Maltrattamenti in famiglia: quando non si configura il reato?
Il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi, previsto dall’art. 572 del Codice penale, appare meritevole di particolare attenzione non soltanto perché attualmente in costante aumento e per tale ragione da anni sotto la lente di ingrandimento della stampa, ma anche perché certamente peculiare dal punto di vista giuridico sotto numerosi aspetti.
In primo luogo, la collocazione sistematica della norma incriminatrice suggerisce che il bene giuridico tutelato è la famiglia (o un vincolo che il legislatore ritiene ad essa assimilabile) e non invece la persona, a differenza di quanto previsto dal previgente Codice Zanardelli.
Questo appare quasi anacronistico e crea non poche difficoltà se pensiamo alla società di oggi in cui il concetto di famiglia è sempre più fluido, sfuggente, dai contorni sfocati e indefiniti.
Proprio per adeguare la norma ai nostri tempi il legislatore e la giurisprudenza si adoperano da anni per allargare le maglie di operatività di tale delitto di particolare allarme sociale, facendo rientrare al suo interno i “rapporti di fatto” e le convivenze.
La Suprema Corte si è spinta a ritenere configurabile il reato in questione perfino nel caso in cui una convivenza in senso stretto – intesa come stabile e continua coabitazione – non ci sia mai stata o non ci sia più, si pensi ai casi di separazione consensuale o giudiziale dei coniugi (Cass. Pen., Sez. VI, 15 luglio 2014, n.31123) o nel caso in cui vi sia una situazione di condivisa genitorialità, a condizione che si sia instaurata una relazione sentimentale, ancorché non più attuale, tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale, autonomo rispetto ai doveri connessi alla filiazione (Cass. Pen., Sez. VI, 11 settembre 2019, n.37628).
Tuttavia, è utile ricordare che in tali casi l’accusa avrà l’onere di provare l’esistenza di un vincolo affettivo stabile e di conseguenti aspettative di assistenza reciproca. Il delitto di cui all’art 572 c.p. non sussiste, dunque, ove risulti la definitiva disgregazione dell’originario nucleo familiare (Cass. Pen., Sez. VI, 28 febbraio 2020, n. 8145).
Inoltre, tale fattispecie di reato è talmente ampia da ricomprendere al suo interno anche il c.d. mobbing lavorativo, e cioè la condotta del datore di lavoro consistente in una reiterazione di atteggiamenti ostili e volti a mortificare e isolare il lavoratore nell’ambiente di lavoro.
Pur comprendendo l’originaria ratio della norma, la riconduzione di tale fenomeno al paradigma di tutela delle relazioni endo-familiari appare, a mio parere, difficoltosa e forzata e finisce per parificare due fattispecie concrete estremamente diverse sia per le dinamiche sia per gli effetti psicologici che causano sulle vittime.
In secondo luogo, occorre sottolineare che il delitto di maltrattamenti è un reato proprio necessariamente abituale. Infatti, devono susseguirsi una serie di condotte, di per sé anche potenzialmente lecite, che assumono nel loro complesso e nel loro protrarsi nel tempo, carattere di illiceità. Pertanto, se è vero che ai fini della configurabilità del reato previsto ex art 572 c.p. non è richiesto dal soggetto agente un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto, tuttavia è vero anche che le condotte non devono essere episodiche o sporadiche (Cass. Pen. , Sez. VI, 4 luglio 2018 – 19 marzo 2019, n. 12196).
Inoltre, non è sufficiente la sussistenza di singoli e sporadici episodi di percosse o lesioni, poiché è necessario che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile al soggetto passivo, di cui naturalmente l’accusa deve dare prova, altrimenti il reato non è configurabile (Cass. Pen., Sez. VI, 9 febbraio 2016, n. 5258; Cass. Pen. , Sez. I, 12 febbraio 1996 – 24 settembre 1996, n. 8618).
Un ultimo punto che ritengo sia interessante affrontare, in quanto costituisce spesso una “zona grigia”, è quello che riguarda la linea di demarcazione tra conflitto e maltrattamento. Sappiamo come spesso le situazioni vengano, talvolta volontariamente talvolta involontariamente, confuse. È la stessa sentenza n. 5258 del 2016 della Suprema Corte, pocanzi citata, a fare chiarezza. Infatti, nella stessa si legge: “nel riesaminare compiutamente, alla luce delle emergenze istruttorie, la specifica valenza probatoria attribuibile a ciascuno degli episodi, i giudici di merito hanno posto rilievo da un lato al temperamento irascibile e non incline alla moderazione dell’imputato, dall’altro alla costante capacità reattiva della moglie e all’assenza di un supino atteggiamento rispetto alle intemperanze anche verbali del marito”. La Corte di Cassazione ha assolto l’imputato poiché è stata rilevata l’impossibilità di configurare un comportamento obiettivamente caratterizzato da tratti di abituale e sistematica prevaricazione basata su una posizione di passiva soggezione dell’uno nei confronti dell’altro.
Conseguentemente, emerge che per poter segnare un confine netto tra conflitto e maltrattamento in famiglia è necessario attenzionare l’atteggiamento psicologico del presunto autore del reato e della presunta vittima, in quanto per configurarsi il reato di cui all’art. 572 c.p. il maltrattato deve trovarsi in una condizione psicologica di sottomissione, subordinazione rispetto al maltrattante. Deve essere lampante, dunque, una disparità di poteri tra le due parti.
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Alessandra La Mattina
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