L’obbligo giuridico del ristoratore di tutelare l’incolumità fisica del cliente
Sommario: 1. Introduzione – 2. La vicenda – 3. I motivi di ricorso – 4. La pronuncia della Cassazione
1. Introduzione
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9997/20 del 28 maggio 2020, è recentemente intervenuta in punto di responsabilità del ristoratore per i danni occorsi all’incolumità degli avventori all’interno del ristorante, fornendo spunti interessanti sulle peculiarità del contratto di ristorazione e su talune questioni giuridiche connesse.
2. La vicenda
La vicenda su cui si è pronunciata la Suprema Corte traeva origine da un giudizio civile instaurato dai genitori di una bambina che, all’interno del ristorante di proprietà del convenuto, subiva ustioni dopo essere stata colpita da una pizza rovente caduta dal vassoio di un cameriere, a sua volta urtato da un bambino che correva all’interno del ristorante con la propria comitiva.
All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale dava ragione ai gestori della tavola calda, inquadrando lo scontro tra il vivace bambino e la cameriera come caso fortuito escludente la responsabilità del personale del ristorante.
Nel giudizio di appello, invece, la Corte riteneva provata la responsabilità dei ristoratori, non avendo gli stessi adottato le cautele opportune: costoro, non appena notate le intemperanze del turbolento gruppo di ragazzi, avrebbero dovuto infatti impedire la prosecuzione di tali comportamenti all’interno del locale e di mettere così in pericolo l’incolumità dei clienti.
La Corte d’Appello inquadrava quindi la responsabilità del ristoratore nell’alveo della responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c., essendo stato stipulato tra il cliente ed il gestore dell’attività un contratto da cui derivava l’obbligo giuridico, tra gli altri, di tutelare la salute degli avventori.
3. I motivi di ricorso
La difesa del ristoratore proponeva ricorso in Cassazione chiedendo la riforma della sentenza emessa dalla Corte territoriale adducendo, quali preminenti motivazioni, quelle che seguono.
Con il primo motivo, il gestore del ristorante assumeva anzitutto l’errata qualificazione della responsabilità in capo al convenuto: la difesa riteneva che sussistesse una responsabilità di natura aquiliana ai sensi dell’art. 2043 c.c. Il contratto di ristoratore – concluso per comportamenti concludenti tra cliente e ristoratore – avrebbe infatti ad oggetto unicamente la fornitura da parte del ristoratore di cibi e bevande, con la conseguenza che l’infortunio occorso nel ristorante al cliente rimane estraneo alle obbligazioni sorte con il contratto in esame in quanto configura il danno derivante da un puro e semplice illecito extracontrattuale.
Da tale considerazione, come noto, discendono importanti ripercussioni giuridiche, quali il più breve termine di prescrizione che caratterizza la responsabilità contrattuale (cinque anni a fronte del termine decennale della responsabilità contrattuale) e, soprattutto, un onere probatorio in capo all’attore più gravoso, dovendo egli provare tutti gli elementi costitutivi del fatto (quali la condotta del danneggiante, il nesso causale tra quest’ultima e il danno, il danno, l’imputabilità soggettiva).
Ancora, il ricorrente rilevava che, indipendentemente dalla natura giuridica della responsabilità gravante sul ristoratore, la Corte d’Appello aveva erroneamente applicato le regole sul nesso causale, poiché il fatto del terzo – la collisione del bambino vivace contro il cameriere – integra un’ipotesi di caso fortuito che interrompe il nesso di causalità tra la condotta del ristoratore ed il danno patito dall’avventore.
4. La pronuncia della Cassazione
Con riferimento alla natura della responsabilità in capo al ristoratore, veniva anzitutto confermata dalla Suprema Corte la lettura operata dalla Corte d’Appello: il cliente del ristoratore conclude per facta concludentia con il cliente un contratto di ristorazione (rientrante nel genus del contratto d’opera) con il quale “il creditore affida la propria persona alla controparte, esattamente come avviene nei contratti di albergo o di trasporto” e, pertanto, ciò è sufficiente per far sorgere l’obbligo gravante sul gestore del ristorante di tutelare l’integrità fisica di coloro che intendono consumare un pasto all’interno del ristorante: tale dovere giuridico, infatti, non è altro che un effetto naturale del contratto ai sensi dell’art. 1374 c.c. L’affidamento che il cliente fa della propria persona al ristoratore, oltretutto, è secondo gli Ermellini espressione del diritto di matrice costituzionale di cui all’art. 32 Cost. (diritto alla salute).
Ciò premesso, si comprende come il contratto di ristorazione richieda prestazioni ulteriori rispetto alla semplice somministrazione di pietanze e bevande, in presenza della quale si potrebbe parlare unicamente di compravendita di prodotti alimentari. Da siffatta analisi discende che l’inosservanza di tale profilo comporta il mancato assolvimento ad obblighi di natura contrattuale, con conseguente inadempimento contrattuale ed obbligo di risarcire il danno.
In relazione al profilo del caso fortuito – che, come abbiamo visto, costituiva l’ulteriore motivo dedotto dalla difesa del ristoratore a fondamento dell’interruzione del nesso causale tra la condotta del convenuto e il danno patito dall’attore – la Cassazione sposta l’attenzione sull’elemento della colpa.
Secondo gli Ermellini, infatti, il fatto che il danno sia stato cagionato direttamente dal cameriere (danno corpore corpori illatum) non pone problemi di valutazione tanto del caso fortuito quanto, invece, impone un’analisi di accertamento sull’elemento colposo, dovendo operarsi una disamina sulla possibilità per il convenuto di prevenire il fatto dannoso operando con l’ordinaria diligenza. La Cassazione, al pari della Corte d’Appello, rileva quindi che il fatto del terzo ben può integrare gli estremi del caso fortuito, che non esclude però la colpa dell’autore del danno se la condotta del terzo sia prevedibile od evitabile. Dirimente diviene a questo punto l’accertamento in concreto della prevedibilità e dell’evitabilità dell’evento dannoso, che non può invece presumersi in astratto come erroneamente assunto dalla Corte d’Appello: quest’ultima, infatti, si limitava ad accertare il fatto e a rilevare che l’evento dannoso dovesse considerarsi automaticamente prevedibile ed evitabile visto lo stato di esagitazione della comitiva presente nel ristorante, senza però accertare circostanze fattuali decisive a determinare la prevedibilità dell’evento dannoso e l’evitabilità da parte del ristorante (circostanze quali le modalità concrete della condotta osservata sia dal bambino che dal cameriere, il protrarsi delle turbolenze della comitiva, l’eventuale presenza di precedenti richiami del personale ecc.).
Il Giudice di secondo grado ha quindi erroneamente applicato le norme ex artt. 1218 e 1176 c.c., omettendo di valutare in concreto il profilo della colpa (con contestuale prevedibilità ed evitabilità dell’evento) e, in particolare, “se il professionista medio (e dunque, nella specie, il ristoratore ‘medio’, di cui all’art. 1176 c.c., comma 2) potesse con la diligenza da lui esigibile prevedere quel che sarebbe poi accaduto” e se “il professionista medio (e dunque, nella specie, il ristoratore ‘medio’, di cui all’art. 1176 c.c., comma 2), potesse concretamente adottare condotte diverse, e salvifiche, rispetto a quella effettivamente tenuta”.
Attesa la mancata indagine in concreto della Corte territoriale sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento – e, quindi, sull’imputabilità dell’evento al ristoratore, che come abbiamo visto ha l’obbligo sorto da contratto di prevederlo od evitarlo – la Cassazione cassava con rinvio la sentenza della Corte d’Appello.
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Mattia Cesena
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