi di reato) sono da considerarsi, nella maggioranza dei casi, di pubblico interesse, per la carica negativa che essi esprimono. In proposito si veda CGUE “Seferi Yilmaz contro Turchia” sent. 13 febbraio 2018 ove la Corte si è pronunciata a favore della rilevanza per la collettività di una notizia avente ad oggetto fatti di reato, privilegiando il diritto-dovere di informare i propri consociati a scapito del diritto alla riservatezza degli individui coinvolti, anche se poi scagionati dalle accuse.
[v] Cass. Civ., Sez. III, n. 11259, anno 2007.
[vi] Cass. Civ., Sez. III, n. 27592, anno 2019.
[vii] Cass. Civ., Sez. III, n. 17211, anno 2015.
[viii] Cass. Civ., Sez. III, n. 27592, anno 2019.
[ix] Cass. Civ., n. 21235, anno 2013, in cui viene precisato che la satira non può spingersi fino a raccontare fatti di reato non avvenuti o che suscitano il gratuito disprezzo della persona.
[x] Cass. Civ., Sez. I, n. 14447, anno 2017.
[xi] Cass. Civ., Sez. III, n. 25420, anno 2017.
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