Locazione commerciale o affitto d’azienda? La Cassazione fa chiarezza

Locazione commerciale o affitto d’azienda? La Cassazione fa chiarezza

Nel linguaggio corrente non è insolito che i termini “locazione” ed “affitto” vengano utilizzati come fossero sinonimi, eppure le differenze tra le due fattispecie contrattuali in parola non sono poche e, anzi, la riconducibilità di uno schema contrattuale ad una delle due fattispecie è gravida di rilevanti conseguenze sul piano pratico. Prendiamo in considerazione il caso della locazione/affitto di un bene produttivo.

Sebbene in astratto la differenza tra locazione di un immobile ad uso non abitativo ed affitto di un’azienda (di cui faccia parte un immobile) appare piuttosto netta – la prima ha come scopo il godimento statico e come oggetto l’immobile in quanto tale; il secondo, viceversa, riguarda un complesso di beni organizzato per l’esercizio di un’attività di impresa e si prospetta, quindi, come una forma di godimento dinamico – nella pratica spesso non è facile, soprattutto quando oggetto del contratto è un bene che ha una naturale vocazione produttiva (pensiamo ad un supermercato), accertare se le parti abbiano concluso un contratto di locazione o di affitto[1].

Come sopra accennato, le conseguenze della riconducibilità di uno schema contrattuale a questa o quella fattispecie comporta conseguenze non indifferenti, poiché dalla qualificazione di una specifica vicenda contrattuale in termini di locazione commerciale ovvero di affitto di beni produttivi discende l’applicabilità o meno della disciplina vincolistica della c.d. legge sull’equo canone.

La disciplina del contratto di locazione di beni produttivi è infatti contenuta quasi integralmente nella l. 392/1978, nell’ambito della quale il Capo II del Titolo I è appunto dedicato alla «Locazione di immobili urbani ad uso diverso da quello di abitazione», con un complesso organico di disposizioni che attengono a questa tipologia di contatti. Tale modello di regolamentazione appare espressione di una politica del diritto volta a conformare imperativamente il contenuto dell’atto di autonomia privata in vista di esigenze di tutela di una delle parti del contratto e, più in generale, dell’attività economica svolta dal conduttore. Tale risultato viene conseguito per un verso mediante la previsione di disposizioni imperative inerenti la determinazione della durata del rapporto locativo e, per altro verso, mediante la prescrizione, a norma dell’art. 79, della nullità dei patti tramite i quali è attribuito al locatore “altro vantaggio in contrasto con le disposizioni della presente legge”. Per effetto di tale disposizione, al di là delle norme che già esplicitamente rivestono il carattere della inderogabilità, tutte le previsioni della l. 392/1978, laddove individuano diritti ed obblighi delle parti contraenti, anche se in apparenza esprimono regole meramente dispositive, vengono ad assumere il connotato della inderogabilità relativa, in quanto l’assetto di interessi per loro tramite delineato vale ad individuare una regola insuscettibile di essere modificata a vantaggio del locatore, pena la nullità della relativa pattuizione e la sostituzione con la regola tratta dallo schema legale[2].

Alle parti viene riconosciuta piena autonomia quanto alla determinazione del canone di locazione che, una volta pattiziamente fissato, è tuttavia insuscettibile di aggiornamenti in misura diversa da quella prevista nell’art. 32.  Il vero e proprio elemento caratterizzante della disciplina delle locazioni commerciali del 1978 è la previsione di una durata minima del contratto (sei anni; nove nel caso di locazione alberghiera) imposta dal legislatore (art. 27). A ciò si accompagna il sistema del primo rinnovo automatico, nel silenzio, del rapporto per analoghi periodi, con impossibilità di disdetta semplice solo al termine del primo periodo[3]. L’art. 28, infatti, prescrive che il contratto si rinnovi automaticamente di sei anni in sei anni ovvero di nove anni in nove anni se non viene intimata disdetta nel rispetto di un termine perentorio di preavviso (rispettivamente di dodici o diciotto mesi) prima della scadenza[4]. La medesima norma precisa che alla prima scadenza contrattuale il locatore può esercitare la facoltà di disdetta “soltanto per i motivi di cui all’art. 29 con le modalità ed i termini ivi previsti”, mentre l’art. 29 enumera i “motivi” che soli possono giustificare il diniego di rinnovo, specificando altresì le modalità nel rispetto delle quali il locatore può esercitare la facoltà di diniego. Si tratta, a bene vedere, di una disciplina di particolare rigore, nella quale la incisiva limitazione della possibilità per il locatore di recedere alla prima scadenza del rapporto contrattuale è accompagnata da prescrizioni di decadenze e di nullità.

Ciò premesso, è di tutta evidenza che la questione relativa alla distinzione tra le fattispecie della locazione commerciale e dell’affitto d’azienda è per l’interprete di non secondaria importanza. La giurisprudenza della Suprema Corte ha nel tempo elaborato taluni criteri distintivi, onde orientare l’interprete nell’anzidetta opera di qualificazione/distinzione tra i due menzionati istituti. A tal fine la giurisprudenza guarda essenzialmente al rilievo assunto dall’immobile, nell’economia complessiva del contratto, alla luce della considerazione delle parti: se esso assume ruolo prevalente ed assorbente rispetto agli alti elementi, i quali invece rivestono un ruolo subordinato ed accessorio, si avrà locazione; qualora, invece, oggetto del contratto è un’entità più vasta, di cui l’immobile è solo una componente, seppur principale, dovrà parlarsi di affitto di azienda[5]. In altre parole nell’affitto d’azienda l’immobile, che ne faccia parte, non viene considerato nella sua individualità e specificità, ma solo come uno degli elementi del complesso produttivo dei beni, legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà funzionale al perseguimento delle finalità produttive dell’impresa[6].

Di grande importanza e chiarezza è la sentenza del 27 giugno 2002, n. 9354, della Corte di Cassazione, la quale ribadisce il “principio di diritto, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Supremo Collegio, secondo cui la differenza tra locazione di immobile con pertinenze e affitto di azienda consiste nel fatto che, nella prima ipotesi, l’immobile concesso in godimento viene considerato specificamente, nell’economia del contratto, come l’oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva, con funzione prevalente ed assorbente rispetto agli altri elementi, i quali (siano essi legati materialmente o meno all’immobile) assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all’immobile funzionalmente, in posizione di subordinazione e coordinazione. Nell’affitto di azienda, invece, l’immobile non viene considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso di beni mobili ed immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e complementarità per il conseguimento di un determinato fine produttivo, sicché l’oggetto del contratto è costituito dall’anzidetto complesso unitario”.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, “i contraenti non avevano evidenziato alcun legame funzionale tra i beni dedotti, ma si erano limitati a fare un mero elenco di essi, del tutto anodino” e tale “elencazione dei beni non risultava legata funzionalmente ad alcun tipo di attività produttiva, tanto che il contratto non consentiva in alcun modo di cogliere quale fosse in concreto l’attività industriale che veniva definita ‘ramo di azienda’, mentre se le parti avessero realmente considerato in maniera unitaria i beni mobili e immobili per il conseguimento di un determinato fine produttivo, ne avrebbero necessariamente specificato la destinazione”. La Cassazione concludeva, dunque, per la qualificazione del contratto in termini di locazione commerciale, con conseguente applicazione della disciplina imperativa contenuta nella legge sull’equo canone.


[1] Cfr. Rando D., Affitto d’azienda, in Codice delle locazioni a cura di Mario Trimarchi, I ed., Giuffrè, Milano, 2010, p. 646.
[2] Cuffaro V., Le locazioni non abitative, in Trattato dei Contratti di Vincenzo Roppo, II, Cessione e uso dei beni, Giuffrè, Milano, 2014, p. 1093 ss.
[3] Giove S., Locazioni ad uso diverso dall’abitazione, in I contratti di utilizzazione dei beni a cura di Vincenzo Cuffaro, Utet, Torino, 2008, 196 ss.
[4] L’imperatività della disposizione di cui all’art. 28 è stata affermata in termini espliciti anche dalla giurisprudenza. A titolo esemplificativo, la Corte d’Appello di Napoli, in una sentenza del 26 aprile 2005, ha chiarito che tra le norme imperative della disciplina delle locazioni commerciali “deve ricomprendersi quella di cui all’art. 28 della legge 27 luglio 1978, n. 392, per la quale, in difetto di tempestiva disdetta, la locazione si intende prorogata ex lege”.
[5] Cfr. Cass. civ., 8 marzo 2001, n. 3392; Cass. civ., 6 maggio 1997, n. 3959; Cass. civ., 17 aprile 1996, n. 3627.
[6] Cfr. Cass. civ., 1 agosto 1995, n. 8388.

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Eliseo Davì

Laureato in Giurisprudenza con 110 e lode e menzione alla tesi. Attualmente è iscritto all'ordine dei praticanti avvocati di Palermo e collabora con lo studio Legale Perrino & Associati. Inoltre svolge un tirocinio ex art. 73 L. 98/2013 presso la Presidenza della III Sez. Penale del Tribunale di Palermo.

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