Matrimonio annullato causa Covid-19: quali rimedi esperire?
A causa dell’emergenza sanitaria derivante dalla diffusione del virus Covid-19, tra i problemi sorti vi è quello relativo all’annullamento dei matrimoni e dei correlati festeggiamenti, soprattutto con riferimento alla sorte degli acconti di denaro versati dai futuri sposi per impegnare tutti i vari servizi dagli stessi richiesti.
Con il D.L. n. 6/2020 il Governo ha sospeso gli eventi di qualsiasi natura (culturale, sportiva, religiosa, ecc…) che si sostanzino in forme di riunioni in luogo pubblico o privato, tra cui è possibile annoverare la celebrazione del matrimonio.
Bisogna, infatti, tener conto che a causa di tale misura tutti i matrimoni organizzati nel periodo successivo all’emanazione del decreto sono stati sospesi, con la conseguente nascita di dispute in ordine alla sorte degli acconti già versati.
A parere di questo autore, tra i rimedi astrattamente esperibili vi sarebbero l’estinzione dell’obbligazione per impossibilità sopravvenuta con conseguente restituzione delle somme versate, l’istituto della presupposizione e la disciplina del termine essenziale con la conseguente risoluzione del contratto.
Quanto al primo rimedio, lo stesso deriva dal combinato disposto degli artt. 1256 e 1463 c.c.
Ai sensi dell’art. 1256, co.1, c.c. “l’obbligazione si estingue quando, per causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”.
Per impossibilità della prestazione si intende qualsiasi impedimento assoluto ed obiettivo che non permetta l’esecuzione della prestazione, così come stabilito in contratto.
La norma richiede, altresì, la non imputabilità della causa dell’impossibilità al debitore ai fini dell’estinzione della prestazione, pertanto, deve farsi riferimento a cause estranee sia dalla volizione del debitore, che dalla sua condotta.
Ci si riferisce, infatti, non solo agli elementi del dolo o della colpa del debitore, ma anche all’elemento della prevedibilità ed evitabilità della causa di impossibilità, che permette di escludere l’imputabilità anche colposa della stessa, secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza (Cass. sez. II n. 4016/2004).
Sul punto, un remoto orientamento giurisprudenziale si è espresso in ordine alle caratteristiche dell’impossibilità statuendo che “l’impossibilità sopravvenuta della prestazione rilevante ai fini degli artt. 1256 e 1463 c.c. deve essere, oltre che assoluta, obiettiva. La valutazione del giudice del merito in ordine alla sussistenza o meno nel caso concreto della detta impossibilità deve essere condotta alla stregua di tutte le circostanze della fattispecie” (Cass. n. 4937/1985).
Di recente, è stato nuovamente sottolineato che “L’impossibilità sopravvenuta non deve essere necessariamente ricollegata al fatto di un terzo: la non imputabilità il debitore non restringe il campo delle ipotesi ma, per quanto sopra argomentato, consente di allargare l’applicazione della norma a tutti i casi, meritevoli di tutela, in cui sia impossibile, per eventi imprevedibili e sopravvenuti, utilizzare la prestazione oggetto del contratto” (Cass. n. 18047/2018).
Infatti, ciò che rileva principalmente e che porta ad una valutazione in termini di estinzione dell’obbligazione è che l’elemento che viene colpito dall’impossibilità è la causa contrattuale in quanto non può essere più conseguita la finalità sottesa alla stipulazione del contratto (Cass. sez. III n. 8766/2019).
Nel caso di specie, considerato che la diffusione di una pandemia che ha portato all’emanazione di misure legislative emergenziali può rappresentare una causa obiettiva, assoluta, non derivante da dolo o colpa del debitore, né in alcun modo prevedibile o riscontrabile all’interno della normale alea del contratto, può ben dirsi che sussistono tutti i requisiti richiesti dalla legge ai fini dell’estinzione dell’obbligazione ai sensi dell’art. 1256 c.c.
Alla luce delle suddette considerazioni è, altresì, invocabile l’art. 1463 c.c. che disciplina l’ipotesi di impossibilità totale della prestazione.
Come è noto, l’art. 1463 c.c. così recita “Nei contratti con prestazioni corrispettive, la parte liberata per la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta non può chiedere la controprestazione, e deve restituire quella che abbia già ricevuta, secondo le norme relative alla ripetizione dell’indebito”.
Il codice civile appresta, dunque, quale rimedio all’impossibilità sopravvenuta il rimedio della restituzione delle somme già versate, secondo la disciplina della ripetizione dell’indebito.
Inoltre, risulta chiarificatrice un’interpretazione della Cassazione in tema di contratto di viaggio vacanza tutto compreso, relativamente agli artt. 82 ss. ormai abrogati, D. Lgs. n. 206/2005, c.d. Codice del Consumo che sostiene che “la finalità turistica o scopo di piacere non è un motivo irrilevante, ma si sostanzia nell’interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, connotandone la causa concreta e determinando, perciò, l’ essenzialità di tutte le attività e dei servizi strumentali alla realizzazione del preminente scopo vacanziero, con la conseguenza che l’irrealizzabilità di detta finalità per sopravvenuto evento non imputabile alle parti determina, in virtù della caducazione dell’elemento funzionale dell’obbligazione costituito dall’interesse creditorio, l’estinzione del contratto per sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione con esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni” (Cass. n. 16315/2007).
Pertanto, nonostante la mancanza di pronunce in merito da parte della Cassazione, in virtù della disciplina generale in materia di contratti sono astrattamente applicabili gli artt. 1256 e 1463 c.c. che permettono ai futuri sposi di invocare il rimedio dell’estinzione dell’obbligazione per impossibilità sopravvenuta, a cui si ricollega la ripetizione delle somme già versate.
Un ulteriore istituto che viene in risalto è la presupposizione che non trova menzione nel codice civile, ma è oggetto di disciplina da parte della dottrina e della giurisprudenza.
Secondo la Cassazione, “In materia contrattuale, per configurare la fattispecie della cosiddetta presupposizione (o condizione inespressa) è necessario che dal contenuto del contratto si evinca l’esistenza di una situazione di fatto, non espressamente enunciata in sede di stipulazione, ma considerata quale presupposto imprescindibile della volontà negoziale, il cui successivo verificarsi o venir meno dipende da circostanze non imputabili alle parti” (Cass. n. 5112/2018).
Si parla, dunque, di un evento da cui dipende l’efficacia del contratto, la cui verificazione o meno non è addebitabile alle parti e che ne connota la causa concreta.
Secondo passata giurisprudenza, “la presupposizione deve intendersi come figura giuridica che si avvicina, da un lato, ad una particolare forma di condizione, da considerarsi implicita e, comunque, certamente non espressa nel contenuto del contratto e, dall’altro, alla stessa causa del contratto, intendendosi per causa la funzione tipica e concreta che il contratto è destinato a realizzare; il suo rilievo resta dunque affidato all’interpretazione della volontà contrattuale delle parti, da compiersi in relazione ai termini effettivi del negozio giuridico dalle medesime stipulato” (Cass. n. 6631/2006).
La dottrina ha ricondotto tale istituto all’interno della disciplina di cui all’art. 1366 c.c. che introduce il principio di buona fede quale clausola generale di interpretazione del contratto, di talché risulterebbe contraria a buona fede la condotta della controparte che, essendo a conoscenza della presupposizione, chieda ugualmente l’adempimento.
La giurisprudenza arriva al medesimo risultato attraverso altre considerazioni, partendo dall’analisi dell’art. 1463 c.c., sostenendo che la perdita di interesse da parte di un contraente porterebbe ad una valutazione in termini di impossibilità sopravvenuta e di inesigibilità della prestazione per contrarietà al principio di buona fede contrattale ai sensi degli art. 1175, 1366, 1375 c.c.
Per buona contrattuale deve intendersi “un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, applicabile in ambito contrattuale ed extracontrattuale, in quest’ultima ipotesi designando una regola di comportamento in base alla quale il soggetto è tenuto, a prescindere dalla sussistenza di specifici obblighi contrattuali, a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui (nei limiti dell’apprezzabile sacrificio), dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità” (Cass. n. 2057/2018).
Alla luce delle superiori considerazioni, si ritiene che anche tale disciplina sia astrattamente applicabile, in quanto la mancata celebrazione del matrimonio costituirebbe il venir meno della finalità sottesa alla stipulazione del contratto, intesa quale presupposizione dello stesso.
In applicazione delle norme generali sul contratto, qualora i contratti tra le parti fossero stipulati in forma scritta, sarebbe astrattamente applicabile anche la disciplina sul termine essenziale di cui all’art. 1457 c.c., il quale così recita “se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni. In mancanza, il contratto s’intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”.
Sulla base di tale disposizione, risulta necessario svolgere un’indagine sull’elemento dell’essenzialità del termine che nel tempo è stato oggetto di interventi giurisprudenziali.
In giurisprudenza si è arrivati a considerare connotato dal requisito dell’essenzialità un termine anche in assenza di esplicita menzione in tal senso dalle parti, bensì attraverso una valutazione globale degli interessi perseguiti e delle possibilità di realizzarli in ragione delle circostanze del caso concreto.
In considerazione di ciò, in mancanza di adempimento della prestazione nella data indicata quale termine essenziale per una delle parti, si può ben ritenere che ogni utilità sia venuta meno con il mero decorso della data stabilita (Cass. n. 8216/2011).
Pertanto, avendo riguardo alla funzione del contratto ed alla sua causa concreta, profili attraverso i quali analizzare la natura del termine, può ipotizzarsi che i futuri sposi che non possano più celebrare il matrimonio in quella determinata data, considerata come termine, per causa sopravvenuta a loro non imputabile, come la pandemia in atto, possano non avere più interesse a svolgere la cerimonia in un momento successivo presso lo stesso posto.
Tutto ciò sulla base della considerazione che il loro interesse è proprio quello di celebrare il matrimonio in quel determinato giorno ed in quella determinata location.
Dunque, considerata la data della celebrazione quale termine essenziale, i futuri sposi potrebbero chiederne la risoluzione del contratto con la restituzione delle somme eventualmente versate.
Esaminati gli istituti generali che, sulla base di un’astratta analisi, vengono in rilievo e considerato che, essendo la tematica di nuova emersione, non vi sono ancora pronunce in merito alla disciplina applicabile, si auspica un intervento chiarificatore da parte della Cassazione affinché possa delineare meglio i contorni della fattispecie.
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Marika Zanerolli
Nata a Piazza Armerina nel 1994. Diplomata al Liceo Classico nel 2013. Laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Catania nell'ottobre 2018. Diplomata presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali "A. Galati" di Catania nel luglio 2020.
Ha svolto Tirocinio ex art. 37 L. 111/11 presso la Prima Sezione Civile del Tribunale di Catania e pratica forense presso uno studio legale specializzato in diritto penale.
Attualmente, abilitata all'esercizio della professione forense.
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