L’uso della forza nei conflitti armati tra Stati
Sommario: 1. Un quadro storico sull’uso della forza nel diritto internazionale – 2. Divieto del ricorso alla forza armata: definizioni, regola e relative eccezioni – 3. Cyber warfare e forza armata: quid juris? – 4. Eccezioni al divieto di uso della forza armata
1. Un quadro storico sull’uso della forza nel diritto internazionale
Secondo una celebre citazione di Sun Tzu, “chi è veramente esperto nell’arte della guerra sa vincere l’esercito nemico senza dare battaglia, prendere le sue città senza assieparle e rovesciarne lo Stato senza operazioni prolungate.” Tuttavia, storicamente, ogni Stato ha fatto valere il proprio incomprimibile potere sovrano tramite atti di belligeranza. L’esito delle battaglie ha disegnato il nuovo volto dei confini territoriali e ha determinato nuovi equilibri geopolitici. Infatti gli Stati Sovrani, per regolare i loro reciproci rapporti, si servivano dei precetti del diritto internazionale. In tempo di pace erano soliti ricorrere a una branca del diritto internazionale nota come jus ad bellum[1]. Di contro, in tempo di ostilità, l’apparato normativo si modificava sensibilmente, finendo per sfociare nell’altra branca del diritto internazionale, il diritto bellico o jus in bello.
Con l’avvicendarsi di epoche ed eventi, però, lo status quo ha subito un profondo rimaneggiamento. La Comunità Internazionale ha avvertito l’esigenza di abbandonare il binomio sopra menzionato, per predisporre un nuovo apparato normativo, volto a regolamentare l’uso della forza armata tra gli Stati con maggior precisione e secondo inedite forme di sensibilità sul tema. A partire dalla fine del 1800, lo spirito delle leggi si è imperniato sul principio di non belligeranza, per favorire la nascita di una nuova epoca, lontana dai conflitti e dal loro ruolo cardinale nelle dinamiche interstatali.
Il primo tentativo in questo senso è cristallizzato nelle due Convenzioni dell’Aja sulla soluzione pacifica delle controversie, promulgate rispettivamente nel 1899 e nel 1907. Infatti, l’articolo 1 della prima Convenzione dell’Aja dispone che “gli Stati contraenti convengono di sforzarsi a promuovere una soluzione che eviti il ricorso alla forza armata”. Nel corso del 1900, inoltre, sono stati emanati tre atti di portata fortemente innovativa. Due di questi documenti sono di natura pattizia: si tratta della Carta delle Nazioni Unite e del Patto Kellogg – Briand (o Patto di Parigi), siglato il 27 agosto 1928[2]. Il terzo, invece, è un prodotto di genesi pretoria, perché è condensato nelle pagine della sentenza del Tribunale di Norimberga del 1946. In particolare, il Patto Kellogg – Briand poggia su una forma essenziale e laconica, composta soltanto da tre articoli. Entro queste norme viene conchiuso un principio fondamentale, a tenore del quale gli Stati contraenti si impegnano a ripudiare la guerra come strumento di politica nazionale e, al pari, ne condannano il ricorso per la composizione di controversie internazionali. L’intento perseguito dal Patto di Parigi era quello di promuovere la non belligeranza tra Stati, ma tale proposito è stato fortemente penalizzato dalla totale assenza di riferimenti alle misure che, pur non integrando il concetto di guerra stricto sensu, erano ad essa assimilabili (c.d. measures of short war). Mutatis mutandis, in uno scenario globale che aveva appena raccolto i frantumi del Secondo Conflitto Mondiale, un grande passo in avanti verso la soluzione pacifica delle controversie interstatali è stato compiuto dalla Carta delle Nazioni Unite del 1945. Infatti, il documento in questione vanta il primato di aver abolito la libertà di dichiarare guerra, annoverando nel divieto in parola anche le measures of short war. Inoltre, la Carta delle Nazioni Unite ha ridisegnato più vigorosamente confini e architettura del diritto bellico. L’art. 2, par.4 della Carta ONU stabilisce un divieto generale di ricorrere all’uso della forza armata e, correlativamente, pone un’eccezione al presente divieto. Infatti, a tenore dell’articolo 51 del documento in analisi, è possibile ricorrere alla forza armata solo in via eccezionale, allorquando sia necessario il suo impiego per un novero tassativo di ragioni. Di riflesso, si può affermare che oggi il divieto di ricorso all’uso della forza aggressiva sia da considerarsi una norma imperativa di diritto internazionale. Nell’età contemporanea lo sviluppo del diritto internazionale sta vivendo la sua massima espansione: ogni volta che insorga un conflitto armato tra due o più parti gerenti (Stati o gruppi armati non statali) – compresa l’ipotesi dell’occupazione militare di uno Stato a danni di un altro -, il quadro normativo destinato a trovare applicazione è quello del c.d. diritto internazionale umanitario (DIU). Tale branca del diritto internazionale può essere definita come una congerie di regole volte a limitare gli effetti dei conflitti armati: infatti, il DIU regola la conduzione delle ostilità e protegge le vittime dei conflitti. Le sue disposizioni sono applicabili a ogni tipo di conflitto armato internazionale o non internazionale, indipendentemente dalla circostanza che il ricorso alla forza armata sia o meno legittimo e radicato su ragioni degne di accoglimento. Le fonti del diritto internazionale umanitario sono organizzate in una complessa architettura eterogenea, che comprende i seguenti documenti: le quattro Convenzioni di Ginevra e i loro protocolli aggiuntivi, la sopra menzionata Convenzione dell’Aia (1907), la Convenzione sul divieto o la limitazione dell’impiego di alcune armi classiche (1980). I principi che percorrono queste Convenzioni sono riassumibili in nei termini che seguono. Anzitutto, vige il divieto assoluto, valevole in ogni circostanza, di attaccare persone e beni civili. Gli unici obiettivi che possono essere targetizzati sono quelli militari, ma anche in questo contesto vige un divieto: non è possibile attaccare obiettivi militari, ove l’attacco comporti una perdita sproporzionata di beni civili, di risorse ambientali o di persone. Inoltre, non è possibile servirsi dei cosiddetti scudi umani, giacché i civili non possono essere usati come scudo di protezione in corso di conflitto. Quanto alla conduzione delle ostilità, il DIU entra nel merito dell’impiego delle armi e sancisce il divieto dell’uso di alcune di esse, come le armi biologiche o chimiche, le armi laser o accecanti. Eventuali violazioni del diritto internazionale sono considerate crimini di guerra, come per esempio: stupro, deportazioni, trattamento inumano di prigionieri, presa di ostaggi e impiego di bambini-soldato. Le più gravi tra queste violazioni comportano l’applicazione del c.d. principio aut debere aut judicare, in virtù del quale ogni Stato ha l’onere di perseguire penalmente o di estradare a una corte penale internazionale coloro che si presumono essere colpevoli di aver commesso una grave violazione del DIU.
2. Divieto del ricorso alla forza armata: definizioni, regola e relative eccezioni
Spesso, secondo il lessico corrente, i concetti di guerra e conflitto armato sono impropriamente resi oggetto di un rapporto sinonimico. Tuttavia una simile impostazione non risulta congruente con le definizioni in voga nel diritto internazionale: il termine guerra copre un ambito talmente generico, da essere quasi in disuso. Infatti, secondo la teoria di Schindler[3], il termine guerra deve considerarsi un relitto di tempi passati. D’altro canto, una maggiore fortuna incontra l’espressione conflitto armato, che vanta il pregio di essere caratterizzata da contorni ben definiti. Di fatti, un conflitto armato si riconosce perché, ove ricorra, esso comporta sempre l’applicazione del diritto internazionale umanitario: questa è una delle principali differenze che lo distanziano dal concetto di guerra. Inoltre, contrariamente a quanto si possa affermare per la guerra, l’estensione applicativa del conflitto armato incontra dei limiti in alcune circostanze. Ci sono quindi ipotesi al verificarsi delle quali non è sempre possibile invocare la presenza di un conflitto armato, perché la sua presenza dipende dal ricorrere di alcune specifiche circostanze. A titolo esemplificativo, si pensi al caso proposto dal Ronzitti, ossia quello di lotta al contrabbando imbarcato su navi neutrali. Lo stesso dicasi per il caso in cui, tra parti belligeranti, sia in atto una sospensione o l’estinzione di trattati. Tali circostanze non sono indice della presenza di un conflitto armato, in quanto possono prodursi anche da fatti di diversa natura, quali l’applicazione in via analogica della clausola rebus sic stantibus o il verificarsi di una causa pattiziamente prevista di sospensione e/o estinzione del trattato.
Come premesso nel paragrafo precedente, il principio del divieto di ricorso alla forza armata riposa in seno all’articolo 2,par. 4 della Carta ONU. Per chiarire la natura della norma in questione è intervenuta la Corte Internazionale di Giustizia che, nella sentenza emessa sul caso Nicaragua v. Stati Uniti, ha ricondotto la presente disposizione nella categoria della consuetudine. Secondo il ragionamento della Corte[4], un assunto è pacifico: il divieto di aggressione costituisce una vera e propria regola di diritto consuetudinario. D’altro canto, però, ragionevoli perplessità sono state sollevate in dottrina circa l’estensione del concetto di forza armata. La formulazione dell’articolo presta il fianco a una questione fondante: cosa s’intende per “forza armata”? Da una lettura combinata del dato testuale e dei lavori preparatori, emerge che il concetto di forza armata ricomprende sia l’uso della forza stricto sensu intesa, sia l’impiego della minaccia come mezzo di coercizione della controparte. Non può considerarsi forza armata, invece, la coercizione di tipo economico: durante la Conferenza di San Francisco, il Brasile aveva presentato un emendamento volto a inserire tale previsione, ma l’emendamento in questione è stato respinto[5]. Da un simile atteggiamento di chiusura in proposito, nel silenzio del dato testuale, si deduce a contrario una implicita manifestazione di volontà, atta a respingere l’equipollenza tra i concetti di forza armata e di coercizione economica. Quanto al concetto di minaccia, invece, questa può considerarsi come forza armata solo quando sia usata avverso i seguenti elementi: integrità territoriale, indipendenza politica di uno Stato e contrasto alle finalità perseguite dall’ONU.
3. Cyber warfare e forza armata: quid juris?
Nel ventunesimo secolo, le dinamiche di attacco verso uno Stato si sono ramificate in maniera così sottile, da poter finanche prescindere da un vero e proprio campo di battaglia. Si pensi alle dinamiche di cyberwarfare, che comprendono una serie di attacchi condotti con strumenti informatici. Gli esempi più eminenti di simili aggressioni sono il Denial of Service e il Ransomware, ma a prescindere dalla loro tipologia, si pone una questione di fondamentale rilievo: gli attacchi di cyberwarfare possono aderire al concetto di forza armata, alla luce dell’articolo 2,par.4, della Carta ONU? Sul punto, la dottrina più eminente[6] risponde in senso affermativo. A tenore di questa premessa, quindi, gli attacchi di cyberwarfare sono attacchi condotti illegittimamente – dunque in lesione del divieto d’aggressione armata– solo laddove mirino a pregiudicare il sistema economico o finanziario di uno Stato, colpendo le infrastrutture critiche e il perimetro di sicurezza del Sistema Paese. È inoltre necessario, a tal fine, che l’attacco cibernetico non sia fine a se stesso, ma comporti conseguenze quali perimento di beni, perimento o uccisione di persone. Un plastico esempio di un simile attacco è riportato da Dinstein, il quale configura l’ipotesi in cui uno Stato riesca a manomettere a distanza i dispositivi informatici che regolano dighe o riserve di acqua, allo scopo di provocare una catastrofe a danno dei civili.
4. Eccezioni al divieto di uso della forza armata
Com’è ormai noto, il divieto della forza armata è un principio pattizio nato in seno alla Carta ONU e ormai pienamente assorbito nel diritto internazionale come consuetudine. La portata di tale divieto è generale e coinvolge gli Stati della comunità internazionale, ma incontra dei limiti ben precisi. Infatti, esistono plurime ipotesi al verificarsi delle quali uno Stato può usare legittimamente la forza armata, ossia senza incorrere in una lesione del divieto stesso. Si tratta delle seguenti casistiche: legittima difesa individuale e collettiva (art. 51 Carta ONU), uso della forza armata autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, le misure assunte contro ex stati nemici, il consenso dell’avente diritto, l’intervento a protezione dei cittadini all’estero, l’intervento di umanità.
Rispetto alla legittima difesa, il legislatore ONU isola due distinti casistiche, da trattare separatamente. La legittima difesa collettiva è un’ipotesi che si registra quando uno Stato, pur non essendo stato oggetto di attacco armato straniero, può intervenire in favore di uno Stato terzo che abbia subito l’attacco. Questa ipotesi è una creazione legislativa che ricalca l’Atto di Chapultepec, adottato dagli Stati Americani nei 1941. Tale atto vantava una vocazione fortemente solidaristica, tanto da considerare che l’attacco armato rivolto contro un solo Stato americano, sarebbe stato considerato come un attacco a tutti gli altri Stati parti. Naturalmente, la legittima difesa collettiva condivide le stesse premesse su cui poggia la legittima difesa individuale. Infatti, per potersi invocare lecitamente il ricorso alla legittima difesa – preventiva o postuma che sia rispetto a un possibile attacco – è necessario che l’aggressione possa essere qualificata come “armata”. Tuttavia, la legittima difesa collettiva incontra un’ulteriore limitazione: affinché uno Stato possa intervenire in via preventiva a favore di un altro Stato, l’attacco imminente dev’essere talmente grave, da rendere l’immediato soccorso una condizione imprescindibile e insostituibile con altri mezzi di dissuasione o prevenzione. Un esempio di legittima difesa collettiva validamente esercitata è quella degli Stati Uniti d’America, che si sono addentrati in territorio siriano dietro richiesta d’aiuto da parte dell’Iraq. Infatti, l’intervento americano aveva come obiettivo quello di neutralizzare l’ISIL, che dalle sue infiltrazioni in Siria muoveva attacchi armati contro l’Iraq. In ogni caso, è importante puntualizzare un aspetto di carattere squisitamente giuridico: uno Stato può intervenire secondo il giusto crisma della legittima difesa collettiva, solo quando lo Stato vittima di attacco abbia prestato relativo consenso all’intervento del primo o gli abbia espressamente richiesto aiuto. D’altro canto, però, non è necessario che tra lo Stato interveniente e lo Stato vittima sia già in essere un trattato di alleanza militare o d’altro genere. Di contro, lo Stato interveniente deve sempre effettuare il c.d. giudizio di verifica, prima d’intervenire. Questo significa che lo Stato in procinto di prestare soccorso deve sincerarsi autonomamente del fatto che lo Stato vittima stia subendo un attacco armato, imminente o in atto. Infatti, qualora uno Stato intervenisse a tutela di uno Stato vittima che non si trovi in corso d’assedio nei termini summenzionati, l’intervento del primo non sarebbe giustificato da alcuna ragione plausibile e, di riflesso, la sua condotta integrerebbe un illecito internazionale.
Inoltre, non bisogna confondere le ipotesi di legittima difesa collettiva e d’intervento d’umanità. Quest’ultima condizione viene in rilievo nel caso in cui l’uso della forza si renda necessario per evitare che cittadini di uno Stato possano soggiacere a trattamenti inumani e degradanti. L’intervento di umanità, però, è lecitamente perseguibile solo nel caso in cui il Consiglio di Sicurezza ne abbia autorizzato la disposizione tramite una risoluzione: in mancanza di apposita risoluzione, qualsiasi intervento di umanità sarebbe da considerarsi arbitrario e, come tale, illecito. Peraltro l’intervento di umanità si differenzia dal c.d. “intervento di protezione dei cittadini all’estero” per due elementi principali: il primo importa una reiterata presenza in territorio straniero, oltre che il cambio di regime nello Stato – vittima. In ogni caso, la disciplina dell’intervento di umanità ha sovente prestato il fianco al seguente interrogativo: esiste un dovere di ingerenza umanitaria? Questa domanda sembra trovare risposte affermative in più direzioni. A sostegno di questa tesi, spesso si citano casistiche come quelle che hanno interessato, rispettivamente, Iraq e Somalia. Nel primo caso ci si riferisce al periodo immediatamente susseguente alla Guerra del Golfo (1991), quando si sono rese necessarie operazioni a sostegno di curdi e sciiti in terra irachena. Nella seconda ipotesi, invece, si fa cenno all’intervento umanitario che ha avuto luogo sul territorio somalo, volto a soccorrere la popolazione a seguito di una completa paralisi statale conseguente a una cruenta guerra civile. Entrambi i casi sono stati salutati come esempi di lecito intervento d’umanità, in quanto – oltre ad essere stati condotti nel rispetto di tutti i requisiti richiesti dalla disciplina – sono stati intrapresi nell’adempimento della cosiddetta Responsibility to Protect (R2P)[7]. Questa espressione indica una vera e propria forma di responsabilità, che grava in capo a tutti gli Stati ONU. Nello specifico, l’oggetto di questa responsabilità si risolve nell’onere di tutelare i diritti umani e di impedire catastrofi umanitarie come il genocidio. La R2P, benché formulata in ambito ONU, inerisce anche le varie organizzazioni regionali e subregionali. Inoltre la Responsibility to Protect concerne un programma d’intervento ed in questo differisce concettualmente dall’intervento umanitario, il quale poggia solo ed esclusivamente sul binomio uso della forza e previa esistenza del diritto di intervento, senza necessità di dover integrare un programma organico di difesa.
In ogni caso, per quanto al diritto internazionale contemporaneo vada riconosciuto un importante rilievo regolatore, la sua efficacia deterrente e persecutoria si espone a un indeterminato numero di perplessità. Parafrasando un aforisma di Ashley Montagu, alla luce del conflitto russo -ucraino e degli ultimi avvenimenti che hanno tristemente pervaso la stampa, bisogna porsi un interrogativo: il diritto internazionale esiste solo nei manuali?
[1] Esiste una rimarchevole differenza tra le locuzioni jus ad bellum e jus in bello. La prima è una definizione risalente, legata al c.d. diritto internazionale di pace e si risolve nel diritto di uno Stato o di un Paese di ricorrere all’uso della forza armata. D’altro canto, secondo il diritto internazionale di guerra, l’espressione jus in bello individuava il diritto applicabile, nel caso in cui fossero insorte ostilità tra Stati belligeranti.
[2] Bolech Cecchi D., Il Patto Kellogg-Briand tra Italia e Stati Uniti, in “Il Politico”, vol.59, Rubbettino Editore 1994.
[3] Schindler, “State of War, Belligerency, Armed Conflict”, cit., 19).
[4] ICJ, Reports,1986, 100, par.190.
[5] Ronzitti N., Diritto internazionale dei conflitti armati, settima edizione, pag. 29, Giappichelli,2021.
[6] Dinstein e Roscini
[7] I principali cenni legislativi alla R2P si possono rinvenire nei seguenti documenti: Rapporto del Panel di Alto Livello, 2004; Rapporto del Segretario Generale intitolato “In a larger freedom”, 2005. Documento adottato per consensus al Summit di New York dai Capi di Stato e di Governo, 14 – 16 Settembre 2005. Ronzitti N., Diritto internazionale dei conflitti armati, settima edizione, pag. 54, Giappichelli,2021.
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Miriana Fazi
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