L’ordinamento italiano e il principio “rebus sic stantibus”
L’ordinamento italiano, come si può rilevare dall’analisi del codice civile e della legislazione complementare, presenta la sua naturale propensione verso l’affermazione del principio del rebus sic stantibus.1
Invero, nonostante l’affermazione perentoria dell’art. 1372 c.c., in cui si ribadisce il principio di immutabilità e intangibilità del vincolo contrattuale, diverse sono le disposizioni che consentono, in modo espresso o per mezzo di un’interpretazione estensiva e finalistica, un adeguamento del vincolo negoziale al mutare della realtà circostante e il più possibile in conformità agli interessi delle parti.
A mio parere, lo stesso disposto dell’art. 1372 c.c. consentirebbe l’ammissione del principio del rebus sic stantibus e la correlativa possibilità di revisione e quindi di modifica del contratto. Infatti, ammettendo l’assunto, suggerito da qualche autore2, per cui il riferimento legislativo allo scioglimento del vincolo (Il contratto […] non può essere sciolto che per mutuo consenso o per cause ammesse dalla legge) può essere esteso anche alle ipotesi di modifica dello stesso, la disposizione potrebbe essere suddivisa in due parti, espressione ciascuna dei due principi del pacta sunt servanda e del rebus sic stantibus. Tanto è vero che se si pone in rilievo il principio della forza di legge del contratto e dunque della vincolatività del contratto in senso di irretrattabilità degli effetti, di immodificabilità e resistenza al pentimento, nulla osta al richiamo insito nella norma al principio del pacta sunt servanda; se, invece, si analizza il restante testo della disposizione, in cui si enuncia la possibilità di scioglimento e quindi di modifica del contratto per mutuo consenso o nei casi previsti dalla legge, si necessita un’analisi della norma in senso sistematico, tale da condurre all’affermazione dello stesso rebus sic stanti bus, o comunque ad un regime eccezionale rispetto all’imperatività del pacta sunt servanda3. Oltretutto, mentre il mutuo consenso potrebbe essere tranquillamente riferito ai casi di rinegoziazione del contratto (clausole di rinegoziazione, clausole di adeguamento automatico, ipotesi di ius variandi convenzionale), il rinvio operato alle ipotesi espressamente previste dalla legge, invece, potrebbe dar luogo alla possibilità di revisione legale (ipotesi tipiche di revisione, sia unilaterali che bilaterali, individuate sia nel codice civile che nelle leggi complementari). Ulteriormente, occorre rilevare come la rinegoziazione, attuandosi mediante la stipulazione di un contratto modificativo, non fa altro che confermare il valore del vincolo negoziale espresso dall’art. 1372 c.c. L’accordo modificativo, integrando il negozio principale ed essendo espressione dell’interesse delle parti alla sua conservazione, non è altro che strumento di rafforzamento di un vincolo preesistente che in sua assenza potrebbe venir meno. Questo, invero, potrebbe essere inteso quale manifestazione di conferma, seppur parziale, del precedente vincolo: con detto accordo, le parti manifestano la volontà di continuare a vincolarsi ad un certo rapporto negoziale, sebbene in parte modificato nel suo regolamento. Così, da un lato, si rafforza il legame espresso dal vincolo negoziale precedente, il quale viene confermato, e dall’altro si prevede un nuovo vincolo negoziale, quale discende dalla modifica del precedente regolamento contrattuale che viene presupposto.
Degno di nota è poi l’art. 1321 c.c. che, discorrendo della possibilità per le parti di costituire, estinguere e regolare rapporti giuridici patrimoniali, sottintende l’ulteriore possibilità di stipulazione di accordi modificativi di precedenti rapporti negoziali patrimoniali. Infatti, come sostenuto da parte della dottrina4, la modifica di un accordo negoziale non esprime altro che l’intento delle parti di regolare un rapporto giuridico, e ciò è tanto vero se si considera il fatto che la modifica ha ad oggetto il regolamento contrattuale e quindi l’insieme delle statuizioni che regolano e disciplinano il rapporto intercorrente tra le parti di un contratto. Più precisamente, la stipulazione di accordi modificativi, ovvero la modifica di rapporti giuridici patrimoniali, può essere considerata quale esempio di fattispecie contrattuale volta alla regolamentazione di un rapporto giuridico patrimoniale, come discende dal disposto della norma in questione e dal fatto che l’accordo modificativo non fa altro che intervenire nuovamente su di un rapporto giuridico preesistente, determinando una nuova disciplina, ossia un nuovo regolamento di interessi.
Anche l’art. 1322 c.c., prevedendo la possibilità per le parti di stipulare contratti che, seppur non disciplinati espressamente, siano volti al perseguimento di interessi meritevoli di tutela, riconosce l’opportunità per l’autonomia privata di stipulare accordi di vario genere che incidendo su di un rapporto preesistente, lo modifichino, consentendo di mantenere una costante rispondenza dell’operazione contrattuale agli interessi dei contraenti. Interesse alla conservazione del rapporto contrattuale che si manifesta, come può desumersi anche dal disposto di cui all’art. 1367 c.c., meritevole di tutela e tale quindi da rendere effettivo il principio espresso nella norma oggetto di analisi.
Il principio di atipicità contrattuale e la posizione determinante assunta dall’autonomia privata consentono alle parti non solo di prevedere fattispecie contrattuali atipiche ma altresì di inserire clausole (clausole di rinegoziazione, clausole di ripartizione del rischio) che permettono un controllo quasi totale del rapporto contrattuale non circoscritto alla sola fase delle trattative e della stipulazione del contratto e a quella della sua esecuzione, ma anche con riferimento al costante mantenimento dell’equilibrio contrattuale e dell’assetto di interessi iniziale.
Ulteriormente si può far riferimento al disposto di cui all’art. 1230 c.c. in materia di novazione, la quale tipizza la possibilità di una modificazione oggettiva dell’obbligazione. Al riguardo occorre però precisare che la modificazione oggettiva quando ha ad oggetto un’obbligazione di fonte contrattuale non è limitata solo ad essa (novazione), ma può essere estesa anche alla rinegoziazione e più in generale alla revisione e ad ogni altra ipotesi di adeguamento del contratto. Tuttavia, gli istituti della novazione e della revisione, pur essendo tra loro differenti per presupposti ed ambito applicativo, ritengo siano tra loro collegati potendosi affermare che mediante il disposto di cui all’art. 1230 c.c. e quindi attraverso l’ambito di applicazione della novazione possono essere definite a contrariis le peculiarità dell’istituto della revisione. La novazione, infatti, comporta necessariamente una modifica di un elemento essenziale, determinante e qualificante l’obbligazione, quali il titolo o l’oggetto, e si estrinseca in una vicenda estintivo – costitutiva. Compiendo la novazione, inoltre, le parti hanno interesse (animus novandi) all’estinzione di un’obbligazione e alla contestuale costituzione di una nuova, pur se legata alla precedente. Al contrario, la revisione attua una modifica sostanziale o accessoria del contratto, e quindi delle obbligazioni che da esso scaturiscono, lasciandone però immutato il nucleo centrale (oggetto e/o titolo), e l’unica vicenda che si produce è quella modificativa, rimanendo il contratto principale comunque ancora valido ed efficacie. Le parti, infatti, con la revisione propendono per la modifica e conservazione del rapporto contrattuale e non per la sua estinzione, come invece accade nell’ipotesi di novazione. Da queste brevi considerazioni emerge altresì come allorquando le parti compiano una modifica su di un precedente contratto, questa, se non può essere qualificata come novazione delle obbligazioni contrattuali, per mancanza dell’elemento oggettivo e/o soggettivo, costituisce senz’altro un’ipotesi di revisione.
Il nostro ordinamento, poi, riconosce oltre all’istituto della modifica oggettiva del contratto e delle relative obbligazioni, anche le ipotesi di modificazioni soggettive nelle forme della cessione del contratto (art. 1406 c.c.), della cessione del credito (art. 1260 c.c.) e delle altre modificazioni attive e passive dell’obbligazione (surrogazione, espromissione, delegazione e accollo). Anche in tali casi il rapporto obbligatorio subisce una modificazione durante l’iter esecutivo pur se limitatamente al profilo soggettivo, tuttavia, bisogna mettere in evidenza come in dette ipotesi viene meno l’elemento dell’identità delle parti che partecipano al procedimento di modifica (nel senso che la modifica necessita dell’intervento di un soggetto terzo rispetto al rapporto obbligatorio e le parti del rapporto obbligatorio risultano essere diverse successivamente al momento della modifica) e l’intento o finalità conservativa del rapporto obbligatorio è imputabile esclusivamente ad uno solo dei contraenti.
Di fondamentale importanza è poi sicuramente il disposto dell’art. 1467 c.c., che disciplina i casi di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, quando questa si manifesta oltre la normale alea contrattuale, prevedendo la possibilità sia di risoluzione che di offerta di riconduzione ad equità del contratto. Oltre alla sua valenza tradizionale, quale massima espressione della tutela apprestata dall’ordinamento nei di casi di sopravvenienze contrattuali, la norma in questione è stata oggetto di diversi dibattiti in dottrina5 e giurisprudenza riguardanti la possibilità di rinvenire nella stessa la fonte primaria di un obbligo di revisione del contratto.
In merito bisogna però notare che la norma in esame ha una portata applicativa limitata dato che la possibilità di revisione è subordinata alla richiesta giudiziale di risoluzione del contratto e necessita del verificarsi di una sopravvenienza che renda la prestazione eccessivamente onerosa, cioè oltre la normale alea contrattuale. Da ciò discende l’esigenza di evidenziare che la sopravvenienza e il relativo obbligo/dovere di revisione non è circoscritto alla sola ipotesi di una sopravvenuta eccessiva onerosità della prestazione, ma si estende anche a sopravvenienze diverse da quelle contemplate dal disposto di cui all’art. 1467c.c., ricomprendendo anche totalmente ipotesi differenti. La revisione, infatti, può operare a prescindere da una richiesta di risoluzione del contratto, può presentarsi in contratti istantanei, il suo presupposto può essere rappresentato da squilibri tra le prestazioni derivanti da cause diverse dalla sopravvenienza, come accade nel caso di squilibri ab origine, la sopravvenienza può incidere non solo quantitativamente (rendendo più onerosa la prestazione) ma anche qualitativamente (imponendo un mutamento delle modalità esecutive). Tanto è vero che qualche autore6, considerando come punto di riferimento la revisione definita dall’art.1467 c.c., discorre di ipotesi di revisione legate a sopravvenienze atipiche. Lo stesso autore7, inoltre, ritiene che l’obbligo di revisione può manifestarsi anche in una fase antecedente alla richiesta di risoluzione, in sede di preventiva tutela del rapporto contrattuale. In tutti questi casi estranei all’ambito di applicazione del disposto dell’art. 1467 c.c., volendo comunque individuare un ipotetico obbligo di revisione si può far riferimento al disposto degli artt. 1374 e 1375 c.c. e dunque al principio di buona fede e di equità. La natura limitata dell’ambito di applicazione dell’art. 1467 c.c. imporrebbe quindi l’individuazione di due distinte fonti dell’obbligo di revisione: l’art. 1467 c.c., da una parte, e gli artt. 1374 e 1375 c.c., dall’altra. Tuttavia, ritengo possa rinvenirsi, come sarà affermato in seguito, un unico obbligo di revisione, che trova la sua principale fonte nei principi di buona fede ed equità, riservando all’art. 1467c.c. una portata applicativa residuale.
Sulla natura limitata della disposizione si è espresso altresì un altro autore8, il quale ha messo in luce la diversità del disposto dell’art. 1467 c.c. rispetto sia alla rinegoziazione sia alla possibilità di una sua integrazione con i principi di buona fede ed equità. L’Autore, infatti, afferma che mentre l’art. 1467 c.c. conferisce un potere unilaterale di modifica e comunque prevede quale presupposto uno squilibrio prettamente quantitativo, al contrario la rinegoziazione e il principio di buona fede necessitano di un intervento bilaterale delle parti e si riferiscono a sopravvenienze che incidono sull’equilibrio tra le prestazioni non solo sul piano quantitativo ma anche su quello qualitativo. Proprio su tali differenze (tipologia di mutamento e modalità di intervento delle parti sul contratto), reputate dall’Autore come fondamentali, risulterebbe pressoché impossibile un’interpretazione estensiva dell’art. 1467 c.c. o la previsione di una sua ipotetica variante stragiudiziale.
Ciò nonostante, a mio parere, si potrebbe porre l’accento sulla natura derogabile9 della disposizione, interpretandola estensivamente non solo come possibilità per le parti di escludere la sua applicazione, ma anche come riconoscimento legale dell’inserzione nel regolamento negoziale di clausole di rinegoziazione e di adeguamento di vario genere e clausole che prevedono una ripartizione convenzionale dei rischi.
Considerazioni simili possono riportarsi in merito all’art. 1450 c.c. che in relazione al contratto rescindibile consente alla parte, contro cui è formulata istanza di rescissione, di richiedere la riconduzione ad equità, evitando la caducazione del contratto. Al riguardo sorge il dubbio se l’offerta deve essere tale da riportare la lesione al di sotto della metà, oppure tale da ridurre del tutto lo squilibrio sussistente tra le prestazioni. Dottrina10 e giurisprudenza11 sono concordi nell’affermare che deve essere eliminato tutto lo squilibrio sussistente, ciò in accordo con la tesi per cui non bisogna confondere i presupposti dell’azione di rescissione con quelli dell’offerta di equa modifica. Infatti, avendo l’offerta il compito di evitare la rescissione, essa non deve sottostare alle stesse condizioni, nonostante trovi la sua fonte nella medesima azione di rescissione. Ciò nonostante, l’offerta deve essere proporzionata al bene che deve essere restituito o al compenso da corrispondere all’attore in seguito alla sentenza che statuisce sulla rescissione del contratto.
Anche il disposto di cui agli art. 1374 e 1375 c.c., in combinato con l’art. 1366 c.c., con riferimento al principio dell’integrazione secondo i canoni della buona fede e dell’equità viene spesso posto alla base del riconoscimento del principio del rebus sic stantibus.
Il principio di buona fede, in qualità di criterio di ampliamento e/o riduzione del contenuto contrattuale12, influisce nella fase di esecuzione del contratto comportando, oltre che una più precisa determinazione del contenuto delle prestazioni, il sorgere in capo ai contraenti di tutta una serie di obblighi accessori a quelli principali di prestazione. Ecco allora che i contraenti non sono tenuti solo alla mera esecuzione del contratto, ma si trovano obbligati anche al mantenimento di una situazione di equilibrio tra le prestazioni e all’attuazione di tutta quella serie di attività necessarie e propedeutiche per il soddisfacimento degli interessi negoziali. Dunque, si può affermare che rifiutarsi di modificare il contratto continuando ad esigere una prestazione che non è più utile o che impone oneri esecutivi eccessivi alla controparte è contrario alla buona fede; rifiutare la proposta di un’equa modifica o non proporre alcuna modifica ex art. 1467 c.c. è contrario a buona fede; non collaborare nell’esecuzione del contratto facendo ricadere gli oneri maggiori sulla controparte è contrario a buona fede. Come si è visto il principio di buona fede permea l’esecuzione del contratto e non solo, ed è per questo che si può arrivare a sostenere che il principio di buona fede è parametro di integrazione del contratto in forza del quale può rinvenirsi ed enuclearsi anche un presunto obbligo di revisione a carattere conservativo.
Le stesse conclusioni possono essere trasposte anche in relazione al principio di integrazione secondo equità, prendendo come punto di riferimento, questa volta, l’equilibrio che deve intercorrere tra le prestazioni. Posto che l’equilibrio contrattuale tra le prestazioni è indeterminabile a priori in quanto caratterizzato dalla soggettività e di conseguenza varia a seconda dell’interesse delle parti manifestato nel concreto regolamento contrattuale, il criterio dell’equità consente un’interpretazione del contratto volta alla determinazione e verificazione del rapporto tra le prestazioni e al mantenimento di un costante equilibrio tra di esse. Sovente, infatti, l’equità viene considerata come parametro per la correzione di elementi contrattuali lacunosi (artt. 1384, 1664, 1733, 1729 c.c.) e come indice di riferimento per il riequilibrio del rapporto tra le prestazioni.
In tale prospettiva, dunque, buona fede ed equità possono essere intesi come fonte di un obbligo/dovere di revisione del contratto in un’ottica di integrazione atipica di esso13. Ciò si palesa maggiormente nei contratti di durata: la volontà delle parti di regolare un loro rapporto patrimoniale nel lungo periodo impone una conseguente necessità di garantire un costante rapporto di equilibrio tra le prestazioni ed una costante congruenza del regolamento negoziale agli interessi e all’obbiettivo contrattuale e conseguentemente una possibilità di adempimento ed esecuzione del contratto in maniera durevole. Inoltre, il ricorso a tali principi consentirebbe, a mio parere, un intervento modificativo del contratto non solo delle parti in modo congiunto ma anche di un singolo contraente e di un terzo, sia esso un arbitro, il giudice o un soggetto, persona fisica o giuridica, qualsiasi. Ciò nondimeno, occorre qualche precisazione. Buona fede ed equità devono essere considerati in maniera differente: mentre la buona fede consente di indagare sulla effettiva volontà delle parti e di definire conseguentemente l’oggetto del contratto e di determinare come le parti si sarebbero negozialmente comportate se a conoscenza dello squilibrio e della relativa necessità di adeguamento dell’equilibrio contrattuale, in sostanza facilitando l’individuazione del contenuto dell’obbligo di revisione; il criterio di equità, invece, potendo essere riferito al rapporto di equilibrio tra le prestazioni può assurgere ad indice della misura della modifica da apportare al contratto. A conclusioni simili sono pervenuti anche alcuni autori, i quali ritengono che «il giudizio di buona fede consente una valutazione del comportamento delle parti alla stregua dei tipi di comportamento conosciuti come norme sociali; l’equità invece consente al giudice di fare ricorso ad un potere più ampio, adattando il regolamento negoziale al fine di farvi penetrare esigenze di giustizia, tenendo conto delle circostanze peculiari del caso. La buona fede consente alla parte improvvida di riappropriarsi delle occasioni perdute mentre l’equità consente un rimodellamento dell’operazione. Ma si è osservato che il confine tra buona fede ed equità è assai labile, in quanto applicando l’una o l’altra il giudice compie operazioni simili ».14
Un altro autore15, infine, rinviene la presenza di una clausola implicita di buona fede ed equità nei casi di incompletezza contrattuale, consentendo di colmare eventuali lacune negoziali.
Il principio del rebus sic stantibus trova espressione, quale estrinsecazione del principio di buona fede, anche attraverso l’istituto giurisprudenziale della presupposizione, per mezzo del quale l’ordinamento attribuisce rilevanza ad una determinata situazione di fatto e/o evento che, pur non essendo oggettivata in contratto (condizione), viene comunque considerata dalle parti quale presupposto determinante l’efficacia del vincolo negoziale. Tale istituto, pur dando rilevanza al mutamento di uno stato di fatto, propende, come dimostrato dalla diversità di posizioni dottrinali16 e giurisprudenziali17 in merito al profilo degli effetti che scaturiscono dalla sua applicazione (nullità, annullamento, inefficacia, inesistenza), verso la “caducazione” del contratto. Proprio per questo motivo, se in un primo momento la presupposizione è stata utilizzata per risolvere il problema dell’irraggiungibilità dello scopo a causa di circostanze sopravvenute, stante l’assenza di una compiuta disciplina di diritto positivo, successivamente l’esigenza di rinvenire una soluzione che conducesse alla conservazione del rapporto ha condotto alla elaborazione e sperimentazione di nuove tecniche, quali la revisione.
Diverse sono, poi, le disposizioni di legge che prevedono, in riferimento ai singoli tipi contrattuali, specifiche possibilità di adeguamento del regolamento negoziale alla nuova situazione concreta. Si tratta di norme che attribuiscono di volta in volta poteri di intervento sul contratto di natura sia bilaterale, necessitando dell’intervento di entrambi i contraenti nella procedura modificativa, sia unilaterale attraverso il sorgere in capo ad una parte o ad un terzo di un ius variandi inerente ad aspetti del contratto. Tra le più significative possono annoverarsi le seguenti: artt. 1659, 1660, 1664 e 1668 c.c. in tema di contratto di appalto; art. 1710 c.c. in tema di contratto di mandato; artt. 1897, 1898 e 1926 c.c. per il contratto di assicurazione; artt. 1623, 1635 e 1636 c.c. per il contratto di affitto; art.1578 c.c. e art. 25 della l. 392/1978 in materia di locazione; artt. 1480, 1492, 1519 quarter, 1537 e 1538 c.c. in tema di vendita; artt. 1560 e 1561c.c. in tema di somministrazione; l’art. 11 comma 2 bis del dl. 11 luglio 1992 n° 333, convertito in legge 359/1992; art. 55 comma 9 della l. 449/1997; art. 6 della l. 537/1993 per i contratti pubblici; l’art. 3 della direttiva 2000/35/C.E. del 29 giugno 2000, in relazione alla lotta contro i ritardi nei pagamenti relativi alle transazioni commerciali; l’art. 12 comma 1 lettera c) della legge 366/2001 in materia di diritto societario; le disposizioni in materia di modifica dello statuto delle società; art. 3 comma 5 e dall’art. 6 della l.192/1998 relativamente al contratto di sub-fornitura; art. 39 del T.U.B., L. 539/1995,art. 46 della l. 488/1999, art. 29 della l. 133/1999, L. 110/2000, L. 537/1993, legge 41/1986, 1501/1947 per il contratto di mutuo.
L’adeguamento del contratto può avvenire, come accennato prima, non solo in contratti di durata o ad esecuzione periodica e a seguito di eventi sopravvenuti ma anche in contratti istantanei e per cause diverse dalla sopravvenienza. Si tratta più in particolare dei casi di revisione per cause ab origine, i quali trovano la loro causa giustificatrice nella tutela della volontà delle parti dall’eventualità di trovarsi vincolate ad un contratto non voluto o ad un contratto diverso da quello stipulato.18 In tali casi nonostante sia presente un generale riconoscimento della rilevanza data allo scollamento tra contratto e realtà effettiva delle cose, diversi sono gli orientamenti sussistenti in dottrina e in giurisprudenza circa la possibilità di inquadrare tale ipotesi all’interno dell’istituto della revisione.
A favore dell’estensione dell’applicabilità della revisione e dunque della rilevanza del rebus sic stantibus anche in tali ipotesi, alcuni autori19 configurano una revisione per cause diverse dalle circostanze sopravvenute.
Altri autori20, diversamente, sostengono la possibilità di meglio inquadrare tali fattispecie all’interno dell’istituto della rettifica dell’errore di calcolo. Essi affermano che soprattutto le fattispecie di cui agli artt. 1537 e 1538 c.c. sono riconducibili alla fattispecie di errore di calcolo (art. 1430 c.c.), in presenza del quale le parti possono procedere ad una rettifica, consistente in una «modificazione all’interno del negozio al fine di adeguare l’interesse ivi erratamente regolato all’interesse reale del soggetto [operando quindi] l’eliminazione della situazione di disformità»21.
Un altro autore22, inoltre, ritiene che le ipotesi di revisione, in caso di squilibrio ab origine e di contratti istantanei, riguardano sicuramente un meccanismo di adattamento della fonte contrattuale, in quanto concernenti il mutamento dell’equilibrio contrattuale sussistente rispetto a quello tipico della tipologia in oggetto, pur se riferibile ai soli vizi di volontà. In veste di meccanismo di adattamento, essa rientra, quindi, all’interno della categoria degli strumenti che il legislatore ha previsto nella prospettiva di garantire l’equilibrio tra le prestazioni e di incentivare la conservazione del contratto. Si tratta, tuttavia, di fattispecie somiglianti alla revisione riguardo al fine che intendono perseguire, l’elemento dell’identità soggettiva delle parti e l’ambito applicativo rappresentato da una situazione di squilibrio, ma che per il contesto in cui si svolgono (per la maggiore contratti istantanei), la natura e il momento di manifestazione della circostanza (vizi del consenso e momento costitutivo), se ne distinguono, costituendo istituti indipendenti, che potrebbero essere ricompresi all’interno della revisione, soltanto attraverso un intento di estensione del suo ambito applicativo mediante la previsione di un’ipotetica ratio unitaria.
A mio giudizio, la revisione potrebbe essere sempre attuata, per la comunanza di caratteri, in presenza di contratti istantanei con prestazioni differite nel tempo (contratti sospensivamente condizionati o sottoposti a termine iniziale), nel caso di contratti con effetti obbligatori e nelle ipotesi di vendita di cose a consegne ripartite. In tutti questi casi è presente, infatti, un arco di tempo sufficientemente lungo, che può comportare l’esposizione del vincolo contrattuale, così come stabilito dalle parti, all’incidenza della sopravvenienza, lasciando spazio per esigenze conservative, e quindi per l’istituto della revisione. Tuttavia, una critica a tale tesi potrebbe essere mossa relativamente a quei contratti che, come la compravendita, si caratterizzano per essere ad effetti reali, di modo che l’effetto traslativo discende direttamente dal contratto al momento della sua stipulazione anche in caso di prestazione differita nel tempo, rendendo quasi impossibile una sua modifica (l’effetto si è già verificato). Tutt’al più in questi casi potrebbe residuare una modifica di elementi accessori e marginali del contratto, tale da non mutare l’effetto già verificatosi.
Con riguardo allo squilibrio originale, posto che questo viene generalmente ricondotto ai casi di presenza di vizi del consenso, ritengo che la revisione o in generale l’adeguamento possa essere attuata anche in tali ipotesi nei casi in cui pur essendo possibile l’annullamento del contratto la parte avrebbe ugualmente concluso il contratto ma con un contenuto differente e nei casi in cui non sia, per mancanza di presupposti, attuabile l’annullamento del contratto e il regolamento negoziale, come erroneamente predisposto, non svolga alcuna utilità economica o addirittura pregiudichi uno dei contraenti.
Tale disputa dottrinale23 può essere rivolta anche alla fattispecie di contratto preliminare con particolar riguardo al suo rapporto con il contratto definitivo e alla possibilità per le parti di effettuare delle modifiche del contratto preliminare mediante la predisposizione di un contratto definitivo parzialmente diverso sotto il punto di vista del contenuto.24 Non bisogna poi dimenticare che la giurisprudenza25 ammette la possibilità di modificare il contratto preliminare anche da parte del giudice in sede di applicazione dell’art. 2932 c.c.
Degno di nota è anche l’orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte26 che prevede la possibilità di applicare la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta di cui all’art. 1467 c.c. anche ai contratti a titolo gratuito, ponendo, in questo modo, le basi a favore di un’estensione della revisione anche a tali ipotesi.
Con riferimento particolare alle singole disposizioni che possono rilevare al riguardo, si può citare l’art. 1432 c.c. che consente, nei casi di vizi della volontà ed in particolar modo in caso di errore, la rettifica del contratto ad opera della parte non pregiudicata, conformando il contratto alle condizioni a cui la controparte incorsa in errore avrebbe manifestato il suo consenso in maniera spontanea, corretta e libera da ogni vizio interno ed esterno alla sua formazione e manifestazione. Tuttavia, occorre precisare che la disposizione trova applicazione solo quando il soggetto, la cui volontà risulta viziata, avrebbe ugualmente concluso il contratto ma a condizioni diverse. Inoltre, nonostante la disposizione sia espressamente prevista in caso di errore, visto il silenzio del legislatore nell’ipotesi di dolo e di violenza, che non necessariamente deve essere interpretato come esclusione di tale possibilità di rettifica, ritengo che l’art. 1432 c.c. può essere comodamente esteso anche a tali ipotesi, sempre che il soggetto pregiudicato avesse comunque concluso il contratto pur se a condizioni differenti. Quanto appena affermato mi sembra tanto più valido per il caso del dolo in quanto il legislatore prevede esplicitamente la figura del cosiddetto dolo incidente (art. 1440 c.c.), figura simmetrica all’errore di cui discorre il 1432 c.c. Al contrario, alcun dato normativo può rivenirsi per il caso di violenza morale, in relazione alla quale la disposizione potrà venir applicata soltanto mediante un’interpretazione estensiva.
L’esigenza di adeguamento ad una nuova situazione di fatto e/o a nuovi interessi delle parti può ravvisarsi anche nell’art. 1328 c.c. che attribuisce alle parti che si accingono alla stipulazione di un negozio la possibilità di revoca, dunque di modifica, della proposta o accettazione fino a quando queste non giungano all’indirizzo del destinatario, divenendo in questo modo conoscibili ed efficaci (art. 1326 c.c.). In relazione a tale ipotesi qualche autore rinviene una qualche fattispecie di revisione unilaterale del contratto non ancora sorto. Nonostante ciò, occorre sottolineare come in questi casi ciò che rileva maggiormente non è il principio di conservazione del contratto quanto l’esigenza di concludere un contratto che sia il più possibile conforme ai propri interessi e che consenta al massimo livello l’attuazione delle finalità e degli scopi che le parti intendono perseguire.
Le medesime considerazioni possono essere rivolte pure alla previsione di cui all’art. 1424 c.c. che, in presenza di un contratto nullo, prevede la possibilità per i contraenti di convertire il negozio inficiato da nullità in un altro che, avendo gli stessi requisiti di forma e sostanza, risponda ugualmente alle intenzioni, interessi e finalità prefissate dalle parti.
Concludendo si può affermare che il principio del rebus sic stantibus e di conseguenza il fenomeno della sopravvenienza e del mutamento dell’ambito in cui il contratto opera viene risolto dall’ordinamento italiano attraverso la previsione di un’ampia disciplina che va dall’eccessiva onerosità sopravvenuta, alle ipotesi di revisione tipiche di ogni rapporto, negoziale e non, alle ipotesi legali di ius variandi, alle clausole di rinegoziazione, eventualmente apposte dalle parti in contratto (clausole di rinegoziazione e/o di adeguamento automatico). Nonostante l’ampiezza della disciplina, come può sembrare da una sommaria cognizione di essa, l’ordinamento si presenta alquanto lacunoso al riguardo, tanto che la dottrina più attenta ai problemi della sopravvenienza auspica un intervento del legislatore a carattere generale, ispirato al modello della regolamentazione generale contenuta nel BGB (§313 BGB).
In attesa di ciò, e come prima asserito, la dottrina italiana si è avvalsa più volte dell’utilizzo delle clausole generali di buona fede, equità e giustizia e della categoria degli obblighi/doveri di protezione, per consentire un riconoscimento più esteso alla tutela manutentiva del contratto. Posizione, questa, fatta propria anche da quella parte della dottrina27 che sostiene che non è necessario un innovativo ed ulteriore intervento legislativo per la disciplina del principio del rebus sic stantibus e in particolar per la revisione, potendo, questa, essere derivata da un’interpretazione degli artt. 1374 e 1375 c.c. In tale direzione, infatti, in forza di un’estensione della funzione integrativa della buona fede, si è anche pervenuti ad affermare il riconoscimento di un obbligo implicito di revisione, denominata anche clausola del rebus sic stantibus, tutte le volte che nulla è previsto in merito alla sopravvenienza né dalla legge né dalle parti e sussista, comunque, una discrepanza tra la realtà circostante, in cui il contratto si trova ad operare, il rapporto negoziale e l’assetto di interessi dei contraenti. Nella stessa direzione, qualcuno28 suggerisce l’elaborazione di un potere di revisione quale diretta espressione dell’autonomia privata.
Infine, non bisogna omettere che il principio del rebus sic stantibus e la correlativa necessità di continuo adeguamento dei rapporti alla realtà è un fenomeno non riservato alla sola dimensione contrattuale, ma si estende, da una parte, ai rapporti e situazioni extracontrattuali, quali i provvedimenti di scioglimento e separazione familiare, di cessazione e/o esclusione e limitazione e/o attribuzione della potestà genitoriale (art. 155 e 206 l. 151/1976), di costituzione e esecuzione di obbligazioni alimentari di qualsiasi genere (art. 440 c.c.), l’ipotesi di mutamento di scopo nelle fondazioni (art. 28 c.c.) e l’ipotesi, molto discussa in dottrina29, in ambito di diritti reali, di trasferimento della servitù prediale in luogo diverso (art. 1068 c.c.), e, dall’altra, alle situazioni extracivilistiche, quali la revisione della Costituzione italiana (art. 138 e 139 cost.), la revisione dei trattati internazionali (per esempio, art. 48 TUE), la revisione delle sentenze penali (art. 630 c.p.p.) e la revisione in ambito amministrativo.
1 Pacta sunt servanda o Rebus sic stantibus è un quesito che ha sempre interessato e fatto discutere dottrina e giurisprudenza sia nazionale che straniera. Tuttavia, si può, in generale, sostenere che quasi tutti gli ordinamenti di civil e common law, pur non disconoscendo, quale regola imperativa di tutti i rapporti giuridici, il principio del pacta sunt servanda, presentano la loro naturale propensione verso il riconoscimento e l’applicazione del principio Rebus sic stantibus. Affermazione, questa, che consente di concepire il contratto come strumento elastico per la tutela e per la realizzazione degli interessi delle parti: difatti, mutando la situazione iniziale posta alla base del regolamento negoziale è attribuito alla parte svantaggiata, con o senza una qualche forma di cooperazione della controparte, il potere e/o facoltà di sciogliere e/o modificare il rapporto negoziale al fine di riuscire comunque a soddisfare nel miglior modo possibile i propri interessi.
2 V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato a cura di G. Iudica e P. Zatti, pag. 534 ss.
3 Posto che la regola di ogni rapporto giuridico è rappresentata dal pacta sunt servanda, e quindi le parti sono tenute ad attuare il rapporto negoziale così come stabilito nell’apposito regolamento negoziale, senza possibilità alcuna di recesso o modifica unilaterale ogni devianza da esso rappresenta eccezione e per la tematica ivi trattata possono, a mio parere, essere considerate eccezioni al pacta sunt servanda tanto il rebus sic stanti bus, e quindi il diritto potestativo di una parte di sciogliere o modificare il contratto, quanto il potere bilaterale e comune di modifica e scioglimento del rapporto per mutuo consenso.
4 V. Roppo, op. cit., pag. 532 ss . e 555 ss.
5F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, cit., pag. 343 ss. Cfr. A. Gentili, La replica della stipula: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto, in Contratto e impresa, 2003, n°2, pag.719 ss. Vedi anche G. Sicchiero, La rinegoziazione, in Contratto e impresa, 2002, pag. 810 ss.
6 F. Gambino, Problemi del rinegoziare, Milano Giuffre, 2004, pag. 20 ss.
7 F. Gambino, op. cit., pag. 20 ss.
8 M. Barcellona, Appunti a proposito di obbligo di rinegoziazione e gestione delle sopravvenienze, in Europa e diritto privato, 2003, pag. 477 ss.
9 Cassazione civile, sez. II, 23 agosto 1993, n. 8903, in Foro Italiano, 1993; Cassazione civile, sez. II, 29 giugno 1981, n. 4249, in Foro Italiano, 1981.
10 E. Gabrielli, Poteri del giudice ed equità del contratto, in Contratto e Impresa, 1991, pag. 480 ss.
11 Cassazione civile 22 novembre 1978 n°5458, in Giustizia civile, 1979, I, pag. 1086.
12A tal proposito si potrebbe citare anche una sentenza della Cassazione (Cassazione 9 luglio 2004 n°12685 in Foro Italiano, 2004), in cui si afferma che ‹‹il principio di buona fede, che opera secondo criteri di reciprocità e che nel loro quadro di valori introdotto dalla Costituzione rappresenta la specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale tutelati dall’articolo 2 della stessa Carta, può portare ad ampliare o a restringere gli obblighi letteralmente assunti con il contratto, imponendo a ciascuna delle parti l’obbligo di comportarsi in modo da preservare per quanto possibile anche gli interessi dell’altro[…]››. Cfr. Castronovo in S. Mazzamuto, Il contratto e le sue tutele. Prospettive di diritto europeo, Giappichelli, 2002, pag. 53.
13Alpa, Macario e Roppo in S. Mazzamuto, op.cit., pag. 220.
14Mengoni in S. Mazzamuto, op. cit., pag. 239.
15Alpa in S. Mazzamuto, op. cit., pag. 219.
16Vedi V. Pietrobon, Presupposizione (dir. civ.), in Enciclopedia Treccani. Cfr. M. Comporti, Giurisprudenza, in Studi Senesi, 1960, pag. 481 ss.
17 Cassazione civile, sez. III, 24 marzo 2006, n. 6631, in Foro Italiano, 2006; Cassazione civile, sez. II, 14 novembre 2006, n. 24295, in Foro Italiano, 2006; Cassazione civile , sez. II, 24 marzo 1998, n. 3083, in Foro Italiano, 1998; Cassazione civile , sez. II, 05 gennaio 1995, n. 191, in Foro Italiano, 1995; Cassazione civile , sez. II, 28 gennaio 1995, n. 1040, in Foro Italiano, 1995; Cassazione civile, sez. III, 08 agosto 1995, n. 8689, in Foro Italiano, 1995.
18 Tale tesi è sostenuto in modo particolare da M. Barcellona in S. Mazzamuto, op. cit., pag. 314 ss.
19 P. Gallo, Revisione del contratto, in Digesto ,1998, sez. civ. XVII, pag. 441 e A. Scalera, La revisione del contratto con particolare riferimento alle cosiddette clausole di rinegoziazione, in Diritto e Formazione, 2003, n°6, pag. 955. P. Gallo, Sopravvenienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano1992, pag. 219 ss.
20 G. Piazza e D. Rubino in Piazza, L’errore di calcolo e l’art. 1430 c.c., in rivista trim. di diritto processuale civile, 1964, I, pag. 614 ss.
21 G. Piazza, op. cit., pag. 616.
22 R. Tommasini, Revisione del rapporto, in Enciclopedia del diritto XL, 1989, pag. 119 e 123 ss.
23 E. Gabrielli, Poteri del giudice ed equità del contratto, in Contratto e Impresa, 1991, pag. 479.
24 Cass. 8 gennaio 1992 n°118, in Foro Italiano, 1992 e Cass. 18 novembre 1987 n°8486, in Foro Italiano,1987. Un Autore prevede l’individuazione di una volontà modificatrice delle parti, una sorta di animus modificandi. V. Gazzoni in AA.VV., Trattato di diritto privato, tomo XXI.
25 Cassazione civile , sez. II, 28 marzo 2001, n. 4529, in Foro Italiano, 2001; Cassazione civile, sez. II, 12 febbraio 1993, n. 1782, in Foro Italiano, 1993.
26 Cassazione civile, sez. III, 25 maggio 2007, n. 12235, in Foro Italiano, 2007.
27 Alpa in S. Mazzamuto, op. cit., pag. 221.
28 Gambino, op. cit.
29 R. Tommasini, op. cit., pag.122. L’ Autore prospetta una particolare forma di revisione partendo dal presupposto per cui «il rapporto di inservienza tra fondi, destinato per sua natura a protrarsi nel tempo, impone che siano previsti strumenti che consentano di far fronte ad esigenze sopravvenute, che potrebbero rendere disagevole la posizione del fondo servente». Infatti, egli continua affermando che «la servitù importa una situazione permanente, statica, in contrapposto con la dinamicità della vita [e che di conseguenza] si può verificare uno sfasamento tra la permanenza della servitù e il variare indefinito di situazioni di fatto». Si tratta quindi di un’ipotesi di revisione che può essere attuata nel momento in cui sono state modificate le condizioni per cui la servitù trovava una qualche utilità d’esercizio. A sostegno di ciò, l’Autore fa riferimento al dettato normativo dell’art. 1068 del c.c., nel quale il legislatore disciplina il trasferimento della servitù, sottoponendola a condizioni che si riferiscono all’accadimento di circostanze sopravvenute (esercizio diventato gravoso per il fondo servente, esercizio che impedisce l’esecuzione di lavori, di riparazioni o miglioramenti) e alla possibilità di modifica su richiesta delle parti (il proprietario del fondo servente può offrire al proprietario dell’altro fondo un luogo egualmente comodo per l’esercizio dei suoi diritti; il cambiamento di luogo si può del pari concedere su istanza del proprietario del fondo dominante), che rappresentano i requisiti propri dell’istituto della revisione. Ulteriore argomento che avvalora tale tesi è rappresentato dal fatto che il trasferimento non impone il sorgere di una nuova servitù ma, semplicemente, l’adattamento della servitù alle nuove condizioni per l’esercizio, effetto tipico della revisione. L’ipotesi di revisione potrebbe essere esclusa, però, nel caso in cui il dettato normativo venga interpretato nel senso di un mutamento transitorio che, venuto meno, ammetta la possibilità per il titolare della servitù di pretendere il ripristino della situazione sussistente precedentemente; ciò logicamente può essere affermato se non si ammette che la revisione può operare non solo in modo definitivo ma anche in modo transitorio. Alcuni giuristi affermano, infatti, che «una volta venuta a cessare, a lavori ultimati, la maggiore gravosità, è da ammettersi che il titolare della servitù possa pretendere il ritorno allo status quo ante». Vedi al riguardo Burdese e Albano in Rescigno, Codice civile commentato.
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Dott.ssa Adele Maria Cristina Uda
Laureata con il massimo dei voti, dottorato di ricerca in diritto dei contratti, cultrice di materia presso la cattedra di diritto privato, diritto civile e diritto delle obbligazioni presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Cagliari, avvocato, mediatore civile e commerciale, autrice di diverse pubblicazioni, tra la quali si menzionano Volume “Profili civilistici e modelli contrattuali del leasing d’azienda”, in Quaderni della Rassegna di Diritto Civile, diretta da Perlingieri, ESI Editore, Gennaio 2014; “Sul contratto di leasing”, Independently published, Amazon Media EU S.à r.l., 17 agosto 2020, ISBN-13 :979-8676133016 (e-book e cartaceo); “ Uno sguardo alla sopravvenienza contrattuale tra clausole di Hardship e pesi dal titolo profili di diritto italiano e comparato”, Independently published, Amazon Media EU S.à r.l., 8 novembre 2017, ISBN-10 1973216582, ISBN-13: 978-1973216582 (e-book e cartaceo); Saggio “La revisione del contratto in ambito europeo”, in Rivista Giuridica Sarda, Parte II varietà giuridiche, 2-2010.