L’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu sulla denuncia di genocidio del Sudafrica contro Israele
Di Valentina Spata* e Christian Catera**
* Analista Geopolitica specializzata in Medioriente e Africa subsahariana. Specializzata in terrorismo internazionale. Esperta in Diritto delle Migrazioni e Diritti Umani. Collaboratrice ONU.
**Avvocato classe 1993, Founder Catera Studio Legale.
Introduzione
Il 26 gennaio 2024, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha emesso un’ordinanza in merito alla disputa avviata dal Sudafrica contro lo Stato di Israele riguardo all’applicazione della Convenzione per la punizione e la prevenzione del crimine internazionale di genocidio.
La giudice americana Joan Donoghue ha dichiarato che la Corte è consapevole dell’entità della tragedia umana in corso nella regione ed è profondamente preoccupata per la continua perdita di vite a Gaza. Inoltre, ha affermato che “alcuni atti sembrano rientrare nella convenzione sul genocidio” e che “la Corte ritiene di non poter accogliere la richiesta di Israele di archiviare il caso”.
Il Sudafrica aveva richiesto che la Corte riconoscesse come plausibile l’accusa mossa contro Israele per la violazione degli articoli II e III della Convenzione contro il genocidio nell’ambito dell’operazione militare attualmente in corso nella striscia di Gaza, iniziata in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.
Nello specifico, il Sudafrica chiedeva che la Corte indicasse ad Israele misure urgenti volte a proteggere immediatamente i diritti garantiti dalla Convenzione, cioè il diritto all’esistenza della popolazione palestinese di Gaza, nonché la conservazione delle prove su cui si baserà il futuro giudizio definitivo. In attesa di tale decisione, la Corte, con ordinanza del 26 gennaio 2024, ritenendo almeno alcune delle rivendicazioni del Sudafrica plausibili, ha respinto la richiesta di Israele di archiviare la denuncia del Sudafrica e ha ordinato, vista l’esistenza di un rischio immediato, l’adozione di misure cautelari ai sensi dell’articolo 41 dello Statuto, ricordando anche il carattere obbligatorio dell’ordinanza.
Inoltre, la Corte ha sottolineato l’obbligo per le parti in conflitto di rispettare il diritto internazionale umanitario e ha chiesto la liberazione immediata e incondizionata degli ostaggi.La presidente Donoghue ha anche affermato che devono essere adottate misure per migliorare la situazione umanitaria nella Striscia. Israele deve inoltre adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria urgenti e necessari per affrontare le condizioni di vita dei palestinesi nella Striscia di Gaza.
Il tribunale non ha invece deciso per un cessate il fuoco a Gaza, contrariamente alle richieste del Sudafrica.
L’ordinanza della CIG e le misure cautelari
La Corte deve preliminarmente accertare la propria competenza in conformità alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.
Il ricorrente invoca la propria competenza in base all’articolo 36, paragrafo 1, dello Statuto della Corte e all’articolo IX della Convenzione, entrambi sottoscritti dagli Stati interessati, e chiede l’adozione di misure cautelari prima della sentenza definitiva. A tal fine, la Corte ritiene necessario stabilire innanzitutto l’esistenza di una controversia tra le parti al momento della presentazione della domanda, trattandosi di una questione sostanziale e non formale o procedurale. Su questo punto, la Corte riconosce la presenza di elementi sufficienti per concludere a prima facie in senso positivo.
Riguardo alla presunta violazione, da parte di Israele, degli obblighi previsti dalla Convenzione, la Corte si riserva di pronunciarsi nella sentenza finale. Tuttavia, per quanto concerne le misure provvisorie, la Corte ritiene che alcune azioni ed omissioni imputate da parte del Sudafrica ad Israele possano essere considerate in linea con la Convenzione; pertanto, respinge la richiesta di Israele di cancellare il caso dal ruolo. Pur riconoscendo che siano già avvenuti atti di genocidio, come affermato nel ricorso presentato dal Sudafrica, non sorprende che, nella fase preliminare, la Corte si sia limitata a valutare un reale e imminente rischio di genocidio, vincolata dai tempi e dalla sua giurisdizione specifica per risolvere le controversie internazionali.
È fondamentale evidenziare il ragionamento seguito dalla Corte nella motivazione della propria decisione riguardante i rischi di genocidio. Per quanto concerne le azioni commesse, la Corte ha ampiamente fatto affidamento, come suggerito dal Sudafrica, sulle segnalazioni delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali, citando le dichiarazioni più significative. In particolare, la Corte ha preso in considerazione la dichiarazione rilasciata il 17 gennaio 2024 dal Commissario Generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), al termine delle audizioni.
Per la Corte, “la popolazione civile nella Striscia di Gaza rimane estremamente vulnerabile (…). L’operazione militare condotta da Israele dopo il 7 ottobre 2023 ha comportato, tra l’altro, decine di migliaia di morti e feriti e la distruzione di case, scuole, strutture mediche e altre infrastrutture vitali, nonché massicci spostamenti di popolazione (…). Attualmente, molti palestinesi nella Striscia di Gaza non hanno accesso a beni alimentari di base, acqua potabile, elettricità, medicine essenziali o riscaldamento”.
Per quanto concerne l’intenzione di causare la distruzione della popolazione palestinese a Gaza intesa come “gruppo specifico”, la Corte, basandosi sulle informazioni contenute nel ricorso del Sudafrica, ha voluto esplicitamente menzionare le dichiarazioni dei leader israeliani che avevano legittimamente allarmato molti osservatori. A tale scopo, nel ragionamento dell’ordinanza, vengono riportate le dichiarazioni del ministro della Difesa Yoav Gallant, del Presidente israeliano Isaac Herzog e del ministro dell’Energia e delle Infrastrutture, che nel frattempo è diventato ministro degli Esteri, Israel Katz.
La Corte non ha ordinato esplicitamente l’immediata cessazione delle operazioni militari israeliane, suscitando legittima delusione tra la popolazione di Gaza e coloro che sono soggetti a crescente oppressione in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Tuttavia, questa decisione è in linea con la consueta prudenza della Corte quando si pronuncia in base alla Convenzione sul genocidio. Anche riguardo ai crimini commessi in Bosnia e contro la comunità Rohingya, la Corte si era limitata a esortare gli Stati interessati (Serbia e Montenegro, Myanmar) a prevenire atti di genocidio e a garantire che non venissero commessi dalle forze armate.
È evidente che la Corte non desidera limitarsi a questo, ma ha annunciato la propria intenzione di rivalutare il comportamento di Israele. Alla luce delle specifiche misure cautelari adottate, la Corte ha richiesto allo Stato israeliano di presentare un rapporto entro un mese, richiesta che, come è ovvio, non è stata soddisfatta.
Se i dati che attestano la grande letalità dell’azione militare israeliana a Gaza sono difficilmente contestabili, risulta più problematico dimostrare – anche in via provvisoria – che tali azioni siano supportate da un intento genocida presente tra i vertici del governo israeliano. Il giudice ad hoc Barak ha analizzato i criteri utilizzati nel 2020 dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) per valutare la presenza di un possibile intento nel caso Gambia v. Myanmar, confrontandoli con quelli impiegati dalla stessa CIG nell’Ordinanza del 26 gennaio 2024. Nel 2020, la CIG si era basata su una serie di dettagliate relazioni di una Commissione appositamente incaricata di raccogliere fatti che, nel periodo 2017-2019, aveva presentato alle Nazioni Unite le politiche di “pulizia etnica” del governo nei confronti della minoranza Rohingy. È stato soltanto avallando le conclusioni estremamente dettagliate della Commissione che la CIG ha esercitato il suo giudizio. Il giudice Barak, seguito a questo proposito anche dai giudici Nolde e Sebutinde, ha sostenuto che la CIG non ha applicato uno standard altrettanto rigoroso nel valutare la plausibilità dell’ipotesi di genocidio nel caso di Gaza. In realtà, la CIG si è basata su un numero limitato di dichiarazioni di esponenti politici israeliani, alcune delle quali rilasciate in periodi di intensa agitazione a seguito della strage del 7 ottobre, equiparando Hamas all’intera popolazione palestinese e apparentemente incoraggiando la distruzione di entrambi. Tuttavia, la CIG non ha attribuito lo stesso peso ad altre dichiarazioni provenienti da vertici politici e istituzionali israeliani, secondo le quali gli attacchi aerei miravano esclusivamente a eliminare Hamas, non i palestinesi di Gaza, e l’operazione aveva lo scopo di difendere Israele e liberare gli ostaggi. Durante i combattimenti a Gaza, le forze armate israeliane hanno perpetrato distruzioni ampiamente documentate, uccisioni di civili, espulsioni e attacchi a obiettivi protetti. Tuttavia, è emerso che gli stessi israeliani hanno adottato misure per proteggere i civili e mitigare gli effetti dell’uso della forza. Essi affermano di aver osservato il principio di precauzione nella pianificazione e conduzione degli attacchi, nonché di aver istituito tregue umanitarie e fornito aiuti alla popolazione civile. L’alto numero di vittime civili e le considerevoli distruzioni sono stati attribuiti anche alle azioni illecite delle fazioni legate ad Hamas, che non rispetta il diritto umanitario e detiene centinaia di ostaggi senza comunicarne l’identità. In conclusione, sia Barak che la giudice Sebutinde sottolineano l’importanza di un’analisi basata sul diritto internazionale umanitario, respingendo categoricamente l’ipotesi di genocidio.
Una posizione intermedia è quella sostenuta dal giudice Georg Nolte, il quale ha allegato alla sentenza una dichiarazione in cui si discosta parzialmente dalla maggioranza. Nolte ritiene che il Sud Africa non abbia presentato prove convincenti a supporto dell’ipotesi di un genocidio attualmente in corso. Pur non essendo chiaro cosa costituisca un fatto “plausibile” secondo la giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia, Nolte concorda con Barak e Sebutinde nel considerare insufficienti le prove presentate, specialmente se confrontate con quelle più consistenti su cui si è fondata la Corte nel caso Gambia contro Myanmar. Tuttavia, il giudice prosegue sostenendo che non si può escludere un serio rischio di genocidio, dato il preoccupante linguaggio adottato dai vertici politici e militari israeliani, il quale potrebbe alimentare non solo un incitamento al genocidio, ma anche comportamenti concreti nei confronti dei palestinesi. Nolte afferma quindi che, nonostante al momento non ritenga plausibile un genocidio in atto, è necessario adottare urgentemente misure per contrastare tempestivamente il grave rischio di genocidio evidenziato dall’attuale radicalizzazione del conflitto.
Sotto il profilo pratico e politico, la decisione della Conferenza dei Grandi non sembra avere un impatto significativo, nel breve termine, sulla situazione sul campo. È auspicabile che questa decisione spinga le forze armate israeliane ad applicare i principi del diritto umanitario con maggiore attenzione, sottolineando l’importanza del rispetto sostanziale di tali norme oltre che della loro forma, e sollecitando massima vigilanza da parte delle istituzioni sul dilagare della violenza da parte di milizie estremiste nel resto dei territori occupati e sulla diffusione di discorsi di odio – aspetti su cui giustamente si concentrano le misure urgenti adottate dalla Conferenza dei Grandi. Si auspica inoltre che la stessa evoluzione positiva possa coinvolgere anche gli altri attori del conflitto, sia in Palestina che al di fuori della Palestina.
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