Mantenimento dei figli maggiorenni: condizioni, durata, legittimazione

Mantenimento dei figli maggiorenni: condizioni, durata, legittimazione

La crisi economica ed occupazionale che affligge in modo particolare le nuove generazioni ha dato luogo negli anni ad un vero e proprio fenomeno dei figli maggiorenni a carico, tant’é che nella casistica giurisprudenziale viene affrontato sempre più spesso il tema delle condizioni e della durata dell’obbligo di mantenimento.

E’ indubbio che tale obbligo non cessi automaticamente con il raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, ma perduri fino a quando quest’ultimo, senza sua colpa, sia ancora dipendente dai genitori.

Tuttavia, i giudici, in relazione ai casi specifici – non di rado relativi a figli ultratrentenni non ancora economicamente autosufficienti – hanno tentato di contemperare le esigenze di tutela dei figli con il principio del ragionevole protrarsi dell’obbligo.

La Cassazione, con ordinanza n. 19135/2019, ha ribadito che “il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, caso per caso, e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all’età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo, fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione, nel rispetto delle sue capacità, inclinazioni e aspirazioni ”.

Seguendo il ragionamento della Suprema Corte, va, in primo luogo, esaminato il requisito dell’età.

Sul punto, in mancanza di disposizioni normative, appare interessante l’ordinanza del 29/03/2016 della IX sezione civile del Tribunale di Milano laddove si fa riferimento alle statistiche ufficiali, nazionali ed europee, per fissare la soglia dei 34 anni, oltre la quale lo stato di non occupazione – secondo il Giudice di Milano – non potrebbe più essere considerato quale elemento ai fini del mantenimento.

Nel caso di specie, il Tribunale ha sottolineato come sul figlio maggiorenne incombano doveri di autoresponsabilità, ragion per cui, salvo che il figlio versi in una condizione di handicap grave, con il superamento di una certa età il maggiorenne, anche se non indipendente, raggiunge comunque una sua dimensione di vita autonoma che lo rende, se del caso, meritevole del solo diritto agli alimenti ai sensi dell’art. 433 c.c.

Come già rilevato, la Cassazione poi giustifica il protrarsi dell’obbligo di mantenimento in funzione del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione che consentano al figlio l’effettivo conseguimento di una competenza professionale e/o tecnica.

In due recenti casi è stata sottoposta all’attenzione della Suprema Corte la condizione del figlio/a libero professionista, che ha sì completato il proprio percorso formativo ma non ha ancora raggiunto l’indipendenza economica.

Nella prima fattispecie esaminata dalla Corte (Cass. n. 5088 del 5/03/2018), il padre aveva chiesto la revoca dell’assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne che aveva superato l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense e si era iscritto all’albo degli avvocati.

Né il Tribunale né la Corte d’Appello avevano accolto tale richiesta rilevando che la circostanza dedotta dal padre, ovvero il conseguimento dell’abilitazione, non era di per sè sufficiente a dare prova dell’acquisita autonomia economica del figlio.

La Cassazione, invece, tenendo conto degli elementi concreti della fattispecie, ha accolto con rinvio il ricorso del padre e, richiamando un suo precedente orientamento (Cass. n. 12952/2016), ha puntualizzato che, nella normalità dei casi, quando il percorso formativo è ampiamente concluso, la condizione di persistente mancanza di autosufficienza economico reddituale, in mancanza di ragioni individuali specifiche (ad es. di salute), costituisce un indicatore di inerzia colpevole.

Diversamente, nel caso di cui all’ordinanza n. 19135/2019, il Supremo Collegio ha rigettato il ricorso del padre che chiedeva la revoca dell’assegno di mantenimento per la figlia (anch’essa avvocato) sulla scorta del fatto che il ricorrente non aveva dato prova che la ragazza percepisse introiti tali da renderla autosufficiente economicamente.

In buona sostanza, sebbene la giurisprudenza continui a confermare i principi generali sul tema, nella casistica si riscontrano decisioni più o meno rigorose sul piano probatorio.

Pare, comunque, pacifico che il raggiungimento di “una certa età” e la conclusione del percorso formativo costituiscano esclusivamente prove presuntive che non esimono il genitore, che contesti la domanda di mantenimento o chieda la revoca di un precedente provvedimento, dal dare prova dell’effettiva autosufficienza del figlio.

Merita, infine, di essere attenzionata la questione della legittimazione a far valere in giudizio il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne.

Si ritiene uniformemente che, qualora il figlio conviva con uno dei genitori, la legittimazione di quest’ultimo concorra con quella del figlio.

Mentre il genitore convivente, in linea di massima, formula la richiesta in sede di separazione o divorzio, il figlio può agire personalmente in un autonomo giudizio, considerato che l’art. 337 septies c.c. prevede che il giudice, valutate le circostanze, possa disporre il versamento diretto dell’assegno.

Si ritiene, infatti, che la natura del contributo di mantenimento sia composita, in quanto l’interesse del figlio coesiste con quello autonomo del genitore convivente.

La Cassazione, coerentemente alla superiore impostazione, con sentenza n. 32529 del 14/12/2018, ha avuto modo di precisare che il coniuge separato o divorziato, già affidatario, è legittimato iure proprio ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne e, pertanto, l’eventuale rinuncia del figlio (a prescindere dalla sua validità), non spiega effetti sulla posizione giuridico-soggettiva del genitore.

A ciò si aggiunga che, secondo la tesi giurisprudenziale dominante, il concetto di coabitazione va interpretato in maniera non rigida.

Conseguentemente, la Cassazione ha chiarito che può ravvisarsi un collegamento stabile del figlio con la casa del genitore collocatario anche se la coabitazione non è quotidiana, essendo tale concetto compatibile con l’assenza del figlio anche per periodi non brevi per motivi di studio o di lavoro, purchè egli vi faccia rientro regolarmente (Cass. n. 14241/2017).

Alla luce di quanto sin qui esposto, sembra di poter affermare che la giurisprudenza, nonostante i richiami al principio di autoresponsabilità dei figli, orienti le proprie decisioni prevalentemente nell’ottica della solidarietà familiare, con il rischio di assecondare modelli educativi e sociali che prolungano oltremodo il riconoscimento dello status di figlio a carico.


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