Matrimonio imposto: sono lesi i diritti fondamentali della donna che può ottenere lo status di rifugiata
Il 24 novembre 2017 è stata depositata la sentenza n. 28152 con cui la Corte di Cassazione, Prima Sezione Civile, ribaltando una precedente pronuncia della Corte d’Appello di Bologna, ha accolto la richiesta di una donna nigeriana di ottenere lo status di rifugiata perché scappata da un matrimonio impostole.
Per la Suprema Corte quanto stabilito dall’art. 10, comma 3, della Costituzione, secondo cui “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge“, trova applicazione nel caso della cittadina nigeriana alla quale, dopo essere rimasta vedova, era stato imposto di sposare il proprio cognato. Il rifiuto aveva indotto la comunità ad emarginarla e ad allontanarla dalla sua abitazione, privandola delle proprietà e della responsabilità genitoriale. Il cognato compiva atti persecutori nei suoi confronti. La donna si vedeva, pertanto, costretta a venire in Italia, ove chiedeva l’ottenimento del diritto di asilo.
La pronuncia della Corte di Cassazione si fonda anche su quanto previsto dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (la cosiddetta “Convenzione di Istanbul“, resa esecutiva in Italia mediante la legge n. 77/2013).
Per la Suprema Corte il presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato risiede nel “fondato timore di persecuzione personale e diretta nel Paese di origine del richiedente a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate’“.
La donna è stata vittima di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza a un gruppo sociale, ovvero in quanto donna, nella forma di atti specificamente diretti contro un genere sessuale, così che “il peso delle norme consuetudinarie locali ha impedito” la possibilità di trovare “adeguata protezione da parte delle autorità statali“.
La donna è stata privata di diritti fondamentali – quali quello alla proprietà privata, alla genitorialità, alla libertà di scelta in merito alla decisione di sposarsi o meno e di scegliere il proprio compagno-, e le contromisure adottate nel suo Paese “hanno soltanto protetto la richiedente da un immediato rischio alla vita, ma non hanno posto fine alla violazione dei suoi diritti fondamentali“.
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Mariarosa Signorini
1996 conseguimento della Laurea in Giurisprudenza presso l'Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, con la valutazione di 105/110 e discussione della tesi in Istituzione di Diritto Privato, recante il seguente titolo "Interruzione della gravidanza e responsabilità civile del sanitario";
anno accademico 2005/2006 "Master in diritto di famiglia" Scuola Superiore di Amministrazione pubblica e degli Enti Locali;
anno 2007 "Corso di Diritto di famiglia" Alma Mater Studiorum, Facoltà di Giurisprudenza;
anno 2007 "Corso di perfezionamento e aggiornamento per la difesa nel processo minorile" Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Bologna e Fondazione Forense Bolognese;
anno accademico 2007/2008 "Corso di specializzazione in diritto familiare e minorile", Uni.Rimini, CE.S.DI.F. (Centro Studi e Ricerche in diritto familiare e minorile);
In regola con gli obblighi insiti nella formazione continua, ha partecipato ad eventi formativi, seminari e congressi che hanno ad oggetto il diritto familiare e minorile;
è avvocato in Bologna.
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