Vita e opere di Lorenzino de’ Medici
a cura di Andrea Romano
<<Tra gl’Italiani che per altro sono quasi privi di scritture eloquenti, l’Apologia che Lorenzino dei Medici scrisse per giustificazione propria, è un esempio di eloquenza grande e perfetta in ogni parte>>.
Questo più che lusinghiero giudizio fu espresso d Giacomo Leopardi nei “Detti memorabili di Filippo Ottonieri“, ma ancora oggi nelle scuole italiane e anche non di raro negli ambienti accademici il nome di Lorenzino è quasi del tutto ignoto tanto da stare in linea con il Carneade di manzoniana memoria.
Anche il Giordani, l’amico del sommo recanatese, nella lettera inviata al marchese Gino Capponi sulla “Scelta dei prosatori italiani“, ebbe, tra l’altro, a scrivere che <<nulla di più eloquente abbiamo come la breve, ma sublime, “Apologia” di Lorenzino dei Medici>>.
Il retore piacentino amava indubbiamente i superlativi e le iperboli: possiamo non convenire sul fatto che la “Apologia” sia <<la cosa più eloquente che abbia tutta quanta la letteratura italiana>>, ma non possiamo non accettare che essa sia un’orazione degna del massimo rispetto e che la cultura “ufficiale” sia molto spesso il risultato non del merito, ma di un circolo vizioso nel quale fortuna, politica e interessi di parte sono gli anelli intercomunicanti di un nodo difficile da sciogliere, molto più di quello di Gordio.
Il 23 marzo del 1514 nacque in Firenze Lorenzino dei Medico, da Pier Francesco e da Maria Soderini, ambedue di nobili ed illustri casate.
Discendeva il figlio di Pier Francesco da Lorenzo, fratello di Cosimo il Vecchio, ed era stato cresciuto nel culto delle libertà repubblicane, che nell’avo paterno, nel padre e nella famiglia Soderini muovevano da un sentimento sincero e profondo corroborato nel tempo, pur nelle costanti incertezze di un periodo storico tra i più travagliati della storia nazionale.
Pier Francesco, dopo aver condotto una vita piuttosto dissipata e aver sciupato gran parte del suo cospicuo patrimonio, si era ritirato nella modesta villa di Cafaggiuolo, dove Maria Soderini, donna austera e tutta dedita all’educazione dei suoi quattro figli, badava alle necessità della famiglia.
Alla morte di Pier Francesco, avvenuta nel 1525, la famiglia ebbe a soffrire gravi ed imbarazzanti ristrettezze economiche e Lorenzino, appena undicenne, pur affidato alle cure della madre, fu posto sotto l’alta tutela di papa Clemente, che affidò a Giovanni Francesco Zeffi il compito di amministrare la villa e di educare allo studio delle lettere il giovane Lorenzino e suo fratello Giuliano.
Dotato di fervido ingegno, sin dalla prima adolescenza Lorenzino mostrò di possedere un animo inquieto, ribelle e mutevole nell’umore.
Nel 1526, lo Zeffi emigrò a Venezia e in quella gaia città Lorenzino trascorse un anno lieto e spensierato, l’unico forse di tutta la sua esistenza, ma il suo animo, esuberante e curioso, cominciò a subire anche i primi guasti.
Di costituzione gracile (per questo motivo lo chiamavano Lorenzino), d’aspetto poco gradevole, eternamente afflitto da una grave penuria economica, ma d’animo molto mutevole e sensibile, Lorenzino era naturalmente portato a vivere in solitudine, che lo faceva apparire cupo e malinconico anche in mezzo alla compagnia più sfrenata.
Due mondi si confondevano perennemente nel suo cuore e il giorno si univa alla notte in un intreccio inestricabile: luce e buio, slanci generosi ed improvvisi abbandoni, gioia esagerata e desolante tristezza convivevano nella stessa persona, in una inarrestabile ridda di pensieri e di sensazioni.
Questa contrastante complessità di sentimenti, che l’odierna psichiatria non esiterebbe a definire “bipolarismo”, si intensificò con il passare degli anni, unitamente ad una sete di dominio e ad una smoderata brama di sogni ambiziosi, che lo portarono ad odiare il genere umano, in primo luogo i potenti, a partire da papa Clemente, con il quale era imparentato e che lo aveva fino ad allora sostenuto e beneficato in tutti i modi ed in ogni circostanza.
Nel 1530 Lorenzino si era trasferito a Roma e nella città santa, quasi come se volesse vendicarsi della sorte avversa che l’opprimeva, cominciò a frequentare gente di vile condizione, postriboli, delinquenti, ma anche quel Filippo Strozzi, che, da cortigiano e consigliere dei Medici, divenne più tardi, per rancori personali, loro acerrimo nemico, a tal punto che non sembra affatto improbabile un suo diretto coinvolgimento nel disegno che più tardi porterà Lorenzino all’assassinio del duca Alessandro, fortemente protetto da papa Clemente, suo padre secondo diversi ed autorevoli studiosi.
Era arrivato a Roma appena da qualche anno e già Lorenzino, secondo quanto racconta il Varchi nelle “Storie fiorentine“, cercava in tutti i modi di infastidire il Pontefice, facendosi <<apertamente beffe di tutte le cose divine e umane>>.
Correva l’anno 1534, quando i romani furono sconvolti da una notizia inaudita: erano state mutilate alcune teste delle antiche statue dell’arco di Costantino e le statue di Apollo e delle Muse nella basilica di S. Paolo fuori le mura.
Informato dell’accaduto, papa Clemente andò su tutte le furie, ordinò di cercare l’autore di quella folle impresa e di impiccarlo all’istante, senza processo.
Non si tardò a scoprire in Lorenzino l’autore del vile misfatto e soltanto l’accorto intervento del cardinale Ippolito, cugino per ascendente maschile, evitò una poco dignitosa morte al figlio di Pier Francesco.
<<L’infamia e il vituperio saranno della casa Medici>>: con queste accorte parole fu placata l’ira di papa Clemente e fu salvata la vita di Lorenzino.
Placata l’ira, a papa Clemente non parve vero di togliersi <<quel vituperio di casa Medici>> dalla vista; a stento Lorenzino, esiliato, riuscì a riparare in Firenze, che, dopo la strenua difesa di Francesco Ferrucci, aveva dovuto nel 1530 aprire le porte a Carlo V, per sottomettersi, l’anno successivo, alla signoria del duca Alessandro, divenuto tale per la concorde volontà dell’imperatore e del papa.
Molte congetture sono state formulate sui motivi che spinsero Lorenzino a mutilare le statue.
Senza perderci nel labirinto delle ipotesi e delle soluzioni a tutti i costi, coerentemente ai dati biografici che stiamo delineando, siamo convinti che Lorenzino, travagliato dalla morbosa brama di fare parlare di sé ad ogni costo, volle compiere un gesto clamoroso, imitando quel famoso Alcibiade, mutilatore delle Erme ateniesi, e a lui così vicino per indole, come appare dal racconto di Catone.
Non fu estraneo al gesto, ma è una nostra congettura, la volontà di dare a Filippo Strozzi un segno tangibile del suo ardire e del suo disprezzo verso coloro che calpestavano le libertà repubblicane.
Orgoglioso di apparire un <<novello Bruto>>, come sarà celebrato dopo l’assassinio del duca Alessandro, Lorenzino andava preparando il suo animo ad un disegno che gli appariva grandioso e che lo avrebbe, pensava, reso immortale agli occhi dei posteri.
L’avversa fortuna aveva resa oscura la sua persona, ma i suoi meriti sarebbero apparsi evidenti un domani: tali pensieri riempivano la mente di Lorenzino e il giovane, appena sedicenne, non smetteva un attimo di immaginare per se stesso un destino immortale.
Scampato alle forche del papa, chiamato da quel momento “Lorenzaccio”, giunto a Firenze il giovane cercò da subito di ottenere l’amicizia del duca Alessandro, suo cugino, riuscendo in breve tempo a diventare il più fidato confidente di un uomo descritto da gran parte dei suoi contemporanei come colui che gareggiò in ferocia con i più scellerati tiranni della storia.
Nato da un amore clandestino di Lorenzo, duca di Urbino, con una contadina di Collevecchio, Alessandro, grazie al concorde volere del papa e dell’imperatore, era divenuto, con sospetta fortuna, duca di Firenze, reprimendo ogni più lieve forma di libertà.
La “Apologia” di Lorenzino si sofferma con foschi colori su Alessandro, rotto ad ogni vizio, dilapidatore delle altrui sostanze, inventore raffinato di tormenti nuovi, falso in ogni circostanza della sua vita, ugualmente perfido nell’ira come nella benevolenza.
Lorenzino dei Medici fu per diversi anni compagno di Alessandro e strumento cieco e docile delle sue ribalderie; per allontanare qualsiasi sospetto sulla sua vera natura e sui suoi intendimenti si fece credere così vile e pusillanime da tremare e fuggire alla vista di qualsiasi arma.
Conosciuto da molti come Lorenzaccio, per l’astuzia e per la capacità che egli aveva di portare a termine ogni suo disegno, era chiamato dal duca Alessandro il “filosofo”, perché sembrava non apprezzare né roba né onori e perché, taciturno e pensoso, si entusiasmava soltanto allo studio delle lettere greche e latine.
Molti, ricorda il Giovio, nelle “Historie del suo tempo“, si facevano beffe di Lorenzino, ma <<alcuni, più accorti, sospettavano che nell’animo suo andasse disegnando e macchinando qualche terribile impresa>>.
Ritratto di Messalina in versione maschile, il duca Alessandro amava uscire di notte, accompagnato da sgherri e sfacciati cortigiani, per introdursi nelle case private e nei postriboli sotto mentite spoglie, al fine di commettere ogni sorte di crimine, né esitava a scalare i muri dei conventi o a profanare la clausura.
Spesso, in queste poco nobili imprese, lo accompagnava Lorenzino, che non esitava a calpestare la propria dignità <<diventando turpe mezzano nel vizio>>.
Diversi storici dell’epoca, anticipando in parte un concetto storiografico che, personalmente ritengo banale, ozioso e privo di logicità argomentativa, ritennero “virtuoso” l’operato di Lorenzino, perché la sua condotta era un abile artificio messo in atto per acquistarsi la familiarità del duca e per portare a compimento un disegno vagheggiato da tempo.
Ho già espresso, senza infingimenti e a chiare lettere il mio pensiero su questo strano postulato.
Non posso, tuttavia, non rilevare che durante l’Umanesimo e, più ancora, durante il Rinascimento, non è raro imbattersi in storici e letterati portati ad ingigantire la realtà e a confondere la vita con la realtà letteraria e con il “gigantismo” delle figure esemplari tramandate dalla latinità e dalla grecità, in una sorta di circolo vizioso a forti tinte di chiaroscuro.
Non manca chi, come Scipione Ammirati, crede di potere fare risalire il mortale proposito di Lorenzino alla morte del cardinale Ippolito dei Medici, fatto avvelenare ad Itri il 10 agosto 1535 dal duca.
Per quanto ci riguarda, siamo convinti che il disegno di morte portato a termine da Lorenzino, ideato e costantemente incoraggiato da Filippo Strozzi, leader degli esuli fiorentini, abbia trovato in Lorenzino dei Medici uno strano interprete, mosso da motivazioni perennemente in bilico tra letteratura, smodato desiderio di rivalsa, rancori personali dettati da ben poco nobili motivi e fantasticherie di mai sopite libertà repubblicane.
La sera del 6 gennaio 1537, ad ogni modo, prospettando una notte d’amore al cugino, insieme al suo servitore Piero di Giovannabate, scannò l’odiato cugino.
Compiuto l’assassinio, lasciò la città e si recò a Bologna, dove non fu creduto dal giudice Silvestri Aldobrandini, benché quest’ultimo fosse di dichiarata fede repubblicana.
In seguito si diresse a Venezia, accolto con grande benevolenza da quel Filippo Strozzi, certamente non estraneo all’intera vicenda.
Mirandola, Costantinopoli, Francia, Venezia furono le successive tappe del suo lungo peregrinare.
A Venezia il 26 febbraio 1548 venne assassinato per mano di due sicari.
<<Chi di spada ferisce, di spada perisce>>.
Odiato e osannato dai suoi contemporanei, Lorenzo dei Medici di Pier Francesco, passato alla storia come Lorenzino, chiamato con disprezzo anche Lorenzaccio, a causa delle molte sue mascalzonate, si configura come il frutto più evidente di una concezione di vita, quella rinascimentale, dove “bene” e “male” perdono la loro valenza e dove l’egocentrismo e il culto della persona si impongono come unici parametri di giudizio etico.
L’uomo e le sue azioni, diversamente giudicate ieri ed oggi, cedono però il passo a due capolavori di rara potenza espressiva, che si impongono per capacità introspettiva, per l’organicità del dettato espositivo e per una lingua chiara, immediata, capace di rendere al meglio stati d’animo e situazioni.
Scritta probabilmente tra il 1534 e il 1536, la commedia “Aridosia” è da ritenere tra le migliori del secolo.
Composta per passatempo del duca Alessandro e rappresentata per la prima volta in occasione delle nozze del duca con Margherita d’Austria, la commedia si pone come esempio emblematico della precocità d’ingegno di Lorenzino.
Aveva ventidue anni il giovane autore e la commedia fu subito unanimemente riconosciuta come la migliore del secolo, dopo, forse, la “Mandragola” del Machiavelli.
L’opera non è originale nell’impostazione scenica e riflette molto da vicino la “contaminatio” latina, mettendo insieme gli “Adelphi” di Terenzio e la “Mostellaria” di Plauto, senza, però, mai cadere nel banale.
Disegnata con maggiore sobrietà e dotata di un acume introspettivo ignoto anche a Terenzio, la commedia, priva di scene lunghe ed ingombranti, senza mai cadere nella tentazione di snervanti soliloqui, ha nella impostazione una profonda aderenza al reale e coglie con sobria efficacia i tratti salienti della classe borghese della società fiorentina del Cinquecento.
L’intreccio, vivace e lineare, si snoda attraverso una lingua colorita, semplice e priva di fronzoli, mediante la quale si eleva la voce della coscienza a condannare il grande sfacelo morale di una società allo sbando, tesa unicamente a conseguire il proprio utile.
Aridosio, chiamato così perché più arido della pomice, nasconde, dietro il volto della fantasia, un vuoto morale, che lo porta a divenire emblema universale di un’umanità sola, indirizzata unicamente a perseguire il soddisfacimento del proprio “io”, in un penoso alternarsi di poche luci e di moltissime ombre.
Al di là delle maschere e dei tipi, giganteggia nella commedia la totale solitudine di ogni essere umano, solitudine addolcita da un finale inaspettato, che poco convince.
Malgrado quanto asserito dall’autore nel prologo, non sembra che Lorenzino abbia scritto altre commedie e non merita alcuna attenzione la notizia data da Antonio Francesco Doni, uno dei più conosciuti “irregolari” del Cinquecento, secondo il quale Lorenzino avrebbe scritto una tragedia, “Fiorenza” e un’altra commedia “Stratagemma dello spedale dei tessitori“.
Se la commedia di Lorenzino è da ascrivere tra la migliore produzione cinquecentesca di questo genere letterario, la “Apologia” da sola darebbe a chiunque un posto privilegiato in qualsiasi panorama letterario.
Scritta in Firenze secondo alcuni, durante l’ultima dimora a Venezia secondo altri, la “Apologia” è <<uno scritto organico, solido, meraviglioso nella sua sintesi, senza vano dispendio di parole, tutto argomenti, con un mirabile legame logico in tutte le sue parti (…), pervaso tutto dello stesso calore, dello stesso sentimento di persuasione. È sentimento che avvolge e trascina anche il più freddo e scettico lettore>>: così scriveva Federico Ravello nel lontano 1936.
L’intera orazione presenta una vivacità stilistica senza precedenti neppure nel mondo greco o romano e il linguaggio è modellato di volta in volta all’argomentazione, senza che venga mai meno la tensione narrativa, avvolgente e calda dalla prima all’ultima battuta.
L’orazione può essere compendiata in cinque punti intimamente e magistralmente connessi:
a) La libertà è un bene inalienabile ed è dovere di ogni buon cittadino combattere la tirannia, per amore della patria e per la salvaguardia della propria dignità (<<Come i tiranni pervertono e confondono tutte le leggi e tutti i buoni costumi, così gli uomini sono obbligati contro a tutte le leggi e a tutte le usanze, a cercar di levarli di terra; e quanto prima lo fanno tanto più sono da lodare>>).
b) Il duca Alessandro era un tiranno tra i più crudeli della storia umana: offendeva i cittadini nelle sostanze, nell’onore e nella dignità. Reso duca, non dalla nobiltà dei natali, ma da Carlo V, aveva con la sua vergognosa condotta vanificata l’investitura imperiale ed era diventato il tiranno per antonomasia.
c) Secondo alcuni Lorenzino non avrebbe dovuto uccidere Alessandro, perché suo servitore, consaguineo e confidente.
Non sono mai stato un suo servitore, perché non ho mai preso alcun compenso. Alessandro non è un mio consaguineo, perché è nato da una donna di infima condizione, maritata ad un vetturale e secondo le leggi divine ed umane, deve essere considerato figlio del vetturale e non di Lorenzo da Urbino. Alessandro, inoltre, non aveva alcun confidente, perché non si fidava di nessuno, neppure della madre, che aveva fatto avvelenare, per togliere di mezzo l’unico testimone rimasto in grado di riferire la sua ignobile origine.
d) Mi accusano di essere stato poco accorto e di non avere saputo sollevare un popolo sbigottito ed avvilito, favorendo l’ascesa di Cosimo.
Non mia è stata la colpa, ma dei fuoriusciti che sono apparsi incerti e titubanti, né io potevo contare sull’appoggio del popolo di Firenze, asservito ed incredulo.
e) La libertà di Firenze non è stata conseguita, ma io non ho alcuna colpa. Ho rischiato la mia vita, ho ridotto in miseria la mia famiglia, ma, se fosse necessario, volentieri darei la mia vita, convinto di andare incontro ad una morte gloriosa.
Appare superfluo negare all’impianto compositivo della “Apologia” gli accorgimenti retorici che sostengono l’intento polemico ed apologetico, né appaiono del tutto originali i principi sui quali si fonda l’orazione, mutuati dalla più genuina tradizione letteraria greca e romana, di Demostene, di Lisia e di Cicerone in primo luogo; quello, però, che veramente entusiasma nella “Apologia” è il forte concetto di persuasione, reso con un periodare concitato, incisivo, nervoso, che trova le sue più profonde radici nell’animo stesso dell’oratore.
Esso, osserva Alessandro D’Ancona, <<è incisivo e vibrante come la punta del pugnale che aveva spento la vita del tiranno di Firenze>>.
Lorenzino non poteva avere la fede e l’entusiasmo per la libertà politica, se non mutuata dai libri e dall’autoconvincimento: fede e libertà politica non sono sentimenti che appartengono alla società cortigiana del Cinquecento italiano. L’esaltamento classico, proprio dell’artista, tuttavia, non è del tutto estraneo all’entusiasmo di una causa fortemente creduta nobile ed eroica, né a quel sentimento di amor patrio, che nel Cinquecento italiano appare forte nella mente e vago nel cuore.
Da questo strano connubio di ideali e di sentimenti, di cuore e di mente, di agognato e di vissuto, nascono le pagine più sentite, solide, potenti, scorrevoli e convincenti della eloquenza italiana, secondo molti ed illustri ingegni.
Singolare figura appare, davvero, Lorenzino dei Medici, il “Lorenzaccio” della celebre tragedia di Alfredo de Musset; strano personaggio, così diverso nella vita, così diverso nella sua poco estesa produzione letteraria; enigma, uomo perennemente dimezzato in bilico tra essere e sembrare, tutto teso a far combaciare gli opposti e le antitesi dell’umana natura, Lorenzino è destinato a rimanere l’uomo dei misteri irrisolti.
Una ulteriore prova delle profonde contraddizioni che turbarono la vita e il “sentire” di un uomo così estraneo anche a sé stesso ci viene fornita dalla sua produzione poetica, poche rime, raccolte e pubblicate per la prima volta dal Ferrai nel 1881 che ci mostrano, nel contempo, il sarcasmo feroce, il desiderio di pace e l’intima agitazione interiore che travagliarono l’animo dell’uomo in tutti i momenti della sua drammatica esistenza.
Non possiamo riportare e commentare tutte le rime di Lorenzino, che, tra l’altro, mettono a dura prova la costanza e l’acume critico del ricercatore, ma non possiamo negare agli appassionati della storia letteraria la lettura di un epigramma e di un madrigale, che, al di là del loro valore poetico, che ci sembra comunque notevole, ben testimoniano la complessità direi “organica” dell’uomo e dell’artista.
Nell’epigramma, intitolato “Lorenzino dei Medici a Giovanni Battista Strozzi“, il sarcasmo feroce, ignoto anche ad autori come Marziale e Giovenale, si evidenzia attraverso un linguaggio poetico chiaro, immediato, pungente e popolare, che ben nasconde la vasta conoscenza degli autori classici e le eleganze dei richiami letterari. Ecco il testo:
<<Lo Strozza giace qui, buona persona,
fu poeta ex tempore, e le foglie
di Febo meritò, ma è tolse moglie,
e in capo non gli entrò poi la corona>>
Più articolato appare il madrigale, senza titolo, imitato palesemente sia da Alfieri che dal Foscolo, che, mentre ripropone reminiscenze petrarchesche, va ben oltre nella riformulazione lessicale, concitata e nervosa: ciò che in Petrarca appariva lezioso e magistralmente artefatto, in Lorenzino si mostra immediato, spontaneo, senza necessità di intermediazione retorica.
<<Vero inferno è il mio petto
Vero infernale spirito son’io,
e vero infernal foco e il foco mio.
Senza fin ardo e son di speme privo
E del’amato obietto
Eternalmente l’alma vista ho persa,
et ostinato in una voglia vivo;
sol di tanto è diversa
la sorte mia dalla perduta gente
che a ragion quella, ed io ardo innocente.
Maladice sovente
Et odia quella il suo fattore Iddio,
ed io chi m’arde laudo, amo, et desio>>
Chi dovesse imbattersi nella lettura attenta e ragionata di questo madrigale, non tarderebbe ad accorgersi che esso si configura come la sintesi quasi di quanto abbiamo asserito in queste poche pagine, che fanno luce sulla vita e sull’opera letteraria di un uomo sconosciuto anche a se stesso, emblema significativo della società cortigiana nell’Italia rinascimentale, pronta nella mente, tiepida nel cuore, alla ricerca di una identità perduta, che la portava a primeggiare sul piano culturale, ma ad essere dimidiata e debole sul piano politico.
Nel corso, poi, di questo lavoro abbiamo in diversi luoghi accennato alla tesi che vuole vedere in Filippo Strozzi il principale artefice del mortale disegno portato a termine da Lorenzino.
Questa nostra convinzione non nasce dal prurito di novità, che spesso circuisce lo studioso, anche il più smaliziato, ma dalla lettura attenta delle lettere che il Lorenzino in diverse circostanze inviò al banchiere fiorentino, lettere, sia detto per inciso, che non hanno alcun valore sul piano stilistico, ma che danno luce ad una vicenda complicata e di non facile soluzione ancora oggi.
Anche se scarse e contrastanti risultano le notizie sull’intera vicenda del complotto, le sei lettere che Lorenzino inviò a Filippo Strozzi tra il 18 gennaio del 1537 e il 26 luglio del 1543 appaiono esaustive sulla fiduciosa familiarità che Lorenzino aveva nei confronti dello Strozzi. Non solo.
Esse ben chiariscono il costante appoggio che lo Strozzi diede sempre al Lorenzino, appoggio politico e finanziario, oltre che morale, con tutte le riserve che il termine comporta nell’ambiente e nella cultura rinascimentale italiana.
L’assassinio di Lorenzino fu certamente organizzato dall’imperatore Carlo V, che non poteva dimenticare la morte del genero Alessandro, al quale aveva dato in sposa la figlia Margherita; restano, comunque, delle grosse perplessità ed alcuni interessanti interrogativi: quando i fuoriusciti fiorentini abbandonarono Venezia, perché Lorenzino rimase da solo, pur sapendo che si attentava alla sua vita?
Filippo Strozzi era morto il 18 dicembre 1538 nella fortezza di S. Giovanni Battista in Firenze, quasi sicuramente suicida per non rivelare i nomi degli esuli.
Perché questi ultimi, pur conoscendo bene il solito legame di amicizia che c’era stato tra Lorenzino e il banchiere fiorentino, permisero che il figlio di Pier Francesco andasse da solo incontro al proprio destino di morte?
Era forse Lorenzino stanco di lottare? Voleva affrontare con dignità e coraggio la morte, per dare alla sua vita quella dimensione eroica alla quale aveva da sempre aspirato, cercando, in tal modo, di vendicarsi di una sorte poco favorevole?
Non esiste una risposta certa e convincente.
Per quanto ci riguarda, siamo intimamente convinti che il Lorenzino cercò la morte, non essendo estranea a questa decisione la lettura degli antichi.
Siamo anche convinti, tuttavia, che la morte da tempo annunciata apparve ineluttabile al Lorenzino solo a seguito della morte di Filippo Strozzi, divenuto il faro e la guida dei fuoriusciti fiorentini.
Fu allora, soltanto allora, che il Lorenzino, ricordando forse la morte di Cicerone, attese sulla strada i sicari di Carlo V, andando con coraggio incontro al suo destino ed aveva nella mente, forse, i celebri versi virgiliani che egli stesso aveva, si dice, scritto di sua mano nella stanza che aveva assistito al feroce assassinio del duca Alessandro:
<<Vincet amor patriae, laudumque immensa cupido>>: vincerà l’amor di patria e l’immenso desiderio di gloria.
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Andrea Romano
Laureato in Lettere classiche, fondatore del disciolto gruppo archeologico di Afragola, Andrea Romano è autore di numerose pubblicazioni a carattere storico, artistico e letterario. Le sue competenze in campo archeologico l’hanno portato a scoprire numerose necropoli e ad individuare l’ubicazione dell’acquedotto augusteo in Afragola, suo paese d’origine. Prossimo alla pensione, attualmente è docente di religione presso la Scuola Secondaria di primo grado “Angelo Mozzillo”, pittore del quale ha scritto l’unica biografia esistente, dopo aver raccolto e analizzato quasi tutte le tele dell’artista afragolese, prima quasi del tutto ignorato. Ricercatore instancabile, ha portato alla luce un manoscritto inedito di Johannes Jørgensen, di prossima pubblicazione.
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