L’obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo tra rilevanza costituzionale e concretizzazione dei principi fondamentali dell’agire della pubblica amministrazione. Un commento agli articoli 3, 10 e 10bis della legge 241/90
Ricollegandomi a quanto già esposto su questa rivista nel mio articolo “I principi fondamentali del procedimento amministrativo. Un commento all’articolo 1 della legge 241/90” ritengo che sia quanto mai utile – per le stesse ragioni che mi hanno portato a rilevare l’attualità di quell’articolo di legge – affrontare il tema, lo stesso tema a ben vedere, dei principi dell’agire amministrativo pubblico, sul fronte dell’obbligo motivazionale del provvedimento a chiusura del procedimento.
Invero gli articoli che andrebbero letti insieme e parallelamente sono due: l’articolo 3 e l’articolo 10bs.
L’art. 3 recita: <<1. Ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria. 2. La motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale. 3. Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile, a norma della presente legge, anche l’atto cui essa si richiama. 4. In ogni atto notificato al destinatario devono essere indicati il termine e l’autorità cui è possibile ricorrere>>.
Quindi – alla fine dell’iter procedimentale (qualsiasi iter procedimentale) deve esservi a. un provvedimento, b. la motivazione ad esso sottesa c. la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione e d. tali motivazioni devono “essere in relazione” alle (quindi risultare dalle) risultanze dell’istruttoria.
L’obbligo di motivazione – in fatto e in diritto – chiarisce definitivamente l’equivoco tra discrezionalità e arbitrarietà.
Tale equivoco on si risolve solo nell’“esito finale” – provvedimento – della P.A, ma è pieno e completo in tutto l’iter procedimentale, anche – e spesso soprattutto per rilevanza – nelle fasi intraprocedimentali, durante le quali si formano quelle “risultanze dell’istruttoria” cui richiama il primo comma dell’articolo tre.
Uno ha in questo senso rilevanza speciale, e fa riferimento all’articolo 10bis
L’art. 10 bis, invece, recita: <<Nei procedimenti ad istanza di parte il responsabile del procedimento o l’autorità competente, prima della formale adozione di un provvedimento negativo, comunica tempestivamente agli istanti i motivi che ostano all’accoglimento della domanda. Entro il termine di dieci giorni dal ricevimento della comunicazione, gli istanti hanno il diritto di presentare per iscritto le loro osservazioni, eventualmente corredate da documenti. La comunicazione di cui al primo periodo sospende i termini di conclusione dei procedimenti, che ricominciano a decorrere dieci giorni dopo la presentazione delle osservazioni o, in mancanza delle stesse, dalla scadenza del termine di cui al secondo periodo. Qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il responsabile del procedimento o l’autorità competente sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego indicando, se ve ne sono, i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni. In caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano alle procedure concorsuali e ai procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali. Non possono essere addotti tra i motivi che ostano all’accoglimento della domanda inadempienze o ritardi attribuibili all’amministrazione>>.
Come ha chiarito il dott. Daniele Profili, Magistrato presso il TAR del Lazio in “Decreto semplificazioni e procedimento amministrativo – il nuovo preavviso di rigetto”: Con le modifiche allo stesso apportate dal recente decreto legge n. 76/2020, convertito con modificazioni dalla legge n. 120/2020 è stata definitamente sancita la portata meramente sospensiva, e non già interruttiva, del termine di conclusione del procedimento per effetto della comunicazione del preavviso di rigetto, con nuova decorrenza dello stesso al momento della presentazione delle osservazioni da parte del privato o, in assenza, dalla scadenza dei dieci giorni previsti a tal fine. Nessuna modifica sostanziale è stata introdotta con riferimento all’obbligo dell’amministrazione di motivare in merito al mancato accoglimento delle osservazioni presentate in conseguenza del preavviso di rigetto. Obbligo dell’amministrazione di motivazione specifica e rinforzata, dovendo la stessa esplicitare in sede di provvedimento finale le ragioni per cui ha ritenuto non meritevoli di pregio le osservazioni formulate dagli istanti. La novella riconosce dunque una maggiore tutela per gli istanti destinatari di un provvedimento di segno negativo a fronte dell’esercizio di un’attività amministrativa discrezionale. Ultima, e forse più rilevante novità, è quella con cui il legislatore ha stabilito che “in caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato”. Si tratta, a ben vedere, di una disposizione con cui il legislatore ha inteso ridurre l’operatività del principio di inesauribilità del pubblico potere in sede di nuovo esercizio dello stesso a fronte di un precedente giudicato di annullamento, prevedendo ulteriori limiti per la p.a. oltre a quelli già derivanti dall’effetto conformativo della sentenza. Peraltro, la giurisprudenza amministrativa aveva già da tempo individuato i motivi ostativi comunicati con il preavviso di rigetto quale limite espresso allo jus variandi per l’amministrazione in sede di emanazione del provvedimento finale, concludendo per la sua illegittimità nel momento in cui lo stesso si fosse appuntato su nuove ragioni di fatto e di diritto. Alla richiamata limitazione procedimentale della p.a., il legislatore ha voluto espressamente affiancare un nuovo meccanismo, che inibisce lo jus variandi dell’amministrazione anche in sede di riesercizio del potere in conseguenza di un giudicato di annullamento. L’entrata in vigore del codice del processo amministrativo la giurisdizione amministrativa ha effettuato un sostanziale salto di qualità, svincolandosi dall’attività di mera verifica cartolare sulla legittimità del provvedimento, a fronte dell’esperimento da parte dei privati dell’azione tipica, e per molti anni esclusiva, dell’annullamento degli atti gravati, per vestire così le spoglie della giurisdizione piena e, in quanto tale, dotata di un ventaglio di azioni non più rigidamente tipizzato e perciò in grado di garantire, pressoché in ogni circostanza, l’effettività della tutela delle situazioni soggettive vantate dai consociati. In un contesto di tal fatta, appare evidente come risulti essere essenziale porre dei confini invalicabili all’amministrazione nella riedizione della sua attività a fronte di un giudicato di natura caducatoria, consentendo al privato di non vedersi negato il bene della vita anelato sine die sulla scia di una pressoché infinita sequenza di giudicati di annullamento favorevoli e riedizioni del potere di segno negativo. Da quanto statuito, invero, si evince come nei procedimenti amministrativi avviati su istanza di parte, una volta conclusa la fase istruttoria e comunicate dall’amministrazione le eventuali ragioni ostative all’accoglimento della domanda, la stessa non possa più utilizzare elementi già emersi in sede istruttoria a sostegno di un eventuale ed ulteriore provvedimento di segno negativo. Ulteriore aspetto interessante è rappresentato dalle conseguenze derivanti dalla mancata osservanza del nuovo art. 10 bis da parte dell’Amministrazione. Ci si chiede, pertanto, se l’agire in contrasto alle disposizioni ivi contenute possa determinare, in sede di successivo vaglio giurisdizionale, la sussistenza di un vizio di legittimità per violazione di legge, oppure se tale circostanza possa addirittura essere ricondotta nel campo della nullità e, in tal caso, se a venire in rilievo possa essere un difetto assoluto di attribuzione per carenza di potere piuttosto che un’ipotesi di contrasto con il giudicato. Sul punto, occorre in primo luogo precisare come pacifica giurisprudenza amministrativa ritiene che il giudizio conseguente alla riedizione del potere amministrativo possa essere incardinato avvalendosi del rito dell’ottemperanza: certamente è il giudice dell’ottemperanza cui spetta statuire in merito all’eventuale nullità dell’agere amministrativo in caso di rilevato contrasto tra quest’ultimo ed il precedente giudicato. Né meritevole di pregio risulta essere l’ipotesi della configurabilità di una nullità del provvedimento emesso in violazione delle nuove statuizioni di cui all’art. 10 bis della legge n. 241/90. Ciò nella considerazione che, nel caso di specie, non sembrano ravvisabili i profili tipici della carenza di potere in astratto, venendo semmai in rilievo una carenza di potere in concreto, attesa la sussistenza del potere in origine attribuito dalla legge all’amministrazione che, per vero, subisce una sua graduale compressione derivante dal sopravvenuto cattivo uso dello stesso in sede procedimentale.
Il legislatore intende rendere quanto mai pervasivo il dialogo tra pubblica amministrazione e privato, e non è un caso che la relazione della Commissione Affari Costituzionali del Senato in sede deliberante, si riferisce esplicitamente ad “un ulteriore canale di comunicazione tra le parti precedente alla decisione finale”.
Per usare le parole del Tarullo: “Il congegno disciplinato dall’art. 10 bis conferma insomma l’impressione che l’iter procedimentale sia destinato ad assumere in modo sempre più marcato le vesti di strumento istituzionalizzato di comunicazione tra il detentore della funzione e (quantomeno) il destinatario di essa”
Il Tarullo ha messo in evidenza come nell’art. 10 bis i due aspetti – garantistico e collaborativo – della partecipazione del privato al procedimento appaiono intimamente connessi. Infatti, nel preavviso di rigetto viene salvaguardata la garanzia del privato a conoscere il perché dell’operato della pubblica amministrazione, ma soprattutto la partecipazione appare funzionale a che il privato collabori all’esercizio del potere, nella forma della presentazione di osservazioni e nella rappresentazione di fatti ed interessi. È chiaro che dal punto di vista dei principi, il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione vengono valorizzati dalla possibilità di un fattivo contraddittorio, dalla partecipazione collaborativa, da uno scambio doveroso di informazione, quanto più possibile completo e continuo tra pubblica amministrazione e cittadino istante.
La rilevanza dell’obbligo di tener conto di tutto quanto dal privato proposto e non solo parzialmente è da ultimo (in ordine cronologico) stato evidenziato dalla Cassazione (ordinanza n. 23666/2023) anche in materia tributaria stabilendo che qualora il contribuente, che agisca per il rimborso di tasse o diritti non dovuti, eccepisca che documenti comprovanti il pagamento, o la richiesta di rimborso, siano in possesso dell’amministrazione, questa è tenuta a pronunciarsi in modo specifico e motivato sul punto, perché, in difetto, il giudice potrà desumere elementi di prova da tale comportamento.
Prima dell’entrata in vigore della Legge 241 del 1990, il procedimento amministrativo aveva carattere autoritario: l’istruttoria era considerata un’attività unilaterale ed interna della pubblica amministrazione dalla quale era escluso il destinatario del provvedimento finale.
Il cittadino, di conseguenza, era considerato un soggetto passivo dell’azione amministrativa.
Feliciano Benvenuti elaborò il concetto secondo il quale il cittadino, oltre ad essere amministrato, deve poter assumere anche il ruolo di “coamministrante”, attraverso una piena partecipazione alla formazione del provvedimento amministrativo che incide nella propria sfera giuridica.
I principi richiamati dalla legge 241 hanno piena rilevanza costituzionale in concreto.
Il confronto costruttivo in sede d’istruttoria concretizza il principio di “buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione” ex art. 97, Cost. Lo sviluppo della personalità dell’individuo ex art. 2, Cost., e la sua crescita sociale, avviene anche attraverso la partecipazione all’organizzazione amministrativa del Paese. L’effettività del “principio di democrazia” (art. 3, Cost.) si realizza, in particolar modo, con la partecipazione dell’individuo ai processi decisionali della pubblica amministrazione, al punto che la dottrina consolidata sottolinea il passaggio dalla semplice democrazia formale al concetto di “democrazia partecipata”. Il “diritto di difesa” di cui all’art. 24, Cost. si espande, nel suo raggio d’azione, anche all’istruttoria amministrativa, in quanto il soggetto partecipante può, da subito, preparare una linea difensiva nei confronti di future determinazioni illegittime della pubblica amministrazione.
Come ha giustamente commentato Fortuna Di Chio: L’articolo 10, comma 1, della suddetta legge, sancisce il diritto dei destinatari del provvedimento amministrativo finale, e di coloro ai quali possa derivare un pregiudizio diretto, di partecipare al relativo procedimento con il duplice scopo di collaborazione e difesa. Per quanto riguarda l’aspetto collaborativo, il privato arricchisce l’istruttoria, con l’apporto di nuovi elementi fattuali, e rileva bisogni, risorse, interessi pubblici o privati, sconosciuti fino a quel momento dall’amministrazione procedente. Oppure, prospetta delle soluzioni alternative e più efficaci rispetto a quelle verso le quali è indirizzata la pubblica amministrazione. L’aspetto difensivo e di garanzia si realizza in quanto il cittadino presenta osservazioni, in merito a determinazioni che ritiene illegittime o inopportune, che, lì dove fossero condivise dall’autorità amministrativa procedente, potrebbero evitare futuri ricorsi amministrativi e giudiziari. In tal caso si anticipa il contraddittorio, che avverrebbe in sede processuale, contribuendo alla c.d. deflazione del contenzioso.
L’articolo 10, comma 1, let. b), prevede, inoltre, l’obbligo di valutare nella fase istruttoria tutti gli apporti dati dal privato, purché siano pertinenti all’oggetto del procedimento.
Secondo la giurisprudenza costante, la pubblica amministrazione, lì dove dovesse ritenere non pertinenti le allegazioni dei privati, non potrà omettere il loro richiamo nella motivazione, ma dovrà specificare le ragioni per le quali sono state ritenute non utilizzabili ai fini decisori.
È evidente, infatti, che il nostro legislatore imponga la trasparenza nell’istruttoria amministrativa, affinché il cittadino comprenda l’iter decisionale seguito dalla pubblica amministrazione.
Eppure, sovente accade che, nel discorso motivazionale, l’amministrazione decidente non consideri, in alcun modo, le allegazioni presentate dai privati in sede istruttoria [cfr. T.A.R. Marche, 08/11/2010, n.3371: “la ricorrente, ricevuta la comunicazione di avvio del procedimento, aveva presentato le proprie osservazioni…” e “…di tali osservazioni non vi è alcuna traccia né nel provvedimento impugnato né nella presupposta relazione istruttoria”].
Oppure non proceda, in modo adeguato, alla confutazione delle argomentazioni, di fatto e di diritto, presentate dai soggetti secondo il principio di partecipazione e di trasparenza [cfr T.A.R. Puglia Lecce, Sezione Terza, 06.05.2010, n. 1085, secondo cui il provvedimento amministrativo deve indicare al destinatario le ragioni sottese alla determinazione assunta “ previa confutazione delle ragioni dallo stesso eventualmente presentate nell’ambito della partecipazione al procedimento”].
In alcuni casi, addirittura, la motivazione del provvedimento amministrativo si limita ad una semplice affermazione stereotipata del tipo “visto le osservazioni presentate”.
Lo strumento giuridico, attraverso il quale si possono rilevare queste gravissime carenze istruttorie, a danno dei partecipanti al procedimento amministrativo, è la motivazione del provvedimento finale [cfr. T.R.G.A. Trento, 24.11.2010, n. 226 “…la motivazione del provvedimento amministrativo è il veicolo attraverso il quale il destinatario dell’atto è posto in condizione di conoscere le ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a provvedere in un determinato senso”. Nel caso di specie, la commissione edilizia ha disposto il pagamento di una sanzione pecuniaria, a carico della proprietaria di una casa sita nel comune di Moena, sostenendo che l’erker realizzato sull’immobile fosse contrastante con il tessuto edilizio circostante. La donna, attraverso una documentazione fotografica fornita in sede d’istruttoria amministrativa, aveva dimostrato che l’erker fosse una struttura tipica delle case situate nella zona, in quanto molto diffusa su quel territorio. Invece, tale dato fattuale è stato ignorato dall’amministrazione comunale, come si evince dalla motivazione del provvedimento sanzionatorio. – Vedi anche T.R.G.A. Trento, 08.07.2008, n. 162.]
L’articolo 3 come abbiamo visto impone che la motivazione riporti i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno indotto la pubblica amministrazione ad adottare una determinata decisione finale, rispetto ad altre soluzioni possibili, in relazione alle risultanze dell’istruttoria.
La motivazione del provvedimento amministrativo, quindi, non può tradire l’istruttoria.
I presupposti di fatto, intesi come elementi e dati di fatto acquisiti in sede d’istruttoria, e le ragioni giuridiche sono veri e propri elementi strutturali ed essenziali della motivazione: se uno di questi fosse mancante o fosse indicato in modo incompleto o incerto, in relazione alle risultanze istruttorie, la motivazione non sarebbe conforme all’articolo 3 della legge 241/90.
Ne deriva, con ciò, che il provvedimento amministrativo è suscettibile d’annullamento per violazione di legge, in quanto contrasta col modello contenutistico legale ex art. 3, della Legge n. 241/1990.
La legge 241/1990 infatti all’art. 21-octies, comma 1, stabilisce che “È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere” [cfr. T.A.R. Marche, 08/11/2010, n.3371, secondo cui il vizio della motivazione “sussiste non già in assoluto (ossia nella forma della totale mancanza degli elementi da cui si possano evincere le ragioni che hanno indotto l’Amministrazione a determinarsi nel senso avversato dalla ricorrente), ma in relazione a quanto stabilito dall’art. 3 della L. n. 241/1190”].
Questo orientamento considera la motivazione incompleta nei propri elementi strutturali un difetto di motivazione (il riferimento è ovviamente alla motivazione –contenuto) alla stregua di una motivazione mancante (intesa come la mancanza della motivazione –testo). [cfr T.A.R. Marche, cit., secondo cui il difetto di motivazione è inteso “anche in relazione all’omessa valutazione delle argomentazioni contenute nella memoria che la ricorrente ha presentato a seguito della ricezione della comunicazione di avvio del procedimento”.]
Al contrario, se la motivazione si presenta completa, ma sono ravvisabili altri vizi motivazionali, come l’illogicità e contraddittorietà, allora il provvedimento finale sarà annullabile per eccesso di potere.
È doveroso richiamare anche la sentenza del 5 Novembre 2010, n. 310, della Corte Costituzionale, che ha fortemente ribadito l’importanza della motivazione nei provvedimenti amministrativi a carattere discrezionale, poiché consente al giudice di comprendere il procedimento logico seguito dall’autorità amministrativa e verificare la legittimità dell’atto.
Altro argomento riguarda l’insussistenza del rischio di favorire provvedimenti scarsamente motivati, in quanto, in caso di motivazione postuma, deriverebbe la soccombenza della pubblica amministrazione sul piano delle spese processuali e quindi sorgerebbe la responsabilità amministrativa a carico dei funzionari.
Anche su questo caso è utile rifarsi ad un commento – quanto mai lungimirante se si pensa essere risalente al 2011 – di Fortuna Di Chio: “In tal caso ritengo opportuno rilevare come, nonostante le norme sui controlli interni, affidati ad organismi indipendenti, quelle sulla responsabilità dirigenziale e sulla valutazione della performance nel pubblico impiego, non si riesce sempre a raggiungere un livello ottimale di efficienza, buon andamento ed imparzialità nella pubblica amministrazione, giacché il monitoraggio interno rimane, in molti casi, purtroppo, solo un’attività formale.”
L’attività amministrativa è manifestazione di un potere pubblico, che penetra negli spazi individuali del singolo cittadino.
È fondamentale che gli organi amministrativi favoriscano un contraddittorio democratico e partecipativo con i soggetti coinvolti nei processi decisionali pubblici.
Inoltre, è necessario che il contenuto di questo dialogo, con l’autorità decidente, abbia una collocazione idonea a renderlo accessibile e controllabile dagli stessi protagonisti ed eventualmente dagli organi giudiziari.
L’unico strumento giuridico, adatto a questa finalità, è la motivazione.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
Listed in ROAD, con patrocinio UNESCO
Copyrights © 2015 - ISSN 2464-9775
Ufficio Redazione: redazione@salvisjuribus.it
Ufficio Risorse Umane: recruitment@salvisjuribus.it
Ufficio Commerciale: info@salvisjuribus.it
***
Metti una stella e seguici anche su Google News