Luci ed ombre della Legge n. 219 del 2017 sulle dichiarazioni anticipate di trattamento

Luci ed ombre della Legge n. 219 del 2017 sulle dichiarazioni anticipate di trattamento

La legge italiana 219/2017 ha normato la complessa problematica della pianificazione anticipata delle terapie in vista delle decisioni di fine vita, soprattutto della fase cosiddetta “terminale” della vita[1]. Lo ha fatto irrompendo in uno scenario sociale e giuridico caratterizzato da una frammentazione delle identità e dalla vigenza di eterogenei codici etici, che rendono difficile la ricerca di punti minimi di condivisione.

Optando per la completa autodeterminazione del soggetto umano che dovrà essere sottoposto a future cure (peraltro, ciò in perfetta sintonia con alcuni principi costituzionalmente garantiti), garantendo l’opportuna informazione sanitaria (ai fini del cosiddetto “consenso informato”) e, peraltro, non senza evitare di configurare anche l’idratazione e la nutrizione “artificiale” come delle cure mediche, la legge 219 del 2017, rifuggendo almeno apparentemente dal rischio di supina adesione ad un preconfezionato modello ideologico, sembra aver focalizzato l’assoluta necessità di valorizzare le personalissime convinzioni di ognuno circa il limite di sofferenza che è disposto a sopportare, sia sotto il profilo fisico che sotto il profilo psicologico.

Dalla consapevolezza dell’oggettiva difficoltà di disciplinare adeguatamente tematiche così intrinsecamente legate alla base valoriale che attiene all’intima essenza dell’essere umano, si è cercato, dunque, di intervenire delineando un impianto normativo alla ricerca di punti minimi di condivisione tra le diverse istanze esercitate, da un lato, dalla cosiddetta ideologia laica e, dall’altro, dalle visioni confessionali, le quali non omettono di fornire indicazioni sul valore ontologico della vita[2].

All’impasse che ha sovente minato le volontà di regolamentare giuridicamente le problematiche legate alla fine della vita in ragione delle molteplici riflessioni che, di volta in volta, hanno cercato di coglierene le innumerevoli implicazioni di natura etica, filosofica e giuridica, la legge 219 del 2017 contrappone, al fine di garantire la massima tutela possibile alla dignità ed all’integrità della persona, l’assoluta necessità di valorizzare le personalissime convinzioni di ognuno circa il limite di sofferenza che è disposto a sopportare, sia sotto il profilo fisico che sotto il profilo psicologico. Essa, vertendo su tematiche eticamente sensibili[3] nelle quali si intersecano una molteplicità di piani, filosofico, scientifico e giuridico che necessariamente devono essere presi in considerazione[4], affronta, così, il difficile equilibrio fra la specificità della coscienza individuale e l’universalità della convivenza civile.

Preoccupandosi di garantire l’autodeterminazione del paziente con preminenza rispetto alle scelte terapeutiche del personale sanitario, sia in conformità degli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione che degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sia delle politiche sanitarie europee[5], ha l’obiettivo di tutelare l’homo dignus[6], libero di poter prendere determinate scelte, cosiddette sensibili, che possono incidere sull’andamento della propria vita o, addirittura, sulla vita stessa e che non possono prescindere dalle convinzioni etiche, filosofiche e religiose che ne sono alla base[7]. La dignità umana passa anche per il riconoscimento della libertà religiosa, dell’identità personale e della libertà di autodeterminazione[8].

E’, dunque, dal riconoscimento del principio di autodeterminazione che si muove per delineare il diritto soggettivo assoluto alla salute non soltanto negli aspetti positivi ma anche nei suoi riflessi negativi, con riferimento, cioè, non al potere di consentire l’attività sanitaria su di sé ma alla facoltà di escluderla e, quindi, di rifiutare cure, terapie ed interventi di vario genere sulla propria persona. Infatti, come tutti i diritti di libertà, lo stesso implica anche la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato e, finanche, di lasciarsi morire.

Del resto, c’è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno. Uno Stato, come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest’ultima scelta[9].

In questa prospettiva, una corretta interpretazione del diritto di autodeterminazione terapeutica consente anche di attuare pienamente il «principio di uguaglianza nei diritti di cui all’art. 3 Cost. che, evidentemente, non va guardato solo nella direzione di assicurare sostegno materiale agli individui più deboli o in difficoltà, come gli incapaci, ma anche in quella di rendere possibile la libera espressione della loro personalità, della loro dignità e dei loro valori»[10].

Ciò, è opportuno precisare, senza implicare necessariamente l’ammissibilità nel nostro Ordinamento del diritto al suicidio assistito[11] o dell’eutanasia[12] che, pur rientrando nelle vicende del fine vita, differisce dalle dichiarazioni anticipate di trattamento per il fatto che queste ultime «forniscono indicazioni in merito alla volontà del paziente, utilizzabili quando non potrà farle valere di persona. Sono uno strumento dell’autonomia della persona e non hanno alcuna implicazione eutanasica necessaria. Possono prevederla o escluderla con clausole precise, qualora fosse legislativamente riconosciuta»[13].

Pertanto, il ruolo cruciale del consenso informato, fondato su un’interpretazione dell’articolo 32 comma 2 che (in rapporto anche all’articolo 13 della Costituzione) riconosce la massima ampiezza possibile all’autodeterminazione terapeutica, viene cristallizzato non già in un diritto di morire quanto in un diritto di rifiutare tutte le cure (anche vitali), in ossequio al principio secondo il quale si può essere sottoposti a una determinata terapia (operando una scelta sull’an ma anche sul quomodo della stessa) unicamente in presenza di un libero consenso informato[14].

In questa prospettiva, le disposizioni anticipate di trattamento, «purché si tratti di dichiarazioni lecite e rispettose dei principi costituzionali»[15], possono dunque rappresentare anche una “terza via”, via media (come tutte le terze vie) tra opposti estremismi che vedono da un lato coloro che sostengono la legalizzazione del suicidio assistito, ovviamente facendo prevalere, nel bilanciamento degli interessi potenzialmente in conflitto, l’inviolabilità della libertà personale e, dall’altro, coloro che, sulla base di un valore-vita ritenuto “non negoziabile” ovvero, come dice Pera, «non negoziabile, non cedibile, non modificabile»[16], concludono che togliere alimentazione e idratazione a un paziente significa togliere la vita.

L’orizzonte di «una legge che perimetri la materia del contendere» senza però andare «sul piano inclinato che porta verso la legittimazione dell’eutanasia»[17] appare, dunque, l’argine giusto non tanto per mediare tra posizioni per loro natura dilemmatiche, ma quasi per scavalcare le contrapposizioni insanabili intrinsecamente legate alla base valoriale che attiene all’intima essenza dell’essere umano, ontologicamente caratterizzate da personalissima ed ineliminabile mutevolezza, perché aderenti al modo di essere di ognuno. In tal senso, la legge 219 del 2017, pare certamente avvicinare il raggiungimento dell’obiettivo di garantire la massima tutela possibile alla dignità e all’integrità della persona in tutte le situazioni di incoscienza ed incapacità, in un contesto tecno-scientifico caratterizzato dalla moltiplicazione dei casi di cronicizzazione della malattia e delle sofferenze legate alla stessa, sempre più dilatate nel tempo.

Tale legge, rifuggendo dal rischio di supina adesione ad un preconfezionato modello ideologico e cercando di incrementare la tutela delle persone deboli (come prepotentemente emerge dal quadro costituzionale) in riferimento alle drammatiche contingenze che scaturiscono dalla moltiplicazione dei casi di cronicizzazione della malattia, accoglie il paradigma di un diritto non come “regola di supremazia”, a come “regola di compatibilità” tra valori, paradigmi e significati di vita differenti attraverso l’elaborazione di soluzioni che compendiano ragionevolmente le motivazioni metafisiche con la razionalità laica attraverso un approccio attento ad ogni prospettiva visuale e rispettoso, per quanto possibile, dei diversi valori religiosi[18].

Orbene, tale legge pur ponendo fine alla perdurante assenza di una disciplina legislativa che regolasse le cosiddette direttive anticipate di trattamento[19] e pur rappresentando senza dubbio un punto di svolta per il nostro ordinamento giuridico, non può non suscitare qualche perplessità.

Certamente rischioso appare la mancata previsione di un obbligo di aggiornamento periodico delle dichiarazioni anticipate di trattamento, su cui si innesta la possibilità per il medico, in accordo con il fiduciario, di disattenderne concretamente il contenuto ove le ritenga incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione. Invero, solo la previsione di un siffatto meccanismo di aggiornamento potrebbe assicurare la persistente corrispondenza del contenuto delle dichiarazioni alle scelte di campo operate dal paziente ed al suo modo di concepire la malattia, scelte la cui formulazione deve necessariamente fondarsi su di una informazione continua ed aggiornata circa la progressione della malattia stessa ed altresì circa gli strumenti diagnostici e terapeutici idonei a fronteggiarla. Solo in tal modo, infatti,  sarebbe neutralizzato il pericolo legato all’astrattezza e alla genericità delle Dat che intervengono a distanza psicologica e temporale tra la condizione in cui le dichiarazioni vengono redatte e la situazione reale di malattia in cui esse dovrebbero essere applicate. Al contrario, la non obbligatorietà di un aggiornamento periodico delle Dat, accompagnata dalla eventuale scarsa competenza tecnica di chi le elabora, rischia concretamente di ingenerare la persistente vigenza di dichiarazioni ambigue e distoniche rispetto alla realtà fattuale, espressive di un’autodeterminazione soltanto formale, destinata inevitabilmente ad essere poi posta nel nulla sulla scorta del differente accordo intercorso tra medico e fiduciario.

Ancora, oltre all’assenza di chiarezza della normativa in esame su quale sia il campo operativo ritagliato all’istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno (la cui disciplina si ritrova all’interno dell’art. 3 co. 4 che sembrerebbe dedicata alla sola persona inabilita), ossia in quali situazioni possa conferirsi allo stesso il potere di assumere decisioni relative alla gestione della salute del beneficiario, dubbi si profilano anche in ragione del fatto che, nella medesima disposizione, si richiama la sola tutela della «salute psicofisica e della vita» che, in assenza di un riferimento agli altri valori fondanti la relazione di cura (quali ad esempio la dignità, l’autodeterminazione e l’integrità), «apre il campo al pericolo di una disparità tra soggetti capaci e incapaci di autodeterminarsi in ambito sanitario», rispetto ai quali potrebbe prospettarsi una preclusione interpretativa della possibilità di rifiutare le terapie di sostegno vitale sia pure sproporzionate[20].

Perplessità emergono anche in ordine al fatto che, a differenza del precedente testo di cui al progetto di legge A. C. 1142-A[21], oltre a non contenere una specifica disciplina del testamento biologico (quale contenitore di un insieme di determinazioni relative alla gestione della sfera intima e personale, destinato a ricomprendere anche le disposizioni anticipate di trattamento), non contempla neppure l’ipotesi in cui il paziente sia caduto in stato di incoscienza o di impossibilità di comunicare senza aver preventivamente redatto le Dat.[22]

Allo stesso modo, pur attribuendo enorme rilievo alla figura del fiduciario quale “alter ego” del paziente nella ricostruzione della sua effettiva volontà, in specie nell’ipotesi in cui siano venute meno la coscienza e la comunicazione[23], la legge 219 del 2017, a differenza di quanto previsto dall’art. 2 del progetto A. C. 1142-A, non ne indica una definizione utile sia per la comprensione della successiva disciplina[24] sia per evitare che la stessa possa risentire di future oscillazioni giurisprudenziali.

Analogo rischio si pone in relazione al limite assai vago e dal contenuto suscettibile di molteplici decodificazioni “della contrarietà alla legge, alla deontologia professionale e alle buone pratiche clinico assistenziali” cui il paziente è sottoposto nel formulare al medico le sue richieste circa l’iter terapeutico.

Tale scelta legislativa, così, oltre a far sorgere il timore che si sia voluta creare “un’uscita di sicurezza” per i medici che sarebbero legittimati “a non rispettare la volontà espressa dal paziente, vanificando, attraverso un’equiparazione tra legge e fonti deontologiche, il percorso virtuoso intrapreso sul piano normativo”[25], non elimina neanche (con grave nocumento alla tutela della persona sofferente) sia i problemi che possono sorgere dal mancato riconoscimento nel testo del diritto di obiezione di coscienza per il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie[26], sia quelli che possono ancora emergere non appena ci si allontani dal livello dei principi generali dell’ordinamento per approdare ai casi concreti.

Circa la prima importante questione, nonostante la libertà di coscienza sia in Occidente uno dei pilastri fondativi dell’ordine costituzionale della modernità[27], la legge non contempla espressamente la possibilità per il medico ed il personale sanitario, in ragione dei più intimi ed irrinunciabili convincimenti etici, filosofici e religiosi, di non osservare ciò che la norma giuridica positiva impone come obbligatorio in tema di DAT[28].

Indubbiamente, il valore dell’autonomia professionale del medico è stato esplicitamente riconosciuto dalla Corte costituzionale già con la sentenza n. 282 del 2002 nella quale si afferma che la regola di fondo dell’attività professionale del medico è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione.

Il medico, così, appellandosi all’autonomia professionale, può legittimamente rifiutare un trattamento richiesto dal paziente, argomentando che, in base alle conoscenze scientifiche disponibili e del quadro clinico del paziente, quel determinato trattamento è inappropriato nel caso specifico.

L’esercizio dell’autonomia professionale, però, è fondamentalmente diverso dalla possibilità per il sanitario di inottemperare ad un comando normativo per motivi di coscienza.

La prima, facendo riferimento alla scienza medica e al quadro clinico del caso di specie (parametri oggettivi), può pertanto essere valutata positivamente o negativamente dalla comunità medica, la seconda si fonda invece sulla coscienza individuale e su intimi ed irrinunciabili convincimenti etici, filosofici e religiosi, che non richiedono di essere validati come veri o corretti dalla comunità di riferimento, bensì solo di essere rispettati come manifestazione della dignità e dell’identità della persona.

Inoltre, se è vero che nella sfera bioetica il ricorso all’istituto dell’obiezione non può certo assurgere a soluzione definitiva in ordine alle complesse trame, sovente problematiche, che ne stanno alla base, è parimenti vero che in tale settore l’obiezione di coscienza si presenta, spesso, proprio come soluzione “ultima”[29], eppure necessaria, alla quale ricorrere quando attorno a determinate situazioni non sia stato possibile pervenire a soluzioni normative compatibili con i valori rimasti inespressi nella regolamentazione legislativa[30].

Ebbene, se l’autonomia professionale del medico trova senz’altro tutela nella legge numero 219 del 2017 all’articolo 1, comma 6 (ma si pensi anche a quanto stabilisce l’articolo 4, comma 5), la mancata regolamentazione nel testo della legge del diritto di obiezione di coscienza desta, dunque, non poche perplessità poiché ci si trova dinanzi ad una materia particolarmente sensibile alle istanze etiche, oltreché mediche, dalle quali dovrebbe derivarne, coerentemente, il riconoscimento del diritto di obiettare in favore di chi si ritenesse impossibilitato ad ottemperare al comando normativo per motivi di coscienza. Così, nel conflitto di coscienza tra l’ubbidienza al comando di legge e l’osservanza delle proprie convinzioni interiori, meriterebbe riconoscimento la possibilità per il soggetto che vuole affermare valori e doveri ritenuti superiori ai suoi stessi interessi o a quelli della comunità[31].

Del resto, se la coscienza individuale rappresenta «un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall’assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili»[32], è allora proprio attraverso l’esercizio del diritto all’obiezione di coscienza che «le ragioni di Antigone e quelle di Creonte»[33], ciasciuna espressione di una differente identità, riescono a convivere in un equilibrio sempre precario che ogni volta deve essere ricercato nella concreta applicazione.

Dall’esame della legge 219 del 2017, l’unica disposizione che attualmente potrebbe costituire indirettamente un fondamento al diritto di obiezione di coscienza è l’articolo 1 che, al comma 6, stabilisce che il paziente non possa «esigere trattamenti sanitari contrari […] alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali» e, al comma 9, prevede che «ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale»[34].

In particolare, se il comma 9, richiedendo pur sempre una mediazione interpretativa per attualizzare e concretizzare le richieste pervenute in ragione delle specifiche modalità organizzative della struttura sanitaria interessata (fornendo, così, del medico una immagine non di mero esecutore della volontà del paziente) potrebbe evocare anche il tenore dell’art. 9, comma 4, della legge numero 194 del 1978, laddove si prevede che nonostante l’esercizio del diritto di obiezione di coscienza «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare» i trattamenti interruttivi con modalità organizzative che comprendono il controllo da parte delle Regioni che possono ricorrere anche alla mobilità del personale, il comma 6 dell’articolo 1 potrebbe operare un rinvio al codice di deontologia medica.

Questo, infatti, nella sua attuale formulazione, distingue tra l’esercizio dell’autonomia professionale del medico e la possibilità per il sanitario di inottemperare ad un comando normativo per motivi di coscienza.

Non a caso il codice di deontologia medica all’articolo 13, comma 2, riconosce inequivocabilmente al personale medico e sanitario autonomia nella programmazione, nella scelta e nella applicazione di ogni presidio diagnostico e terapeutico, anche in regime di ricovero, fatta salva la libertà del paziente di rifiutarle e di assumersi le responsabilità derivanti dal rifiuto stesso. E’ evidente, quindi, che da un lato è riconosciuta  una sfera adeguata e legittima di autonomia in capo al medico, esercitata secondo scienza e coscienza e, dall’altro, in una prospettiva di simmetrica corrispondenza, è garantito  il diritto del paziente di rifiutare la terapia e non quello di imporre al medico una terapia diversa da quella rifiutata. Ad ulteriore conferma di quanto appena detto, del resto, il comma 6 dell’articolo 13 del codice di deontologia medica dispone che in nessun caso il medico dovrà accedere a richieste del paziente in contrasto con i principi di scienza e coscienza allo scopo di compiacerlo, sottraendolo alle sperimentate ed efficaci cure disponibili[35].

Allo stesso modo, nel discorrere di obiezione di coscienza in materia sanitaria, l’articolo 22 del codice di deontologia medica, valorizzando la sfera dell’autonomia diagnostico – terapeutica riconosciuta al personale medico, prevede che il sanitario al quale vengono richieste prestazioni che contrastino con la sua coscienza o con il suo convincimento clinico, può certamente rifiutare la propria opera. Ciò a meno che tale comportamento non sia di grave ed immediato nocumento per la salute della persona assistita.

Una simile disposizione consentirebbe, dunque, da un lato di pervenire ad una esatta distinzione tra il convincimento clinico e le ragioni di mera coscienza del medico e, dall’altro, permetterebbe di riconoscere alla coscienza individuale del sanitario uno spazio di espressione maggiore di quello che risulterebbe riconosciuto dalle tassative ipotesi di legge.

Del resto, se nel nostro ordinamento vige il principio della volontarietà dei trattamenti sanitari, principio che trova il suo limite e l’unica eccezione nelle sole ipotesi previste dalla legge, è anche vero che deve essere garantito il rispetto per la dignità e della persona umana, quest’ultima da intendersi non solo «in senso solo fisico ma anche come portatrice di idee e convinzioni»[36].

Attraverso tale lettura sarebbe così possibile contemplare, seppur in maniera indiretta, l’obiezione di coscienza attraverso la valorizzare dell’autonomia professionale del medico nell’ambito della relazione terapeutica. Autonomia che fungerebbe, pertanto, da contrappeso al principio del consenso informato[37] e che, insieme ad esso concorrerebbe a salvaguardare, preservando senza prevaricazione le rispettive volontà, i diversi spazi di libertà, quello del medico e quello del paziente.

Eppure, una simile interpretazione dell’articolo 1, comma 6, in combinato disposto con l’articolo 22 del codice deontologico, risulta non del tutto convincente.

In primo luogo perché la valorizzazione ex art. 1 co. 6  dell’autonomia professionale del medico nell’ambito della relazione terapeutica oltre a fondarsi su concetti intrinsecamente mutevoli ed elastici non può mai concretizzarsi in un’obiezione di coscienza al rifiuto preventivo di cura. Ciò, infatti, significherebbe imporre coattivamente e al di fuori dai casi previsti dalla legge un trattamento sanitario non solo travalicando così i limiti dell’autonomia consentita ma anche contrastando ingiustificatamente l’attuazione stessa sia della normativa in materia di DAT che dei principi costituzionalmente garantiti. Del resto, un punto, in tal senso deve essere chiaro: «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» (art. 32 Cost.).

Inoltre, tale ricostruzione non appare convincente anche se si considera che l’autonomia professionale del medico è cosa ben diversa dall’esercizio dell’obiezione di coscienza poiché mentre la prima si riferisce a parametri oggettivi (la scienza medica e il quadro clinico del caso di specie) sui quali, pertanto, può intervenire la comunità scientifica di riferimento, la seconda è, invece, retta da personali convinzioni morali del medico che, in quanto espressione della dignità e della identità della persona, necessitano solo di essere rispettate e non di essere vagliate da alcuna comunità.

Certamente l’istituto dell’obiezione di coscienza in materia bioetica appare oggi quanto mai centrale, soprattutto in considerazione del rapido evolversi delle conoscenze scientifiche e, nonostante la dottrina, innanzi alla emersione di nuove fattispecie di obiezione di coscienza[38], abbia tentato di individuarne comunque un inquadramento giuridico attraverso la distinzione tra obiezioni secundum legem ed obiezioni contra legem (o sine lege), l’assenza di una espressa previsione legislativa ed il ricorso all’applicazione analogica dell’istituto laddove previsto in ipotesi simili oppure ai principi generali e ai diritti fondamentali del nostro Ordinamento giuridico, non riesce ad eliminare i dubbi di un’applicazione atecnica dell’istituto dell’obiezione.

Non a caso, la tutela dell’obiezione di coscienza richiede generalmente un’espressa previsione normativa proprio per definirne i confini e per permettere che essa sia esercitata «in modo da non arrecare pregiudizio al buon funzionamento delle strutture organizzative e dei servizi d’interesse generale» (sentenza numero 467/1991).

Il mancato riconoscimento nel testo della legge numero 219 del 2017 del diritto di obiezione di coscienza per il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non può non generare, dunque, dilemmi, limiti, paradossi e scetticismi sui quali necessariamente, a parere di chi scrive, si dovrà fare chiarezza ai fini di una più semplice e coerente comprensione ed attuazione, sia per quanto riguarda gli aspetti materiali che per quanto riguarda quelli prettamente etici, della disciplina relativa alle disposizioni anticipate di trattamento.

Del resto, l’attuale assetto normativo che riconosce il diritto per il paziente di rifiutare le cure mediante l’utilizzo delle DAT, ha prodotto una inevitabile frattura tra gli operatori sanitari, fra i sostenitori della tesi della sacralità ed indisponibilità del bene giuridico vita e quanti, invece, sostengono la disponibilità dello stesso bene in funzione di una dignitosa qualità dell’esistenza.

Ora, è chiaro che attraverso le disposizioni anticipate di trattamento circa l’attivazione o l’omissione di interventi sanitari il firmatario esprime il proprio orizzonte morale (sia esso religioso, filosofico, fideistico o laico) e la propria concezione in ordine a delicati momenti della sua esistenza. Attraverso tali disposizioni non è tanto il contenuto materiale dell’atto (attivo o omissivo) a costituire la sua qualificazione decisiva dal punto di vista etico quanto, piuttosto, il senso di quell’atto, l’intenzione che ad esso presiede, il fine inteso e, quindi, la coscienza del firmatario in ordine a problemi esistenziali[39].

Se, pertanto, attraverso le disposizioni anticipate di trattamento si valorizza la manifestazione di volontà del paziente in relazione alle esperienze vissute, alla fede posseduta e al senso personale del vivere, non si comprende il silenzio della legge in ordine alla possibilità che il medico si trovi a dover operare indipendentemente dai dettami della propria coscienza.

Una legge che impone di rispettare le volontà del malato precedentemente espresse circa l’attivazione o meno di determinati iter terapeutici, attribuendo una così forte rilevanza alle personali concezioni etiche sul senso della vita, della morte e della malattia, non può, dall’altra parte non riconoscere al sanitario il diritto di non agire nel modo che reputa contrario al proprio «senso dell’importanza morale di una persona, anche se quest’ultima preferirebbe che lo facesse»[40].

In altri termini, non è possibile in nome della libertà di autodeterminazione e di coscienza del malato limitare radicalmente la libertà di coscienza del medico che intende rimanere fedele al proprio codice etico.

Il malato ha il diritto ad autodeterminarsi in relazione al proprio corpo, ma ciò non dovrebbe in alcun caso significare per il medico un obbligo ad esercitare la propria professione contro i valori cui egli si ispira.

Ovviamente assicurando che la garanzia della sfera di autonomia professionale e del foro interno del sanitario si incardini in un Servizio sanitario nazionale che nel suo complesso organizzativo, nonostante il rifiuto del singolo sanitario dovuto a ragioni di autonomia professionale e morale, sia capace di predisporre tutte le misure atte a garantire che l’interruzione del trattamento medico sia comunque garantita al paziente che ne faccia legittima richiesta.

Sarebbe auspicabile, pertanto, una modifica della legge in esame che a quelle garanzie che la legge attualmente riconosce al paziente, cioè la possibilità di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario proposto dal medico e di rinunciare a qualsiasi trattamento già in corso, affianchi comunque, a presidio di un ordine etico diverso da quello concretamente costituito[41], il riconoscimento espresso dell’obiezione di coscienza per il sanitario.

Tuttavia, innanzi all’obiettivo di fondo di questa legge di valorizzare le personalissime convinzioni di ognuno circa il limite di sofferenza che è disposto a sopportare sia sotto il profilo fisico che sotto il profilo psicologico, il nodo problematico dell’aspetto interpretativo della volontà del dichiarante chiama in causa, oltre al medico, anche altre figure professionali.

Infatti, a confrontarsi con il contenuto di un documento  redatto da un soggetto diverso da colui che è chiamato a darne poi efficacia vi è anche il notaio che la legge n. 219 del 2017 ha indicato tra coloro che possono ricevere e/o autenticare le dichiarazioni rese da un soggetto, ancora capace, circa la futura somministrazione di trattamenti terapeutici[42].

Così, il notaio che, secondo l’art. 27 della legge notarile[43], deve prestare la sua attività a chiunque gli richieda di ricevere o autenticare un atto conforme alla legge, è chiamato ad indagare la volontà dispositiva del dichiarante e ad attestarne o meno l’autenticità. Pertanto, innanzi a disposizioni anticipate di trattamento, lo stesso sarà chiamato anche a valutare se le stesse abbiano un fondamento consapevole e se, quindi, appaiano il frutto dell’esercizio di un effettivo consenso informato.

Nella sua funzione certificativa se certamente il notaio non dovrà compiere un’indagine sulla volontà terapeutica del disponente dovrà, tuttavia, provvedere ad un’idonea e propedeutica attività istruttoria dalla quale sia in grado di conoscere le reali intenzioni del soggetto coinvolto.

Dunque, in qualità di pubblico ufficiale, il notaio, nel predisporre un atto che rispetti la legge, deve farsi carico di accertare che il dichiarante abbia acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte[44].

Del resto, se «il disponente, dice la legge, deve avere preventivamente acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue Dat», «di questa preventiva acquisizione il notaio, sicuramente, dovrà darne atto nelle Dat a suo rogito»[45].

Invero, in tal modo, l’attività certificativa del notaio sarebbe finalizzata ad un esito meramente certificativo tanto dell’identità del disponente quanto delle circostanze di tempo e di luogo in cui le disposizioni sono state rese e delle modalità con cui sono state acquisite le informazioni mediche. In ragione di ciò, il notaio, nel prendere atto che il dichiarante ha acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, se non è tenuto a farsi coadiuvare da un medico certamente potrà richiamare nell’atto un documento medico o addirittura allegarlo così da evitarne la disapplicazione da parte del medico.

Proprio l’esigenza fondamentale di conservare la volontà espressa dal disponente in ordine ai futuri trattamenti terapeutici di cui si fa carico la figura del notaio che, anche attraverso la sua attività istruttoria e poi redazionale, deve valorizzare tutte quelle informazioni atte a ricostruire il quadro clinico e personale del soggetto la cui dichiarazione dispositiva deve autenticare, non è ammesso che questi  dinanzi ad un contenuto ritenuto contrario al proprio indirizzo etico possa sollevare un’obiezione di coscienza.

Infatti, fermo restando il generale obbligo di prestare il suo ministero «ogni volta che ne è richiesto» e salvo che l’atto richiesto sia espressamente proibito dalla legge, contrario all’ordine pubblico o al buon costume (articoli 27 e 28 della legge notarile), il notaio, che, si ribadisce, interviene con funzioni sostanzialmente solo certificative, esercita la sua attività professionale in un preciso e circoscritto segmento temporale  dell’iter che conduce all’estrinsecazione della volontà del disponente.

Così, un rifiuto alla ricezione o all’autenticazione delle Dat da parte di tale figura professionale non solo non può trovare una giustificazione logico-razionale, giacché non sarebbe ipotizzabile consentire l’adesione o meno alla mera attestazione di una altrui volontà ma appare anche contraria alla ratio legis dell’obiezione di coscienza che richiede che l’atto in sé, anche se inserito in una sequenza causale, sia dotato di una intrinseca attitudine, sia astratta che concreta, a violare un personale precetto morale o religioso[46].

Del resto, proprio l’intento di garantire un servizio pubblico al cittadino che ne faccia richiesta piuttosto che dilatare le maglie dell’obiezione di coscienza  risulta essere alla base dell’art. 1, co. 3 della l. n. 219/2017 quando prevede chiaramente che il consenso del paziente o il rifiuto delle terapie siano espressi dopo avere acquisito informazioni in modo completo, aggiornato e comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi di accertamenti diagnostici e di trattamenti sanitari, alle possibili alternative, alle conseguenze del rifiuto degli stessi o della loro successiva rinuncia.

Se, allora, il notaio deve limitarsi a certificare che il consenso o il dissenso paziente rappresenta una conseguenza delle informazioni  fornite dal medico nell’ambito del rapporto terapeutico alla cui dinamica lo stesso prende parte solo nella sua fase terminale, a comportamento analogo si deve conformare anche il pubblico ufficiale che presta servizio presso l’Ufficio dello Stato civile del Comune ove il disponente risiede e presso il quale si reca personalmente per consegnare la scrittura privata contenente le Dat. Questi, infatti, investito di un peculiare munus publicum per il quale è tenuto non solo ad adempiere personalmente all’obbligo giuridico ma anche a farlo rispettare attraverso l’attività esecutiva del suo ufficio, deve procedere (come del resto la stessa l. 219 del 2017 indica) all’annotazione della Dat nell’apposito registro (ove istituito) assicurando un pubblico servizio al quale non può evidentemente sottrarsi e rispetto al quale non gli è richiesta né consentita alcuna manifestazione di adesione o disapprovazione in ragione di un generico conflitto tra coscienza e obbligo di legge[47].

Per quanto riguarda, invece, i problemi che possono emergere non appena ci si allontani dal livello dei principi generali per approdare ai casi concreti, la legge 219 del 2017 ancora nulla dice sulla necessaria predisposizione di diverse strategie ed approcci di assistenza sanitaria capaci di assicurare che gli obblighi comunicativi connessi al consenso informato vengano declinati in modo da favorire un incontro terapeutico attento anche alle diverse istanze ingenerate dalla diversità identitarie e culturali. Differenze culturali delle quali, naturalmente, la religione costituisce una delle matrici più rilevanti, se non la principale.

Del resto, in una società caratterizzata da schemi differenti di concettualizzazione della salute e del corpo, delle sue funzioni e dei suoi significati, il nodo cruciale dell’incontro tra culture e religioni diverse deve assumere carattere imperativo ineludibile per qualsiasi progetto sanitario e piano di welfare che devono, al fine di ottimizzare gli interventi ed i benefici della cura, procedere verso un cambiamento di paradigma della medicina e degli interventi sanitari delineando «percorsi di traduzione e, per così dire di interfacciamento, interculturale dell’assistenza sanitaria e del comportamento del personale medico»[48].

In tal senso, la possibilità di decidere del malato presuppone una relazione personale tra medico e paziente fondata sulla comunicazione e sulla capacità di quest’ultimo di comprendere l’informazione. Naturalmente, il rapporto tra medico e paziente è non solo un incontro tra soggetti diseguali e completamente sbilanciato dalla parte del medico, depositario di un sapere esclusivo, ma anche un’impresa condotta principalmente tra estranei che non si conoscono e che spesso non condividono gli stessi valori[49].

La disponibilità del medico alla comunicazione è, dunque, condizione necessaria ma non sufficiente[50]. Infatti, se è vero che i diversi orizzonti cultuali agiscono, oltre che a livello confessionale e in eventuale tensione od opposizione alle istanze di una medicina laica, quali fattori antropologici diluiti, appunto, negli ambiti culturali stratificati in modo più o meno inconscio nella mentalità dei singoli, allora sarà anche necessario, per poter affrontare le problematiche del fine vita, ovvero dei trattamenti sanitari da somministrare in condizioni limite di sofferenza o di decorsi patologici terminali, inquadrare, secondo una stategia laica di gestione degli equilibri tra lessico dell’uguaglianza e tutela delle differenze, anche interculturalmente vita e morte all’interno di una ulteriore evoluzione della prassi medico-paziente. Sarà così possibile, approdando a percorsi relativamente condivisi, gettare un ponte che faciliti, nel rispetto della diversità e della libertà del paziente, gli auspicati processi di integrazione democratica dei migranti e delle loro differenze etniche e religiose[51].

Ai fini della compliance del paziente e di una corretta gestione della relazione terapeutica, è necessario che il medico sia capace di comprendere il paziente, di intercettarne la cultura, l’universo di senso e le aspettative e di gestire con lui l’iter terapeutico in modo tale da assicurarne la massima efficienza in relazione ai diversi patrimoni culturali e di senso coinvolti.

Occorre, dunque, declinare il rapporto tra sanità e variabili culturali e cultuali in modo da approdare a soluzioni transattive interculturali che, attraverso una relazione personale tra medico e paziente, fondata anche su informazioni di tipo antropologico-religioso, rendano possibile il soddisfacimento anche di interessi religiosi ed il passaggio dalla complementarietà all’interconnessione tra approccio biomedico e approccio antropologico[52].

Ai fini di una corretta ed efficace risposta terapeutica, al medico spetta pertanto il difficile compito di riconoscere la peculiare diversità delle specificità culturali di ciascun paziente adattando ogni singolo intervento sanitario ai differenti bisogni, culturalmente connotati, privilegiando il dialogo per conciliare libertà comune e appartenenza specifica[53].

Se certamente risulta impresa non facile per il medico prescindere dalla propria visione del mondo, dalla propria scala di valori e da una prospettiva che orienta anche il suo operare nella scelta e nella informazione al paziente di fronte ad alternative terapeutiche possibili, si deve anche considerare che all’autonomia del medico si contrappone quella del paziente, quale persona che si rivolge ad un professionista, non solo per chiedere un aiuto o un parere tecnico, ma anche per avvalersi del suo sapere e delle sue competenze per giungere ad una scelta che non sia più di dipendenza.

In questa ottica, allora, la formazione del medico dovrà essere improntata al superamento delle concezioni dogmatiche e riduttive in medicina e all’acquisizione di conoscenze e nozioni di ordine psicologico, antropologico, etnologico relative alle concezioni di vita e della morte, della salute e della malattia che gli permetteranno di inquadrare il paziente.

Si tratta, di fatto, di promuovere una coscienza bioetica orientata alla comprensione di culture diverse, preparando il personale sanitario, anche grazie al supporto di antropologi e di “mediatori culturali”, ad una cultura dell’accoglienza e della solidarietà nella prospettiva di una medicina transculturale e nella osservanza della deontologia e della legge.

Fornire un supporto anche di professionisti nella mediazione linguistico-culturale che agisca come ponte di collegamento tra personale sanitario e paziente[54] se indubbiamente presenta numerose sfide[55], sia a livello individuale che di organizzazione, faciliterebbe enormemente l’interazione medico-paziente e garantirebbe un maggior livello qualitativo proprio nelle prestazioni sanitarie[56].

Così, avere competenze interculturali, significa riuscire a superare i propri pregiudizi personali e professionali, migliorare la comprensione e la consapevolezza della diversità, della cultura, della marginalità e dell’esclusione, adeguare a situazioni particolari ed individuali i propri modi di agire.

Significa, quindi, poter comunicare, individuare i percorsi di senso dell’altro, essere in grado di sviluppare una relazione terapeutica con un paziente proveniente da un’ altra cultura, riuscire ad adattare la diagnosi e il trattamento tenendo conto anche della differenza culturale[57].

Si discute, pertanto, di instaurare una relazione medico-paziente orientata verso la modalità del to care, cioè di un trattamento mirato non solo sulla malattia ma anche sull’individuo. Un trattamento che non deve essere finalizzato al solo processo di guarigione ma che deve prevedere protezione, sollecitudine e l’attivazione di dinamiche interpersonali: una responsabilità rivolta alla persona e non al singolo evento malattia.

Approdare in tal senso a soluzioni che permettano la promozione, non solo nei luoghi naturalmente preposti alla formazione quali scuole, università e altri luoghi di formazione [58], di un approccio interculturale, quale reciproca conoscenza e comprensione tra le diverse culture e religioni attraverso un confronto dialettico, consentirebbe un maggior grado di inclusione in una società capace di favorire una comunicazione interattiva[59].

Tutto ciò con la finalità di garantire uguaglianza dei diritti a chi è differente ed un confronto sulla base di una condivisione delle regole comuni sulla concezione del bene in cui le differenze non si annullano mentre la soggettività, nella sua diversità, viene riconosciuta.

L’obiettivo, di immediata concretezza, è quello di enfatizzare la personalizzazione delle relazioni e di generare anche percorsi di traduzione tra i diversi schemi culturali per integrarli nel discorso sanitario e nella quotidianità della prassi clinica (nuove esisgenze della cosiddetta “mediazione culturale”)[60].

Ciò permetterebbe anche al Servizio Sanitario Nazionale di amministrare più efficacemente le problematiche inerenti alla gestione della diversità e consentirebbe al medico di superare le barriere comunicative dovute ai diversi codici culturali di appartenenza, di intercettare le aspettative del paziente coniugandole con le esigenze di cura e, quindi, di gestire in modo cooperativo con il malato le delicate questioni etico-sanitarie[61].

Come è stato opportunamente sottolineato, si dovrà tenere conto del fatto che il «complesso unitario ed omogeneo, livellatore di tutte le differenze, che la “ideologia del medesimo” tende a costruire, viene minato alla base da queste rivendicazioni di libertà, per quanto intimamente contraddittorie»[62].

In tal senso, pertanto, non si può prescindere dal considerare l’altro – che sia esso straniero, differente o, in qualche modo, diverso – proprio perché spesso è “diversissimo” non solo nel modo di “pensare” al mondo, alla vita, al diritto, alla società, alla religione, ma anche nel modo di concepire la salute.

Quest’ultimo bene giuridico, infatti, che solo apparentemente gode di una universale univocità ermeneutica, « tra le svariate pieghe antropologiche della concezione del benessere fisico e psicologico dell’individuo»[63], risulta sensibilmente influenzato dalle differenti interpretazioni culturali e dalla comparazione di nuovi e diversi modelli di corporeità[64].

La bioetica ed il biodiritto sono chiamati, così, a ri-considerare modelli etici e politici tradizionali non solo nella prospettiva multiculturale ma anche al vaglio del fenomeno oggettivo di mescolanza di culture e della soggettività individuale[65].

Del resto, è proprio intorno al concetto di salute che si fondono e talvolta si confondono elementi soggettivi, come l’autonomia assoluta nell’autodeterminarsi, al di là di tutto e di tutti, ed elementi collettivi e di gruppo, che vanno ricercati nelle tradizioni culturali e si oggettivano in differenti pratiche mediche e terapeutiche.

Tutto questo pone la necessità, data la vastità delle questioni in campo, anche per il diritto, di ripensare alle problematiche bioetiche del fine vita e della salute e di porsi il problema «di queste vedute contraddittorie che – soprattutto sull’inizio e sulla fine della vita umana, sulla nascita e sulla morte, ma anche, ancora, sul ruolo della religione nella società – continueranno a manifestarsi con una incoerenza che non si inserisce in maniera scontata nell’alveo del pluralismo all’interno dell’unica Costituzione ma ambisce a farsi Costituzione a fianco e contro le Costituzioni degli altri, compresa quella dello Stato, con l’obiettivo di una sorta di città lagunare con isolotti irraggiungibili o di un complesso di monadi impenetrabili e incompatibili»[66].

Il diritto, così, concepito alla stregua dell’ars boni et aequi degli antichi romani, non può non configurarsi, anche attraverso un approccio interdisciplinare di riflessione intorno alle problematiche inerenti alla gestione della diversità[67], in modo tale da offrire una costante opera di mediazione[68], di equilibrio e di coordinamento ragionevole[69] capace di gestire la pluriappartenenza culturale in un contesto multiculturale.

Questo deve modellarsi in modo tale da offrire un livello di di coesione sociale basato su un concetto «di identità multiple che, non cristallizzate nella cultura di appartenenza, si definiscono sulla base di un’esperienza relazionale con l’altro»[70], anch’esso soggetto di diritti che struttura la propria identità nel continuo dialogo[71] con la comunità a cui appartiene o che lo accoglie[72].

L’obiettivo ultimo è quello dell’inclusione giuridica delle diversità attraverso la gestione dei conflitti valoriali ed identitari tramite un nuovo paradigma di governance della diversità capace di prevenire discriminazioni e di operare un bilanciamento dei diritti fondamentali coinvolti.

E’ necessario dunque, e anche in questa direzione deve essere vista la legge numero 219 del 2017, un diritto che, capace di affrontare le sfide che la trasformazione della società impone, prenda in considerazione le differenze e che consenta loro di manifestarsi democraticamente e di confrontarsi apertamente pervenendo a soluzioni pratiche non solo mediante un’attività d’interpretazione ma anche attraverso una traduzione e trasformazione concettuale delle attuali categorie giuridiche di appartenenza[73] alla luce di diversi patrimoni identitari[74].

Proprio all’interno di un simile progetto, si ritiene che vada collocata la legge numero 219 del 2017 nella parte in cui intende operare un bilanciamento tra la scelta terapeutica demandata al medico e quella di curarsi (o non curarsi) consapevolmente del singolo paziente.

Questa legge, infatti, ponendo fine alla perdurante assenza di una normativa che disciplinasse le DAT ed aderendo ad un approccio laico che valorizza la dignità delle scelte[75], qualunque esse siano, dell’individuo, inserito nella trama delle sue relazioni umane e sociali, rappresenta una regola giuridica eticamente inclusiva che vuole accogliere il massimo dei valori presenti in seno alla nostra società e, dunque, realizzare quell’eterodossia dialogica propria di una moderna prospettiva democratico-personalistica.


[1] Sul tema ex plurimis si rinvia a A. Palma, Finis vitae. Il biotestamento tra diritto e religione, Artetetra, Capua, 2018; M. Di Masi, Prima lettura della legge recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, 8 gennaio 2018 su www.diritticomparati.it; C. Casonato, Introduzione: la legge n. 219 tra conferme e novità, in Riv. Biodir., 2018, p. 12 e ss.; P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e le DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, p. 247 e ss.; M. Azzalini, Legge n. 219/2017: la relazione medico-paziente irrompe nell’ordinamento positivo tra norme di principio, ambiguità lessicali, esigenze di tutela della persona, incertezze applicative, in Resp. civ. e prev., 2018, p. 9 e ss..
[2] G. Fornero, Bioetica laica e bioetica cattolica, Mondadori, Milano, 2009, p. 14 e ss. M. Cavina, Andarsene al momento giusto. Culture dell’eutanasia nella storia europea,  Il Mulino, Bologna, 2015, p. 211 e ss.
[3] Per una ricostruzione in termini storici del tema, cfr. M. Cavina, Andarsene al momento giusto. Culture dell’eutanasia nella storia europea, Il Mulino, Bologna, 2015.
[4] P. Zatti, La via (crucis) verso un diritto della relazione di cura, in Riv. crit. dir. priv., n. 1/2017, p. 3 e ss.; Si veda anche P. Giustiniani, Uscita consapevole dalla vita e desiderio di esistere per sempre. Prospettive filosofiche per una bioetica di fine vita, in Progressi biomedici tra pluralismo etico e regole giuridiche, a cura di R. Prodomo, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 199-228. Per un’analisi giuridica delle tematiche coinvolte si rinvia a G. Salito, Il testamento biologico nell’ordinamento italiano e di altri paesi, in Quaderni del Dipartimento, Università degli studi di Salerno, Dipartimento di diritto dei rapporti civili ed economici nei sistemi giuridici contemporanei, 2003; G. Caparezza Figlia, Profili ricostruttivi delle dichiarazioni anticipate di trattamento, in Famila, 2004, p. 1055 e ss.; R. Cecchi, “Il testamento biologico: perché?” in www.fondazioneveronesi.it., 2005; A. Occhipinti, Tutela della vita e dignità umana. Consenso medico informato – Rifiuto delle cure mediche – Eutanasia – Testamento biologico, Utet, Torino, 2008, pp. 117-176; E. Calò, Il testamento biologico tra diritto e anomia, Ipsoa, Milano, 2008; G. Cosmacini, Testamento biologico. Idee ed esperienze per una morte giusta, Il Mulino, Bologna, 2010.
[5] Si pensi ad esempio alla Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 25 giugno 1999, n. 1418 sulla “protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dei malati incurabili e dei morenti” e alle linee guida, del 5 maggio 2014, emanate dal Consiglio d’Europa sui “processi decisionali che riguardano i trattamenti sanitari in situazioni di fine vita”, ove si ribadiva la necessità di dare rilevanza ai desideri espressi in precedenza dal paziente. In conformità, peraltro, tanto all’art. 8 della Convenzione EDU che all’art. 9 della c.d. Convenzione di Oviedo del 1997.
[6] S. Rodotà, Antropologia dellhomo dignus, in Riv. crit. dir. priv., n. 4/2010, p. 547 ss. Non a caso, nel testo della legge n. 219/2017 l’espressione dignità compare numerose volte. La prima, all’interno del comma 1 dell’art. 1, ove viene qualificata come diritto. La rubrica dell’art. 2 fa invece riferimento alla Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita. Sono poi i commi 2 e 3 dell’art.3 ad indicare che il consenso informato è espresso o rifiutato, quando riguarda minore e disabile, nel pieno rispetto della sua dignità. Del resto, la tutela della dignità della persona passa necessariamente anche per il riconoscimento della libertà religiosa, dell’identità personale e della libertà di autodeterminazione. Dignità, dunque, quale espressione di autonomia e «valore preliminare a quelli di libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia». Così G. M. Flick, Elogio alla dignità (se non ora, quando?),in Rivista dell’associazione italiana costituzionalisti, n. 4, 2014, pp. 1-36. Cfr. anche D. Von Der Pfordten, Considerazioni sul concetto di dignità umana, in V. Marzocco (a cura di), La dignità in questione. Un percorso nel dibattito giusfilosofico contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2018, pp.1-18.
[7] E. Lecaldano, Dall’autonomia del paziente alle carte di autodeterminazione: il contributo della riflessione bioetica, in Bioetica, n.2, 2001, pp. 9-18; P. Giustiniani, Uscita consapevole dalla vita e desiderio di esistere per sempre. Prospettive filosofiche per una bioetica di fine vita, in Progressi biomedici tra pluralismo etico e regole giuridiche, a cura di R. Prodomo, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 199-228.
[8] Cfr. F. Botti, Il pluralismo religioso come antidoto allo Stato etico, all’indirizzo www.forumcostituzionale.it.
[9] Cfr. F. Petrini, I princìpi, i precedenti, la giurisprudenza e le leggi (con i loro profili potenzialmente incostituzionali) in materia di “fine vita” in Italia, in http://www.pereluana.it/wp-content/uploads/2010/02/francesca-petrini.pdf
[10] A. Fuccillo, Giustizia e Religione Vol. I. Patrimonio ed enti ecclesiastici. La tutela positiva della libertà religiosa tra danno, simboli e privacy, Giappichelli, Torino, 2011, p. 194.
[11] Il suo mancato riconoscimento nella legge 219 del 2017 porta ad escludere che si possa richiedere al Servizio Sanitario Nazionale un trattamento diverso da quello previsto dalla legge in esame. In proposito può richiamarsi la sentenza della Corte Costituzionale n. 185 del 02/05/1998 che, nell’affermare la illegittimità costituzionale di alcune norme contenute nel D. L. 17 febbraio 1998 n. 23 (disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico ed altre misure in materia sanitari), ha ribadito la libertà dell’individuo nella scelta delle cure a cui sottoporsi, sostenendo però che non possono ricadere sul Servizio Sanitario Nazionale le conseguenze delle libere scelte individuali circa il trattamento terapeutico preferito, anche perché ciò disconoscerebbe il ruolo e la responsabilità dello Stato che le esercita attraverso i suoi organi tecnico scientifici.
[12] A. Bompiani, Dichiarazioni anticipate di trattamento e eutanasia. Rassegna del dibattito bioetico, Il Mulino, Bologna, 2008.
[13] L. D’Avack, Scelte di fine vita, in Aa. Vv., Il testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, Giuffrè, Milano, 2006, p. 80.
[14] Per una panoramica del pensiero costituzionale in materia si rinvia a F. Modugno, Trattamenti sanitari non obbligatori e Costituzione (a proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue), in Dir. soc., 1982; F. Sorrentino, Diritto alla salute e trattamenti sanitari; sulla facoltà del malato d’interrompere le cure (tra art. 32 Cost. e c. p.), in Quad. reg., 2007. Si veda anche Corte di Cassazione n. 21748 del 2007 secondo la quale «il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma – atteso il principio personalistico che anima la nostra e la nuova dimensione che ha assunto la salute – altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale».
[15] D. Nania, Il testamento biologico. La terza via, Koinè nuove edizioni, Roma, 2009, p. 108.
[16] Ivi, p. 29.
[17] Ivi, p. 15.
[18] Sul punto, M. Di Masi, Fine vita: vecchi e nuovi paradigmi a confronto, in Riv. crit. dir. priv., 1, 2010, pp. 154 – 155. Per approfondimenti, A. Ridolfi, Rifiuto delle terapie mediche, cit., 656 – 658; G. Calabresi, Il dono dello spirito maligno. Gli ideali, le convinzioni, i modi di pensare nei loro rapporti col diritto, Giuffrè, Milano, 1996, p. 125 e ss.
[19] A. Pioggia, Il disegno di legge in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento: esempi di fallimenti e di molte occasioni perdute nell’attuazione della Costituzione, in www.costituzionalismo.it., aprile 2009.
[20] C. Pardini, Scelte di fine vita e amministrazione di sostegno: problemi aperti, in Nuova giur. civ., 4, 2017, p. 513 e ss.
[21] Tale testo prevedeva che le disposizioni anticipate di trattamento, unitamente ad altre disposizioni relative alla complessiva gestione del proprio corpo, possono essere inserite all’interno del testamento biologico, che può essere redatto da qualsiasi persona capace di intendere e di volere maggiore di diciotto anni.
[22] Sicché deve ritenersi che in tali situazioni il medico, facendo applicazione del principio di cui all’art. 38 del Codice di deontologia medica, dovrà, pur non essendo legislativamente vincolato, “tenere conto” delle precedenti manifestazioni di volontà del paziente che non siano state specificamente riversate in una dichiarazione anticipata di trattamento redatta secondo le modalità di cui ai commi 6 e 7 dell’art. 4 l. 219 del 2017.
[23] Pur potendo lo stesso, di concerto con il medico, disattenderle in tutto o in parte «qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità  di miglioramento delle condizioni di vita»
[24] Inteso nel progetto A. C. 1142 come «il soggetto di fiducia del disponente che agisce sulla base delle volontà espresse sui trattamenti sanitari e sulle tecniche invasive di supporto vitale in caso di sopravvenuta incapacità di intendere e di volere del disponente».
[25] C. Cupelli, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: dai principi alla legge?, in Cass. pen., 6, 2017, p. 2164 e ss.
[26] La legge in commento, a differenza della disciplina relativa all’interruzione volontaria di gravidanza (legge n. 194 del 1978) e a quella sulla procreazione medicalmente assistita (legge n. 40 del 2004), non riconosce il diritto di obiezione di coscienza per il personale sanitario.
[27] Cfr. S. Lariccia, Coscienza e liberta, Profili costituzionali del diritto ecclesiastico italiano, Il Mulino, Bologna, 1989; S. Prisco, Fedeltà alla Repubblica e obiezione di coscienza. Una riflessione sullo Stato “laico”, Jovene, Napoli, 1986; A. Guarino, Obiezione di coscienza e valori costituzionali, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992; R. Navarro Valls, J. M. Torron, Le obiezioni di coscienza. Profili di diritto comparato, Giappichelli, Torino, 1995; V. Turchi, I nuovi volti di Antigone: le obiezioni di coscienza nell’esperienza giuridica contemporanea, Jovene, Napoli, 2009; F. Viola, L’obiezione di coscienza come diritto, in Diritto&Questioni pubbliche, 2, 2009, p. 169 e ss.
[28] Sul mancato riconoscimento del diritto di obiezione di coscienza e sui rischi di un’ineffettiva applicazione della disciplina, si veda B. Liberali, Prime osservazioni sulla legge sul consenso informato e sulle DAT: quali rischi derivanti dalla concreta prassi applicativa?, in Rivista di Diritti Comparati, 2017, III, p. 262 e ss. Si veda, altresì, F. G. Pizzetti, Prime osservazioni sull’istituto delle disposizioni anticipate di trattamento (dat) previsto dall’articolo 4 della legge 22 dicembre 2017, n. 219, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2018, I, p. 59 e ss.
[29] Cfr. V. Turchi, L’obiezione di coscienza nella Evangelium Vitae, in Iustitia, 1996, p. 355 e ss.
[30] Basti pensare ai diversi orientamenti etici rappresentati negli approcci pro Choice e pro life, individuati da F. Freni, Biogiuridica e pluralismo etico-religioso. Questioni di Bioetica, codici di comportamento e comitati etici, Giuffrè, Milano, 2000, p. 153 e ss.
[31] B. Montanari, Obiezione di coscienza. Un’analisi dei suoi fondamenti etici e politici, Giuffrè, Milano, 1976, p. 1.
[32] Cfr. Corte Costituzionale, 19 dicembre 1991, n. 467.
[33] S. Prisco, Laicità. Un percorso di riflessione, Giappichelli, Torino, 2009, p. 93.
[34] P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e le DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, p. 247 e ss.; D. Paris, “Legge sul consenso informato e le DAT: è consentita l’obiezione di coscienza del medico?”, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2018, I, p. 33 e ss.
[35] Cfr. M. Casini, C. Casini, M. L. Di Pietro, Testamento biologico e obiezione di coscienza, in Medicima e Morale, 2007, p. 473 e ss.
[36] Cfr. L’Ordinanza di Rimessione del Pretore di Alba del 14 aprile 1980 n. 456. Si vedano, in tema, L. Palazzani, Il concetto di persona tra bioetica e diritto, Giappichelli, Torino, 1996; P. Giustiniani, Quale progetto di persona per una bioetica oggi?, Edizioni Scientifice Italiane, Napoli, 1998.
[37] D. Paris, Legge sul consenso informato e le DAT: è consentita l’obiezione di coscienza del medico?, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, Forum: la legge 219 del 2017, n. 1/2018, p. 32 ess.
[38] V. Turchi, Nuove forme di obiezione di coscienza, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), ottobre 2010.
[39] P. Cattorini, Sotto scacco. Bioetica di fine vita, Liviana Medicina, Napoli, 1993.
[40] R. Dworkin, Il dominio della vita, La Feltrineli, Milano, 1994, p. 353.
[41] S. Berlingò, Ordine etico e legge civile: complementarità e distinzione, in Iustitia, 1996, 6, p. 237 e ss.
[42] Cfr. A. Torroni, Il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento: un rapporto essenziale ma difficile, in Rivista del Notariato, n. 2, 2018, pp. 443-450.
[43] Legge 16 febbraio 1913 n. 89 sull’ordinamento del notariato e degli archivi notarili.
[44] Secondo Rosaria Bono, Prime note sulla nuova legge in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, in FederNotizie del 28 dicembre 2017,“Il disponente, dice la legge, deve avere preventivamente acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue DAT. Di questa preventiva acquisizione il notaio, sicuramente, dovrà dare atto nelle DAT a suo rogito. In alcuni casi potrà essere opportuno il richiamo ad un documento medico o addirittura la sua allegazione, anche per evitare la disapplicazione da parte del medico…”.
[45] R. Bono, Prime note sulla nuova legge in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, in FederNotizie del 28 dicembre 2017.
[46] Analogamente, con riferimento però al campo di applicazione dell’obiezione di coscienza all’interruzione volontaria della gravidanza, si veda S. Attollino, Obiezione di coscienza e interruzione volontaria della gravidanza: la prevalenza di un’interpretazione restrittiva, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statochiese.it), 2013.
[47] Cfr. V. Onida, L’obiezione di coscienza dei giudici e dei pubblici funzionari, in B. Perrone (a cura di), Realtà e prospettive dell’obiezione di coscienza. I conflitti degli ordinamenti, Giuffrè, Milano, 1992, p. 365 e ss.
[48] M. Ricca, Pantheon. Agenda della laicità interculturale, Torri del Vento, Palermo, 2012., p. 393; Cfr. anche S. Maffettone, Medicina e Multiculturalismo, Alberto Perdisa Editore, Milano, 2002.
[49] S. Wear, Il consenso informato, Edizioni Apeiron, Bologna, 2000, p. 54.
[50] Cfr. P. A. Ricci, A. Di Palma, A. Bove, Consenso informato e decadimento cognitivo, in Riv. it. med. legale, 1998, p. 901e ss.
[51] Cfr. sul tema S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale.Eguaglianza e diversità nell’era globale, Il Mulino, Bologna, 2005.
[52] Cfr. M. Ricca, Pantheon. Agenda della laicità interculturale, Torri del Vento, Palermo, 2012.
[53] Su posizioni analoghe si attesta Il manifesto di Padova sul multiculturalismo in medicina e sanità, firmato a Padova il 24 novembre 2007 (consultabile all’indirizzo: https://www.omco.pd.it/bollettino-news/manifesti/76-manifesto-multicultura/file.html) che adotta i seguenti principi: a) «Il medico agisce nel rispetto della dignità umana, nella sua specificità culturale purché non sia in contrasto con i principi di democrazia e di laicità dello stato e con l’esigenza bioetica di tutelare l’integrità psicofisica dell’individuo nel rispetto della salute e ai fini della sua promozione»; b) « Il medico si impegna a facilitare la creazione di relazioni fiduciarie formali e informali al fine di promuovere una rete sociale e sanitaria della solidarietà per rendere effettiva la comprensione culturale».
[54] Supporto che, nel fornire indicazioni e informazioni volte a dipanare gli eventuali deficit comunicativi sorti dall’appartenenza a universi semantici e culturali diversi, non può sostituirsi né al sapere del paziente né sovrapporti alle scelte terapeutiche del sanitario.
[55] Non ultimo il costo dell’implementazione nelle strutture sanitarie di tale servizio di mediazione culturale. Cfr. G. P. Turchi, R. Fumagalli, M. Paita, La Promozione della cittadinanza come responsabilità condivisa. L’esperienza civica sul territorio della Valle del Chiampo, Domeneghini Editore, Veneto, 2010.
[56] Uno dei primi studi che ha dimostrato un sensibile miglioramento della qualità delle cure grazie all’intervento di mediatori culturali è stato eseguito a Chicago. Cfr. E. A. Jacobs, The impact of interpreter services on delivery of health care to limited English proficient patients, in Journal of Gen. Intern. Medicine, 16, 2001, pp. 468-474; A. Bischoff, Improving communication between physicians and patients who speak a foreign language, in British Journal of General Practice 53, 2003, pp. 541-546.
[57] A. Qureshi, F. Collazos, M. Ramos, M. Casas, Cultural Competency training in Psychiatry, in European Psychiatry 23, 2008.
[58] Principio che ha trovato espressione ad esempio nel C.M. 22/7/1990, n. 205, dal titolo La scuola dell’obbligo e gli alunni stranieri. L’educazione interculturale, nel Documento dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale istituito presso il MIUR nel 2006 dal titolo La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri, nella circolare ministeriale dell’8 gennaio 2010, n. 2 recante Indicazioni e raccomandazione per l’integrazione di alunni con cittadinanza non italiana o, ancora, nelle Linee guida per l’accoglienza e l’integrazioni degli alunni stranieri adottate dal MIUR nel febbraio 2014. Verso un’apertura alle istanze pluralistiche dell’attuale società merita di essere ricordata anche l’istituzione, con decreto ministeriale del 4 settembre 2014, del nuovo Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’intercultura.
[59] Cfr. Parlamento europeo, 19 gennaio 2016, Risoluzione sul ruolo del dialogo interculturale, della diversità culturale e dell’istruzione al fine di promuovere i valori fondamentali dell’UE, consultabile online all’indirizzo: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52016IP0005&from=GA.
[60] I punti salienti di questo nuovo modello di organizzazione delle strutture sanitarie portatore e moderatore delle diverse istanze in una dialettica procedimentale ispirata ai principi di trasparenza, efficienza, non discriminazione e neutralità, possono quindi riassumersi nei concetti chiave di formazione, informazione e conformazione.
[61] In questa direzione si muovono, ad esempio, il progetto Ospedale Multiculturale condotto nel 2012 in collaborazione con l’Azienda USL di Bologna e quello Ospedale Interculturale, migrazioni e salute nel lodigiano, presentato nel 2007 dalla Provincia di Lodi, in collaborazione con l’Azienda Ospedaliera della Provincia di Lodi o, ancora, il Progetto del 2009 della Regione Emilia Romagna sull’organizzazione ddell’assistenza erogata nelle Aziende sanitarie a favore dei cittadini stranieri.
[62] N. Colaianni, La libertà di religione in Italia negli ultimi dieci anni, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.Statoechiese.it), n. 27 del 2017.
[63] G. Anello, Multiculturalità, “diritti” e differenziazioni giuridiche: il caso dei trattamenti sanitari, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), aprile 2013.
[64] Cfr. L. Quaranta, Antropologia medica: i testi fondamentali, Raffaello Cortina, Milano, 2006; L. Quaranta, M. Ricca, Malati fuori luogo, Raffaello Cortina, Milano, 2012.; C. Ciotola, Preliminari a uno studio del rapporto tra diritto alla salute e fattore religioso, in Diritto e religioni, 2008, 2, p. 178 e ss.
[65] Cfr L. Chieffi (a cura di), Il multiculturalismo nel dibattito bioetico, Giappichelli, Torino, 2005. Ciò necessita secondo alcuni di una vera e propria “ecologia” delle decisioni bioetiche, ovvero una prospettiva che, senza mescolare i diversificati punti di vista in un ingenuo relativismo, rivendichi autonomia e diversità delle ragioni bioetiche, ma insieme contribuisca a renderle «pertinenti alla decisione e singolarmente incomplete per la decisione stessa». Così M. Ceruti, T. Pievani, Un’etica della diversità. Oltre i fondamentalismi contrapposti, in L. Battaglia, M. Ceruti (a cura di), Bioetica e cultura della complessità, Macro Edizioni, Cesena 1998, pp. 1-21, ivi p. 20; R. Prodomo (a cura di), Il futuro della bioetica. Una scienza nuova per il XXi secolo, Giappichelli, Torino, 2008.
[66] N. Colaianni, La libertà di religione in Italia negli ultimi dieci anni, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista Telematica (www.Statoechiese.it), n. 27 del 2017; Cfr. anche S. Domianello, L’utilità pratica del del “diritto ecclesiastico civile” come scienza, in G. B. Varnier (a cura di), Il nuovo volto del diritto ecclesiastico, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, pp. 287- 302.
[67] Sulla differenza tra approccio multidisciplinare, pluridisciplinare ed interdisciplinare si rinvia a M. Callari Galli, D. Londei, A. Soncini Fratta (a cura di), Il meticciato culturale. Luogo di creazione di nuove identità o di conflitto?, Clueb, Bologna, 2005; G. Fedel, Interdisciplinarietà o multidisciplinarietà? Le facoltà di Scienze politiche, in Il politico, 2011, pp. 7-10; M. Di Cintio, Multidisciplinarità e interdisciplinarità nel progetto di educazione alla cittadinanza e ai diritti umani, in Parlamenti regionali, 14-15, 2005, pp. 228-237; S. Rondinara, Metodologia della ricerca interdisciplinare-multidisciplinare-transdisciplinare, in M. Bay, Mario Toso (a cura di), Questioni di metodologia della ricerca nelle scienze umane. Paradigmi, esperienze, prospettive, LAS, Roma, 2009, p. 69 e ss.; G. Manfredi, La frontiera della ricerca interdisciplinare, in L. De Giovanni, C. Donisi (a cura di), Convergenza dei saperi e prospettive dell’umano, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2015, pp. 17-21.
[68] Sul concetto di diritto quale strumento di mediazione e di risoluzione dei possibili conflitti si rinvia a N. Lipari, Il diritto quale crocevia fra le culture, in L. De Giovanni, C. Donisi (a cura di), Convergenza dei saperi e prospettive dell’umano, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2015, pp. 61-81; A. Abignente, Riconoscimento, garanzia, certezza: temi della scienza giuridica nel confronto interdisciplinare, in L. De Giovanni, C. Donisi (a cura di), Convergenza dei saperi e prospettive dell’umano, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2015, pp. 183-199;
[69] Cfr. S. Berlingò, Bioetica, biodiritto e il contributo scientificamente legittimato, en juriste, dell’ecclesiasticista, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 13 luglio 2015.
[70] Così Il documento L’integrazione degli immigrati di religione islamica. Si veda anche il Libro bianco sul dialogo interculturale. Vivere insieme in pari dignità, del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 2008 disponibile sul sito http://www.coe.int/dialogue. Cfr. anche P. Stefanì, Il dialogo interculturale alla luce del Libro bianco del Consiglio d’Europa “vivere insieme in pari dignità”: aspetti giuridici, in Post Filosofie, 2016, 9, pp. 90-103. Sul carattere insidioso e problematico della contrapposizione tra identità e alterità e sulle diverse declinazioni che, nel corso del tempo, diacronicamente e sincronicamente, nei contesti più vari e disparati si sono date su tale contrapposizione si rinvia a T. Mazzarese, Noi, gli altri e la tutela dei diritti nelle società multiculturali, in Id. (a cura di), Diritto, tradizioni, traduzioni. La tutela dei diritti nelle società multiculturali, Giappichelli, Torino, 2013, p. 251 e ss.; M. Ricca, Culture interdette. Modernità, migrazioni, diritto interculturale, Bollati Boringhieri, Torino, 2013; Id., Norma, autorappresentazione identitaria, memoria culturale. Alterità e storia nell’agire giuridico interculturale, in “Materiali per una storia della cultura giuridica” 2/2010, pp. 521-552.
[71] F. Viola, Conflitti di identità e conflitti di valori, in Ars Interpretandi, 10, 2005, pp. 61-96; N. Panikkar, L’incontro indispensabile: dialogo tra religioni, Jeca Book, Milano, 2001; Aa. Vv., Il coraggio del dialogo. Quando la diversità è forza, Giuffrè, Milano, 2002.
[72] J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Feltrinelli, Milano, 1998; P. F. Savona, Tre risposte della teoria gius-filosofica ai problemi del multiculturalismo, in F. Abbamonte, S. Prisco, Diritto e pluralismo culturale. I mille volti della convivenza, Editoriale Scientifica, Napoli, 2015, pp. 376-399, spec. p. 399; Id., Giustizia sociale e misconoscimento, in U. Pomarici (a cura di), Il diritto come prassi. I diritti fondamentali nello stato costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2010, p. 223 ss.
[73] S. Ferlito, Società multi religiosa e interpretazione normativa, in A. Fuccillo (a cura di), Multireligiosità e reazione giuridica, Giappichelli, Torino, 2008, p. 143 e ss.
[74] M. Ricca, Sul diritto interculturale. Costruire l’esperienza giuridica oltre le identità, in Daimon. Annuario di diritto comparato delle religioni, Vol.8/2008, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 16 e ss.; Id., Oltre Babele. Codice per una democrazia interculturale, cit.; F. Remotti, Tradurre e convivere. L’antropologo e il diritto interculturale, in Daimon. Annuario di diritto comparato delle religioni, Vol.8/2008, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 97 e ss.; M. d’Arienzo, Dialogo interculturale, mediazione giuridica e integrazione sociale, in Diritto e Religioni, 2/2015, pp. 420-437; Id., Immigrazione, integrazione e dialogo tra diritto, religioni e culture, in S. Burgio, S. Fontana, S. Lagdaf (a cura di), Dalla diffidenza al dialogo. Immigrazione e mediazione culturale, Agorà & Co editrice, Lugano, 2016, pp. 129-153; P. Consorti, Conflitti, mediazione e diritto interculturale, Pisa University press, Pisa, 2013; S. Berlingò, Diritto interculturale:istruzioni per l’uso di un ecclesiasticista-canonista, in Daimon, 8/2008, pp. 43-50; P. F. Savona, Tre risposte della teoria gius-filosofica ai problemi del multiculturalismo, in F. Abbamonte, S. Prisco, Diritto e pluralismo culturale. I mille volti della convivenza, Editoriale Scientifica, Napoli, 2015, pp. 376-399.
[75] Tutela della dignità della persona che deve passare, ovviamente, anche per il riconoscimento della libertà religiosa, dell’identità personale e della libertà di autodeterminazione.

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Avv. Alessandro Palma

Alessandro Palma, avvocato del Foro di Napoli e specializzato in professioni legali, è dottore di ricerca in Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Presso lo stesso Ateneo si è perfezionato in Amministrazione e Finanza degli Enti Locali ed è cultore della materia in Diritto Ecclesiastico ed in Diritti Confessionali. E’ Tutor di Diritto Costituzionale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II nonché Tutor di Diritto Ecclesiastico presso l’Università Telematica Pegaso. Per l’a. a. 2018/2019 è docente a contratto sulla cattedra di Diritto Ecclesiastico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cassino. I suoi interessi di ricerca vertono principalmente su questioni di bioetica e biodiritto, con particolare riguardo alle tematiche della fine vita e dei diritti fondamentali, sull’esperienza religiosa alla luce delle neuroscienze e della psicologia evoluzionistica e cognitiva, sui rapporti tra diritto e religione e sugli strumenti di inclusione giuridica delle diversità culturali nelle società multiculturali. E’ autore di molteplici recensioni e pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e di una monografia intitolata Finis Vitae. Il Biotestamento tra diritto e religione, Artetetra, Capua, 2018.

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