L’occupazione appropriativa e la rilevanza del giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento per equivalente
L’occupazione c.d. appropriativa o acquisitiva è un istituto di creazione pretoria sdoganato dalla giurisprudenza di legittimità a partire dagli anni ’80[1] al fine di consentire all’autorità espropriante di acquistare la proprietà di un suolo privato a fronte di un’occupazione, iniziata ab origine in forza di titolo, e successivamente divenuta illegittima per scadenza dei termini dello stesso e in presenza dell’irreversibile trasformazione del fondo del privato nella logica della realizzazione dell’opera pubblica.
In particolare, per giustificare l’acquisto della proprietà del suolo da parte dell’autorità espropriante in assenza di un atto formale di esproprio ed a fronte del fatto illecito dell’occupazione, si è richiamato l’istituto della c.d. accessione invertita. Invero, se la regola dell’accessione implica che il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione realizzata sul medesimo, per contro, secondo la logica dell’accessione invertita, l’autorità espropriante che ha effettuato la trasformazione del suolo nell’ottica del perseguimento dell’interesse pubblico, diventa viceversa proprietaria dello stesso.
Tale forma di occupazione acquisitiva differisce dall’istituto dell’occupazione c.d. usurpativa, che inizia fin dall’origine in assenza di titolo e che, pertanto, costituendo un mero fatto illecito determinante un danno per il privato, non consente l’acquisto della proprietà.
Siffatta differenza esplica i propri effetti anche in punto di riparto di giurisdizione: difatti, l’occupazione, sia essa acquisitiva o usurpativa, integra di per sé un comportamento, tuttavia, solo nel caso dell’occupazione acquisitiva viene in rilievo un comportamento amministrativo, riconducibile all’esercizio del potere espropriativo correlato al titolo inizialmente esistente che radica la giurisdizione del giudice amministrativo ai sensi dell’art. 133 comma 1 lettera g) Cpa.
Per contro, l’occupazione usurpativa, mancando ab origine un titolo giustificativo dell’occupazione medesima, costituisce un comportamento mero, non riconducibile all’esercizio del potere amministrativo e che, pertanto, radica la giurisdizione del giudice ordinario.
La differenza sopra tratteggiata fra le due tipologie di occupazione sfuma, tuttavia, nella prospettiva della Corte Edu, che stigmatizza tanto l’occupazione appropriativa, quanto quella usurpativa in quanto considerate, dati i presupposti, forme di espropriazione “indiretta” e sostanziale e pertanto contrarie alla CEDU poiché non ricalcanti i dettami di un’espropriazione diretta, formale e in buona e dovuta forma, mancando l’atto formale acquisitivo all’esito del procedimento espropriativo, nonché il rispetto dei tempi e delle condizioni dello stesso.
Pertanto, per porre rimedio al problema dell’acquisto della proprietà del suolo da parte dell’autorità amministrativa, il legislatore aveva introdotto l’articolo 43 del Testo Unico delle Espropriazioni recante la disciplina della c.d. occupazione provvedimentale o acquisizione sanante, in base alla quale il provvedimento esplica un effetto sanante l’illecita occupazione realizzando, pertanto, una sorta di “legalizzazione” di un’espropriazione sostanziale. Tuttavia, il predetto articolo 43 del d.P.R. n. 327 del 2001 viene comunque considerato contrastante con la CEDU poiché configura un’ulteriore forma di espropriazione indiretta e viene successivamente dichiarato incostituzionale per eccesso di delega dalla Corte Costituzionale[2].
Di conseguenza, il legislatore ha cercato di risolvere il problema relativo alla sussistenza di un’occupazione che costituisce un fatto illecito permanente attraverso l’introduzione dell’articolo 42 bis del Testo unico delle Espropriazioni.
La suddetta disposizione normativa contempla, in particolare, una procedura espropriativa semplificata, in base alla quale l’autorità amministrativa che ha occupato per scopi di interesse pubblico, in presenza o in assenza ab origine di un titolo, un suolo privato, valutati gli interessi in conflitto, può disporre che il bene, modificato e trasformato, sia acquisito “non retroattivamente”, realizzando un effetto acquisitivo ex nunc in proprio favore.
Tale procedura di acquisizione sanante viene ritenuta dalla Corte Edu legittima e configurante un’espropriazione in buona e dovuta forma, poiché realizza una forma di procedura alternativa, semplificata che si inscrive in una fattispecie contrassegnata da un fatto illecito, senza sanarlo, così come avveniva in base al precedente art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, mediante un atto formale non retroattivo.
Ciò premesso in ordine alla ricostruzione dell’evoluzione storica e della portata dell’istituto dell’occupazione acquisitiva, occorre porre l’accento sulla questione attinente alle azioni esperibili da parte del privato a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per equivalente proposta a fronte di un’occupazione acquisitiva.
La risoluzione di tale problematica postula, innanzitutto, una preventiva disamina della portata del concetto di giudicato secondo gli stilemi della procedura civile. In particolare, secondo la concezione estensiva dei limiti oggettivi del giudicato, quest’ultimo si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, compresi il dispositivo e la motivazione, nonché gli accertamenti in fatto e in diritto che si pongono quali antecedenti logico necessari della pronuncia finale. In altri termini, il concetto processualcivilistico di giudicato ricomprende non solo il c.d. giudicato esplicito, avente ad oggetto la situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio, ma anche il c.d. giudicato implicito, rappresentato dalle questioni che costituiscono il fondamento logico-giuridico della decisione.
Trasponendo questo principio nella fattispecie in commento, peraltro oggetto di una recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[3], occorre evidenziare che il giudicato civile di rigetto avente ad oggetto la domanda principale di risarcimento del danno per equivalente deve aver necessariamente preso in considerazione la questione che costituisce l’antecedente logico giuridico di tale domanda, ovvero la sussistenza o meno di una fattispecie di occupazione acquisitiva.
Nel caso specifico oggetto della decisione in commento, il giudicato in questione è un giudicato esplicito di rigetto in quanto il giudice civile ha accertato la prescrizione del diritto al risarcimento del danno formandosi contestualmente il giudicato implicito sulla questione che costituisce il presupposto logico-giuridico del diritto azionato, ovvero la sussistenza della fattispecie di occupazione acquisitiva con conseguente perdita del diritto di proprietà da parte dell’attore e l’acquisto a titolo originario del relativo diritto in capo all’autorità espropriante in virtù del meccanismo dell’accessione invertita sopra descritto.
Orbene, a fronte di tale giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per equivalente, il Collegio si è interrogato sulle possibili azioni esperibili da parte del privato.
In primo luogo, viene esaminata la possibilità di azionare una tutela risarcitoria in forma specifica finalizzata a riportare il danneggiato nello status quo ante l’illecito, e quindi diretta alla restituzione del bene. Per comprendere se il privato può azionare tale tutela restitutoria, a fronte di un giudicato civile di rigetto del risarcimento del danno per equivalente, occorre comprendere qual è il diritto azionato con l’azione risarcitoria in forma specifica. Al riguardo, non può non evidenziarsi come la causa petendi di tale azione sia anch’essa riconducibile al fatto illecito dell’occupazione appropriativa. Pertanto, a fronte di un giudicato esplicito di rigetto della domanda di risarcimento del danno per equivalente per prescrizione del diritto, con contestuale, come sopra descritto, giudicato implicito sull’occupazione acquisitiva e sul relativo effetto acquisitivo in capo all’autorità espropriante, non può ammettersi l’esperibilità dell’azione in forma specifica che risulta preclusa perché verte sostanzialmente sul medesimo diritto azionato con il risarcimento del danno per equivalente e, pertanto, non può aversi duplicazione delle tutele. Inoltre, si è formato un giudicato implicito sull’occupazione acquisitiva che implica, pertanto, la perdita del diritto di proprietà sul bene da parte del privato con preclusione di una possibile azione restitutoria da parte dello stesso postulante la permanenza del diritto in capo al privato.
Il Supremo Consesso della giustizia amministrativa nella medesima pronuncia sopra richiamata ha vagliato anche la possibilità da parte del privato di esperire un’eventuale azione di rivendicazione del bene. Tuttavia, anche in tal caso, data la natura di azione petitoria a carattere reale esperibile unicamente dal proprietario del bene, risulta preclusa in radice l’attivazione di siffatta tutela che postula necessariamente la sussistenza del diritto di proprietà in capo al privato. Per contro, nella fattispecie oggetto della pronuncia in commento si configura un giudicato implicito che accerta, in forza della maturata occupazione acquisitiva, l’acquisto della proprietà in capo all’autorità espropriante.
In ultima analisi, risulta preclusa al privato anche l’ulteriore azione finalizzata ad ottenere dal giudice, a fronte del silenzio della PA, una pronuncia di condanna a provvedere ai sensi dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001. In tal caso, poiché il provvedimento ex art. 42 bis presuppone che l’amministrazione non sia proprietaria del bene, mentre, il giudicato sull’inesistenza del risarcimento del danno per equivalente accerta proprio l’opposto effetto acquisitivo in capo all’autorità espropriante, è evidente l’incompatibilità sussistente tra il giudicato che si è formato sulla domanda di risarcimento del danno per equivalente e la domanda ex art. 42 bis.
[1] Cass. civ., sez. un., 26 febbraio 1983, n. 1464.
[2] Corte cost., 8 ottobre 2010, n. 293.
[3] Cons. St., Ad. Plen., 9 aprile 2021, n. 6.
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