Maltrattamenti contro familiari e conviventi aggravati dall’evento morte (o lesioni): la Cassazione accoglie la tesi della cd. “causalità cumulativa”

Maltrattamenti contro familiari e conviventi aggravati dall’evento morte (o lesioni): la Cassazione accoglie la tesi della cd. “causalità cumulativa”

Nota a  Cass. pen., Sez. VI, sent. 13 dicembre 2022 (dep. 18 gennaio 2023), n. 1948, Pres. Fidelbo, Rel. Giordano

di  Sandro Felicioni         

Sommario1. Premessa – 2. Il caso di specie – 3. I termini del “contrasto” giurisprudenziale – 4. L’adesione alla tesi della cd. “causalità cumulativa” della VI Sezione – 5. Osservazioni a margine


1. Premessa

Con la sentenza che qui si annota, la Sesta Sezione della Cassazione è tornata a pronunciarsi sul perimetro applicativo della fattispecie aggravata di maltrattamenti di cui al terzo comma dell’art. 572 c.p. (che, prima della riforma novellistica di cui alla Legge n. 172/2012, costituiva il secondo comma di detta norma incriminatrice) e, in particolare, sulla individuazione del rapporto che deve intercorrere tra l’evento morte (o lesioni personali) e il fatto di maltrattamenti, giungendo a conclusioni del tutto opposte rispetto ad un suo precedente, in subiecta materia, risalente al 2012.

Giova, preliminarmente, riassumere il caso di specie che ha dato origine alla pronuncia in commento.

Il ricorrente era stato condannato per il reato di maltrattamenti aggravato ex art. 572, commi 1 e 3, c.p. in danno dell’allora convivente more uxorio, la quale era deceduta in conseguenza delle azioni violente e, in particolare, di alcuni spintoni che ne avevano determinato una rovinosa caduta.

Entrambi i giudici di merito avevano respinto la richiesta di scarcerazione, formulata dalla difesa dell’imputato, per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare, a cui lo stesso era stato medio tempore sottoposto, ritenendo integrata la fattispecie aggravata di maltrattamenti. Il difensore proponeva quindi ricorso per cassazione, denunciando un’errata modalità di computo dei termini della misura custodiale e contestando – per quel che interessa ai fini della presente trattazione – la ritenuta sussistenza dell’aggravante speciale in discorso.

2. Il caso di specie

Tanto premesso in fatto, merita altresì tratteggiare le linee fondamentali della fattispecie criminosa in rilievo e della quaestio iuris affrontata dalla Suprema Corte.

Come noto, i maltrattamenti contro familiari o conviventi configurano l’ipotesi par excellence di reato abituale di mera condotta (a differenza degli atti persecutori, che integrano invece – secondo la prevalente ricostruzione – un reato abituale di evento [1]), richiedendo, per la sua sussistenza, la reiterazione, in un intervallo temporale sufficientemente apprezzabile, di più atti omogenei che si traducano nell’inflizione di sofferenze morali e/o fisiche nei confronti del soggetto passivo, che, di per sé, ove singolarmente considerati, potrebbero anche  non costituire reato (i singoli atti di cui si compone la condotta di maltrattamenti potrebbero infatti, uti singuli, non integrare gli estremi di alcun reato, finendo però per assumere rilevanza penale attraverso la loro reiterazione nel tempo; si pensi, ad es., al caso di continue contumelie al convivente, fatto di per sé penalmente lecito, integrando l’ormai abrogato delitto di ingiuria [2]), a prescindere dalla percezione o dalla resistenza della vittima (diversamente opinando, infatti, la tipicità della fattispecie verrebbe a dipendere da fattori relativi, anche di carattere culturale, come avviene in quei contesti sociali in cui i maltrattamenti non sono percepiti come vessazione ma generalmente accettati, se non suffragati da motivi religiosi), con l’effetto che ogni successivo atto vessatorio si riallaccia ai precedenti, saldandosi con essi e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario (in tal senso, v. Cass., sez. VI, 19 ottobre 2017, n. 56961, in CED 272200).

Orbene, il terzo comma dell’art. 572 c.p. ricollega al verificarsi della morte (ovvero delle lesioni personali gravi o gravissime), come conseguenza necessariamente non voluta dei maltrattamenti [3], una cornice edittale assai più severa rispetto all’ipotesi di cui al primo comma, che va da dodici a ventiquattro anni di reclusione, con una pena massima che giunge così a coincidere con quella prevista per l’omicidio volontario (non aggravato).

In disparte la vexata quaestio relativa alla natura da riconoscersi alla fattispecie in scrutinio (e cioè se essa costituisca un’ipotesi aggravata di maltrattamenti ovvero un autonomo titolo di reato, per cui, nell’un caso, l’evento morte verrebbe in rilievo come mero elemento circostanziale mentre, nel secondo, quale elemento costitutivo di un’autonoma figura di reato), di cui la sentenza in commento afferma, in modo netto, la natura circostanziale (ancorché sul tema si registri, da sempre, ampio dibattito, che in questa sede non può, però, soltanto che accennarsi [4]), se è del tutto pacifico – tanto in giurisprudenza quanto in dottrina – che, ai fini dell’integrazione dell’aggravante in discorso, i maltrattamenti non debbano rappresentare la causa unica ed esclusiva dell’evento morte (i quali ben possono concorrere con altre concause alla produzione dello stesso, in base al principio di equivalenza di cui all’art. 41, co.1, c.p. [5]), risulta invece controversa allo stato dell’arte – rileva la Sesta Sezione – l’individuazione del legame che deve sussistere tra l’evento morte (o lesioni) e i maltrattamenti, e cioè se il nesso causale, richiesto dal terzo comma dell’art. 572 c.p., debba necessariamente ricorrere tra la condotta di maltrattamenti globalmente considerata e la morte, ovvero è sufficiente che esso leghi quest’ultima anche ad uno solo degli atti che compongono la condotta tipica.

Ci si chiede, quindi, se la condotta causativa dell’evento morte, anche in via non esclusiva, debba essere rappresentata dai maltrattamenti unitariamente considerati (e cioè dalla complessiva condotta vessatoria), nel senso che i singoli atti dei maltrattamenti non sarebbero, singolarmente, in grado di cagionare ex se l’evento lesivo ma solo combinandosi insieme in una sorta di “progressione verso la morte” (tesi della cd. causalità cumulativa, come si dirà meglio infra), ovvero anche dai singoli atti che compongono il reato abituale de quo.

3. I termini del “contrasto” giurisprudenziale

Così enucleata la questione controversa, secondo un primo orientamento, accolto dalla S.C. nel 2012 (il riferimento è a Cass., sez. VI, 20 novembre 2012, n. 46848, in CED 254275 [6]), l’ipotesi in scrutinio – che viene esplicitamente qualificata come circostanza aggravante – troverebbe applicazione in virtù del mero, riscontrato rapporto di causalità materiale anche soltanto tra l’atto finale della serie di maltrattamenti e l’evento più grave non voluto (morte o lesioni), purchétra le pregresse condotte di maltrattamenti e la condotta cui sia direttamente riferibile l’evento aggravatore non vi sia una cesura logica e cronologica[7], altrimenti quest’ultima assurgerebbe a causa autonoma sopravvenuta, da sola sufficiente a produrre l’esito lesivo, non integrando così l’evento aggravatore dei maltrattamenti ma, in via autonoma, a seconda dei casi, le fattispecie di omicidio o lesioni personali colposi (ovvero, in alternativa, ove esso consista nell’evento morte, anche di omicidio preterintenzionale).

Nella vicenda allora sottoposta alla sua attenzione, in cui la Sesta Sezione aveva ravvisato gli estremi dell’ipotesi aggravata di maltrattamenti nei confronti di due coimputati, la morte della persona offesa (minore d’età) era stata ascritta non solo all’autore del colpo letale “finale” (padre del minore), ma altresì ad un altro soggetto (convivente more uxorio), che aveva in precedenza concorso con il primo ai maltrattamenti ancorché quale concorrente morale.

In altri termini, ad avviso di tale indirizzo, ai fini dell’integrazione dell’aggravante in parola, sarebbe sufficiente che l’atto da cui derivi l’evento morte si inserisca nella serie delle azioni maltrattanti, e quindi faccia parte dell’unitario complesso delle stesse, pur avendo efficacia eziologica autonoma e diretta.

Di talché, l’exitus può essere tanto l’epilogo della serie di continue prevaricazioni ai danni della persona offesa, quanto il prodotto o, meglio, l’effetto immediato anche di un singolo atto violento finale nei confronti della stessa, che ‘chiude’ – in modo tombale – il climax ascendente di vessazioni fisiche e/o psicologiche.

4.  L’adesione alla tesi della c.d. “causalità cumulativa” della VI Sezione

La Cassazione sceglie invece, con la pronuncia qui segnalata, di discostarsi dal proprio precedente (promanante, peraltro, dalla medesima Sezione) di dieci anni prima – pur non menzionandolo espressamente – sposando la tesi della c.d. “causalità cumulativa” (in luogo di quella che potrebbe qualificarsi come tesi della “causalità esclusiva”), già invero avanzata da attenta dottrina all’indomani del dictum del 2012 [8], e concludendo nel senso che,ai fini dell’integrazione dell’aggravante speciale de qua, il nesso causale deve ricorrere tra la complessiva condotta di maltrattamenti – e non già solo tra uno degli atti che ne fanno parte – e l’evento morte o lesioni. Pertanto, tale causalità dovrà, a rigore, ritenersi insussistente (con conseguente esclusione della fattispecie aggravata di cui all’art. 572 c.p.) nei casi in cui l’atto finale non risulti, di per sé, idoneo a cagionare l’evento dannoso, ma solo se ed in quanto unito alla serie di azioni maltrattanti che lo hanno preceduto.

Due i principali argomenti interpretativi a sostegno, richiamati in motivazione.

Il primo è l’argomento letterale, atteso che l’art. 572, co. 3, c.p. richiede expressis verbis che l’evento morte/lesioni derivi dal fatto di maltrattamenti in sé considerato (“se dal fatto deriva una lesione personale grave… se ne deriva la morte…”), mentre il secondo è quello sistematico, che fa leva sul confronto strutturale tra la fattispecie aggravata in parola e l’omicidio preterintenzionale (“in cui l’evento morte…è frutto di un solo episodio, quindi risultato di una condotta puntiforme e isolata rispetto alla quale va ricostruito il nesso causale, mentre, invece, nel reato di cui all’art. 572, comma 3, la punibilità dell’agente si innesta su (e deriva da) una complessiva trama illecita”) nonché sul raffronto con la pena comminata dall’art. 586 c.p. (che la S.C. qualifica espressamente in termini di reato), ben più lieve rispetto a quella prevista dall’art. 572 c.p., laddove cioè la morte o le lesioni scaturiscano dai maltrattamenti.

Sulla scorta di tali argomenti, la Cassazione giunge così ad affermare che “la configurabilità del reato aggravato di cui all’art. 572 c.p., deve correlarsi alla struttura di tale reato, come delitto abituale, sicché la morte, per essere evento aggravatore, deve prodursi a seguito di un ‘deterioramento’ delle condizioni della vittima, che conduce, progressivamente e senza soluzione di continuità, all’evento finale ”.

In altre parole, l’evento morte deve porsi come l’epilogo, o meglio come il risultato finale della sommatoria delle azioni maltrattanti, senza che nessuna di esse possa assurgere, alla stregua del noto giudizio controfattuale, a causa diretta ed immediata dello stesso.

La fattispecie di cui all’art. 572, co.3, c.p. richiede, pertanto, che il giudice penale valuti in modo rigoroso “[al]la rilevanza causale di tutti e ciascuno degli episodi costituenti la serie minima per integrare i maltrattamenti, ricostruita, dunque, sulla base di una relazione causale con le azioni commissive di maltrattamenti poste in essere in maniera abituale, piuttosto che sull’efficacia causale dell’ultimo della serie”.

Per contro, tale rilevanza non sussiste – precisano i supremi giudici – nella fattispecie prevista dall’art. 586 c.p., in cui a venire in rilievo è soltanto l’idoneità causale, da saggiarsi in base agli artt. 40 e 41 c.p., dell’atto che innesca l’evento aggravatore non voluto.

5. Osservazioni a margine

La soluzione adottata dalla pronuncia in commento risulta, a sommesso avviso di chi scrive, più che condivisibile, anche alla luce dei pregevoli argomenti, letterali e logico-sistematici, richiamati a sostegno.

La tesi della c.d. causalità cumulativa, accolta ora dalla VI Sezione con un vero e proprio revirement rispetto a quanto sostenuto dieci anni prima – per cui, giova ribadire, non è (più) sufficiente che l’evento morte sia causato da un atto che si inserisca cronologicamente nella serie dei maltrattamenti, dovendo esso scaturire dalla condotta abituale cumulativamente considerata, ponendosi così come il risultato di un processo di progressivo deterioramento psichico o fisico del soggetto passivo (es. familiare anziano o disabile lasciato morire di stenti e di fame) – appare infatti maggiormente convincente, anche al metro dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità della pena, nel giustificare il considerevole incremento sanzionatorio comminato dal legislatore, e quindi il ritenuto maggior disvalore (sotteso alla previsione della più grave cornice edittale) della fattispecie di cui all’art. 572, c. 3, c.p. sia rispetto alla fattispecie base di maltrattamenti sia rispetto ad alcune fattispecie delittuose contigue (omicidio preterintenzionale e omicidio colposo).

Inoltre, essa ha il merito di tracciare un distinguo più netto tra il delitto di maltrattamenti aggravato dall’evento morte (o lesioni) e l’omicidio preterintenzionale, laddove, invece, se si aderisse alla tesi precedentemente accolta dalla Suprema Corte, l’art. 572, co.3, c.p. finirebbe, in sostanza, per configurare un’ipotesi speciale di omicidio preterintenzionale [9] – la cui applicazione prevarrebbe su quella dell’art. 584 c.p., in base al principio di specialità – il cui elemento specializzante sarebbe dato dal fatto di essere preceduto da atti integranti una condotta di maltrattamenti (a cambiare sarebbe, seguendo tale diversa impostazione, soltanto il contesto in cui l’evento aggravatore viene prodotto, ben più riprovevole e quindi meritevole di una risposta sanzionatoria più aspra poiché preceduto dalla commissione di tale reato abituale).

Oltre ai pregevoli argomenti interpretativi spesi dalla Cassazione, si rileva – come, del resto, già evidenziato da attenta dottrina [10] – che, a favore della conclusione per cui non sarebbe sufficiente la mera contiguità logico-temporale (contrariamente a quanto sostenuto dal precedente del 2012) tra maltrattamenti ed evento morte, né il (pur necessario) legame psicologico tra quest’ultimo e la condotta vessatoria, milita, altresì, un indiscusso dato storico.

Nelle intenzioni originarie del codice Rocco, infatti, l’evento morte – sia nel caso dei maltrattamenti che dell’omicidio preterintenzionale – veniva accollato all’agente in base alla logica del versari in re illicita, e cioè a titolo di responsabilità oggettiva [11], la quale deve oggi rileggersi come responsabilità per colpa in ossequio al principio di colpevolezza, avente rango costituzionale (v., per tutte, Corte cost., sent. n. 364 del 24 marzo 1988).

Tale rilievo pare, quindi, avvalorare la conclusione che, già nelle intenzioni del legislatore storico, il legame tra i due elementi vada rinvenuto – ed anzi in ciò, allora, doveva esaurirsi – sul piano della causalità materiale (e non già su quello psicologico, da cui il codice del ’30 prescindeva del tutto!).

Tuttavia, alcuni osservazioni appaiono doverose.

Innanzitutto, non convince troppo il confronto tra la fattispecie – in tesi – aggravata di cui all’art. 572 c.p. e l’art. 586 c.p. (Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto), che la Suprema Corte qualifica placidamente come reato.

In realtà, la più autorevole dottrina penalistica – ma anche parte della giurisprudenza – osserva da tempo come l’art. 586 c.p. non configuri né un reato autonomo (e quindi una fattispecie incriminatrice di parte speciale) né circostanziato, bensì una ipotesi peculiare di aberratio delicti plurilesiva [12], i cui elementi specializzanti vanno ravvisati nella diversa natura del reato base (che deve essere necessariamente un delitto) e dell’offesa non voluta (consistente, alternativamente, nella morte o nelle lesioni personali), nonché dalla previsione di una circostanza aggravante speciale (laddove l’art. 83 c.p. si limita a richiamare la pena prevista per l’ipotesi colposa).

Ben più ‘calzante’ sarebbe stato, a parere di chi scrive, approfondire il raffronto con l’omicidio preterintenzionale (menzionato soltanto per incidens, all’inizio della parte motiva [13], che costituisce pacificamente – al contrario dell’art. 586 c.p. – un’ipotesi autonoma di reato), atteso che l’art. 572, co.3, c.p. contempla una pena di gran lunga più severa (fino a ventiquattro mesi di reclusione) rispetto a quella prevista dall’art. 584 c.p. (reclusione da dieci a diciotto anni) ovvero dall’art. 589 c.p. per l’omicidio colposo (la cui pena massima è, come noto, pari a cinque anni), a dimostrazione di come il legislatore ritenga tale fattispecie connotata da un disvalore maggiore, da rinvenirsi per l’appunto nella circostanza che, in tal caso, la morte scaturisce causalmente – anche se in via non esclusiva, potendo come si è detto fungere da mera concausa – dalla commissione del reato abituale, e non sia invece soltanto il risultato di un episodio della serie di maltrattamenti.

Ed è proprio tale surplus sanzionatorio ad aver, da tempo, condotto autorevolissima dottrina a denunciare il rischio che la previsione di cui all’art. 572 c.p. possa dar luogo – posto che l’evento aggravatore non può che essere oggi addebitato per colpa all’agente, in ossequio al principio di colpevolezza (rileggendo in tal modo, sulla scorta di un’interpretazione costituzionalmente orientata, quella che in origine configurava una pacifica ipotesi di responsabilità oggettiva) – ad una irragionevole sproporzione tra misura della pena e grado della colpevolezza del reo, concretizzando così un profilo di illegittimità costituzionale [14].

In secundis, seppur esente da aporie sul piano logico-normativo, oltre che maggiormente in linea con il dettato letterale dell’art. 572, co.3, c.p., non può tacersi che la tesi della causalità cumulativa, richiedendo che l’evento lesivo derivi dalla struttura abituale della condotta tipica di maltrattamenti, e quindi dalla sinergia causale esistente tra questi ultimi e l’evento lesivo, rischia in taluni casi di tradursi in una probatio diabolica o, con maggior frequenza, in una questione di fatto opinabile che, nella sostanza, finirebbe per giungere alle medesime conclusioni della tesi opposta, ancorché sul piano teorico la differenza tra le due tesi risulti piuttosto netta.

L’adesione alla tesi della causalità cumulativa determina, inoltre, importanti ripercussioni pratiche di cui l’interprete è chiamato a farsi carico.

In primo luogo, laddove l’evento morte, non voluto neppure a titolo di dolo eventuale, scaturisca soltanto da uno degli atti che integrano la condotta vessatoria tipica ovvero dall’ultimo della serie, verrebbe integrata soltanto l’ipotesi base di maltrattamenti, in concorso – a seconda dei casi – con l’omicidio preterintenzionale (purché ricorra un atto diretto a ledere o percuotere) o con il 586 c.p. (che, come rilevato supra, secondo la migliore dottrina penalistica, non individua, invero, un reato autonomo o circostanziato, bensì un’ipotesi speciale di aberratio delicti plurilesiva, più severamente sanzionata rispetto a quella generale di cui all’art. 83 c.p.), ovvero, ancora, atteso che il delitto di maltrattamenti può essere integrato anche da atti che di per sé non costituiscono reato (configurando, secondo la ricostruzione tradizionale, un reato abituale c.d. proprio), in concorso con l’omicidio colposo.

In secondo luogo, in tema di concorso di persone, ove l’evento morte hic et nunc verificatosi scaturisca esclusivamente dall’ultimo atto della catena di maltrattamenti e quest’ultimo venga compiuto solo da uno dei correi, di esso risponderà a titolo di omicidio preterintenzionale (o colposo) soltanto il relativo autore.

Viceversa, se si ritenesse comunque integrata l’ipotesi aggravata, sulla scorta della tesi della “causalità esclusiva”, risponderebbero entrambi, in concorso tra loro, di maltrattamenti aggravati, previa verifica della prevedibilità in concreto dell’evento morte, con l’effetto che anche il concorrente dei maltrattamenti che non abbia compiuto l’atto lesivo finale, verrà chiamato a rispondere dell’evento morte.

Per apprezzare tale conseguenza pratica di rilievo, è sufficiente far riferimento alla drammatica vicenda di cui si era occupata la stessa Sezione VI nel 2012, che vedeva un soggetto tratto a giudizio per aver maltrattato il figlioletto fino a cagionarne la morte, scaturita da un violento calcio all’addome, unitamente alla di lui convivente per aver concorso (moralmente) ai maltrattamenti e poi all’exitus.

Come si è detto, il fatto venne allora sussunto dalla Corte nella fattispecie aggravata di maltrattamenti (art. 572, co.2, c.p., nel testo vigente ratione temporis), con l’effetto che la compagna dell’autore materiale dei maltrattamenti era stata ritenuta, altresì, responsabile per la morte del bambino quale concorrente morale nella condotta base.

In casu, l’accoglimento della tesi della causalità cumulativa avrebbe determinato conseguenze di rilievo, in punto di qualificazione giuridica, per entrambi gli imputati, come di seguito meglio illustrato.

Quanto alla posizione dell’autore materiale delle condotte vessatorie e del loro atto terminale (padre della vittima), egli avrebbe ottenuto la riqualificazione del fatto ascritto nella fattispecie base di maltrattamenti (art. 572, co.1, c.p.), in concorso con l’omicidio preterintenzionale (o colposo), atteso che il decesso del minore era nel caso di specie derivato, come sopra anticipato, dal solo atto finale della condotta vessatoria (calcio sferrato all’addome), senza che i precedenti episodi di maltrattamenti avessero avuto un ruolo eziologico nella causazione dell’exitus.

Ne discende che l’allora ricorrente avrebbe risposto in via autonoma dell’evento morte cagionato, in quanto – per l’appunto – correlato ad una condotta del tutto svincolata e a latere rispetto a quella dei maltrattamenti.

Per quel che concerne, invece, la posizione della coimputata, convivente more uxorio, l’esito ermeneutico avrebbe potuto ragionevolmente essere il completo esonero da responsabilità, a titolo di concorso morale.

Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, se la S.C. avesse accolto nel 2012 la tesi in parola, affatto diverso sarebbe stato l’esito decisorio atteso che, in tale caso, non solo a cagionare la morte era stato un atto finale, conclusivo di una sequela di episodi di maltrattamenti, ma esso era stato compiuto esclusivamente da parte di uno dei coimputati.

Da ultimo, va altresì acclarato il precipitato della tesi della causalità cumulativa nelle ipotesi in cui l’evento morte venga integrato – come ammette la prevalente giurisprudenza – dal suicidio della vittima.

Orbene, in tal caso, ricorre a rigore una concausa “esterna” ai maltrattamenti, e cioè l’atto volontario della persona offesa di togliersi la vita: la circostanza stessa che la morte sia derivata da un atto suicidario della vittima dei maltrattamenti potrebbe condurre ad escludere, per ciò solo, la responsabilità dell’agente per l’evento morte? Ancorché la sentenza qui annotata non affronti tale aspetto, del tutto irrilevante ai fini della risoluzione del caso di specie, mi pare che la risposta non possa che essere di segno negativo in quanto il compimento dell’atto suicidario ben può rappresentare il frutto del deterioramento delle condizioni psicofisiche della p.o. dovute ai maltrattamenti, che, progressivamente e senza soluzione di continuità, conduce la stessa alla disperata scelta di togliersi la vita.

Ad ogni modo, resta ferma la necessità di accertare – in tal caso, con maggior rigore – la ricorrenza del nesso causalistico tra la complessiva condotta di maltrattamenti, quale unicum inscindibile, e il suicidio della vittima, atteso che – in astratto – quest’ultimo potrebbe rilevare come causa interruttiva del rapporto di causalità ex art. 41, co. 2, c.p., da rileggersi secondo la tesi – oggi prevalente in giurisprudenza, quale correttivo alla teoria condizionalistica, che anche la VI Sezione mostra di condividere – della c.d. “imputazione obiettiva dell’evento” (che riconosce, come noto, valenza interruttiva ai fattori concausali sopravvenuti che risultino la concretizzazione di un rischio oggettivamente eterogeneo ed anomalo rispetto alla condotta tipica).

Una volta escluso, alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, che la scelta della vittima di suicidarsi abbia integrato un evento oggettivamente abnorme, idoneo a recidere il rapporto di causalità, il giudicante dovrà poi valutare, sulla scorta di un giudizio prognostico, in ossequio al principio di colpevolezza, se essa abbia rappresentato, sempre alla luce delle peculiarità del caso di specie, un esito concretamente prevedibile della condotta maltrattante e non già il risultato “di una libera capacità di autodeterminazione della vittima, imprevedibile e non conoscibile da parte del soggetto agente” (così, Cass., sez. 6, n. 8097 del 23/11/2021, Rv. 282908, richiamata dalla sentenza in epigrafe).

In altre parole, come ricorda per incidens la S.C., l’accertamento della fattispecie aggravata in scrutinio, richiede una “doppia indagine”: la prima investe il profilo della causalità (nei termini sopra visti), mentre la seconda quello della imputazione soggettiva dell’evento aggravatore, e cioè della sua prevedibilità in concreto da parte dell’autore dei maltrattamenti.

A seconda dei casi, il suicidio della vittima può quindi dar luogo o ad una interruzione del rapporto di causalità (qualora già abnorme sul piano dell’efficacia causale, nonché eterogeneo rispetto al rischio creato dai maltrattamenti), o comunque integrare un evento soggettivamente imprevedibile e quindi non imputabile al maltrattatore. Non può però tacersi, in chiave critica, il rischio di una sovrapposizione tra i due piani: appare, infatti, arduo ipotizzare uno scenario fattuale in cui il suicidio della vittima non interrompa il rapporto di causalità ma, cionondimeno, risulti concretamente imprevedibile.

 

 

 

 

 


[1] A tal riguardo, v., da ultimo, Cass., sez. V, 4 giugno 2020, n. 16977, secondo cui il delitto di atti persecutori si consuma nel momento e nel luogo della realizzazione di uno degli eventi previsti dalla relativa norma incriminatrice, quale conseguenza della condotta unitaria costituita dalle diverse azioni causalmente orientate.
[2] Proprio per tale ragione, la dottrina pressoché unanime qualifica i maltrattamenti come reato abituale c.d. proprio, in cui – a differenza del reato abituale c.d. improprio (ne è un esempio la “relazione incestuosa”, punita dal co.2 dell’art. 564 c.p.) – i relativi elementi costitutivi non costituiscono, di per sé, reato; qualificazione che si riverbera anche in punto di configurabilità del tentativo (da escludersi nei reati abituali c.d. propri, in quanto – diversamente opinando – verrebbero puniti atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere fatti…leciti!).
[3] È, infatti, pacifico che, ove l’evento morte sia volontariamente cagionato dall’agente, egli risponderà di omicidio doloso, in concorso – formale o materiale – con i maltrattamenti (sarebbe, infatti, del tutto contradditorio, sul piano logico prima ancora che su quello giuridico, punire meno severamente l’omicidio che, volontariamente, consegue ai maltrattamenti rispetto a quello frutto di una condotta istantanea, ancorché voluta).
[4] Tra gli autorevoli contributi sul tema si segnalano, in particolare, MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di Diritto penale, Milano, 2015, p. 531 ss.; FROSALI, I reati preterintenzionali, in Giust. pen., 1947, p. 577 ss.; ZUCCALÀ, Il delitto preterintenzionale, Palermo, 1952, p. 75; GROSSO, Struttura e sistematica dei delitti aggravati dall’evento, in Riv. it. dir. proc. pen., p. 443 ss., p. 466; CANESTRARI, L’illecito penale preterintenzionale, Padova, 1989, p. 41.
[5] Tale conclusione è stata infatti, reiteratamente, affermata in giurisprudenza già in tempi risalenti (cfr. Cass., sez. V, 20 ottobre 1954, in Giust. pen., 1955, II, p. 18; Cass. 4 dicembre 1974, Porglinea; Cass., 10 gennaio 1986, Uccheddu).
[6] Per un articolato commento a tale precedente, v., per tutti, ASTORINA MARINO, Morte come conseguenza dei maltrattamenti: legame causale e valutazioni normative, in Dir. pen. cont., 8 marzo 2013.
[7] Si riporta, di seguito, la massima giurisprudenziale associata alla pronuncia in parola: “In tema di maltrattamenti in famiglia, integra la circostanza aggravante di cui all’art. 572, comma 2, c.p. la condotta di colui che ponga in essere fatti di maltrattamenti nel cui ambito si inscriva un’azione ‘finale’, anche se compiuta da un concorrente, la quale provochi direttamente il decesso della persona offesa, quando i maltrattamenti, globalmente considerati, pure in considerazione dell’ultimo episodio di violenza, abbiano idoneità concreta ad offendere il bene vita” (Cass. pen., sez. VI, n. 46848/2012).
[8] Cfr. ASTORINA MARINO, op. cit., par. 2.
[9] In tal senso, appare però orientata parte della dottrina: cfr. FROSALI, op. cit., p. 577; TAGLIARINI, I delitti aggravati dall’evento, Padova, 1979, p. 180; CANESTRARI, cit., pag. 41.
[10] Il riferimento è sempre a ASTORINA MARINO, cit., pp. 3-4.
[11] L’argomento, per la verità, sembra essere preso in considerazione – ancorché non venga sviluppato funditus – dalla sentenza annotata, nella parte in cui la Corte evidenzia, en passant, che i delitti in discorso (maltrattamenti aggravati e omicidio preterintenzionale) sono “accumunati dai principi del versari in re illicita” (par. 2.11).
[12] V., ex plurimis, F. Mantovani, Diritto Penale-Parte Speciale, CEDAM, 2015 p.149 e F. Basile, Codice Penale Commentato, sub art 586, di G. Dolcini – E. Marinucci vol. III, III ed., IPSOA, Milano, 2011, p. 5386.
Per la giurisprudenza di legittimità, v. Cass., sez. V, 8 giugno 1982, n. 7089.
[13] La VI Sezione si limita, infatti, ad evidenziare il fondamento comune dell’omicidio preterintenzionale e dei maltrattamenti aggravati, da rinvenirsi, secondo il legislatore storico, nel principio del versari in re illecita.
[14] Il riferimento è, ancora, a MARINUCCI-DOLCINI, op. cit., p. 374 ss.; a riguardo gli autori precisano altresì che l’eventuale declaratoria di incostituzionalità “non aprirebbe alcun vuoto repressivo, perché la soppressione di tali norme (i.e. quelle che prevedono i cd. delitti aggravati dall’evento, ndr) potrebbe essere colmata dalle norme sul concorso formale di reati…”.

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