Medici, rapporto di lavoro in convenzione: natura privata o pubblica?
L’art. 48 della Legge 23 Dicembre 1978, n. 833 disciplina il rapporto lavorativo convenzionale dei medici. Tale norma prevede che “ l’uniformità del trattamento economico e normativo del personale sanitario a rapporto convenzionale è garantita sull’intero territorio nazionale da convenzioni, aventi durata triennale, del tutto conformi agli accordi collettivi nazionali stipulati tra il Governo, le regioni e l’Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI) e le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative in campo nazionale di ciascuna categoria”.
La domanda che oggi ci poniamo è quella relativa alla “qualificazione” della figura dei medici in convenzione, ovverosia se il rapporto lavorativo degli stessi sia da inquadrare nelle maglie del rapporto di pubblico impiego o, al contrario, in quello di natura privata.
Ebbene, la questione è stata non poco dibattuta e, di recente, la Corte di Cassazione è intervenuta sul tema fornendo univoca risposta al richiamato quesito.
Nel caso sottoposto al vaglio della Suprema Corte, due medici, i quali avevano svolto la propria attività professionale in qualità di medici in convenzione, avevano adito il Giudice del Lavoro, in seguito alla sospensione della loro convenzione, al fine di vedersi riconosciute le retribuzioni relative al periodo di sospensione del loro rapporto.
Il Giudice adito accoglieva la domanda e condannava la struttura sanitaria al pagamento di tutte le voci retributive per il periodo di sospensione.
La Regione competente, allora, proponeva appello avverso la suddetta sentenza lamentando una impropria applicazione analogica, al caso in esame, della norma ex art. 97, D.P.R. n. 3 del 1957, disciplina propria dei rapporti di pubblico impiego e la Corte di secondo grado aderiva a tale impostazione, ribaltando il decisum di primo grado.
Uno dei ricorrenti, pertanto, adiva la Suprema Corte impugnando la sentenza resa dalla Corte d’Appello.
La Corte di legittimità, pronunciatasi sul tema nella Sentenza n. 6294/2020, ha chiarito che i rapporti disciplinati dall’art. 48, L. 833/1978 e dagli accordi collettivi nazionali stipulati in attuazione di tale norma, sono da inquadrare nell’ambito dei rapporti libero-professionali, non essendo attribuito all’Ente Pubblico alcun potere autoritativo nei confronti del medico in convenzione, all’infuori di quello di vigilanza.
In altri termini, il medico in convenzione, non potrà beneficiare della disciplina prevista per i rapporti di pubblico impiego in quanto il rapporto lavorativo dello stesso risulta inquadrabile nell’alveo dei rapporti libero-professionali, non essendo presente alcun potere direttivo dell’Ente Pubblico nei riguardi del medico stesso.
A ben guardare, tale pronuncia di legittimità trova le sue radici in una precedente pronuncia della stessa Corte, resa a Sezioni Unite, la n. 2955/1984, nella quale la Suprema Corte si era espressa riconducendo il rapporto di lavoro in convenzione nell’alveo della prestazione autonoma, avente i connotati della parasubordinazione, la quale esula dall’ambito del pubblico impiego.
In conclusione, pertanto, ai rapporti di lavoro in convenzione, non risultano applicabili quegli istituti e quelle norme che la legge riconduce ai rapporti di lavoro di tipo pubblicistico.
Il medico convenzionato, pertanto, è un libero professionista il quale svolge un incarico di pubblico servizio, sulla base di un contratto collettivo stipulato con la P.A. ai sensi del D.Lgs. n. 502/92.
La Corte di Cassazione, relativamente a tale aspetto, ha chiarito, nella Sentenza n. 813/1999, che la Asl non possa in alcun modo esercitare un potere direttivo sul medico in convenzione all’infuori di quello di sorveglianza.
Ebbene, tale assunto risulta, invero, permeato da una certa criticità se si pensa che il rapporto di lavoro del medico convenzionato, definito – appunto – anche da ultimo come autonomo, in realtà risulta permeato da istituti propri del rapporto di impiego subordinato, quali l’esercizio del potere disciplinare della Asl ex art. 30 del nuovo Accordo Collettivo Nazionale di categoria ed il potere direttivo della Asl. Ci si chiede, pertanto, come possano conciliarsi tali espressioni di “potere” proprie del rapporto di lavoro subordinato con una tipologia di rapporto che, invece, viene definita autonoma.
Guardando alle pronunce più rilevanti in materia di riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro (Sent. Cass. n. 3603/1998 e Sent. Cass. n. 1685/2002) si evince come siano rilevanti gli elementi sostanziali del rapporto al fine dell’inquadramento dello stesso nelle maglie del rapporto di lavoro subordinato o autonomo. In altri termini, a fronte di un’esclusione contrattuale della subordinazione, bisogna guardare al rapporto “di fatto”, ossia se il comportamento delle parti sia effettivamente conforme alla natura autonoma dell’impiego. Elemento chiave al fine di operare tale distinguo risulta l’accertamento relativo all’esercizio del potere direttivo-autoritativo-disciplinare del datore di lavoro, a cui consegue una limitazione nell’autonomia del lavoratore. A titolo di esempio si riporta il decisum del Consiglio di Stato n. 337/2005, nel quale si è chiarito che in caso di reperibilità del medico la stessa vada retribuita e costituisce condizione sufficiente al fine di definire il rapporto di lavoro come subordinato.
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Cecilia Di Guardo
Dottoressa in Giurisprudenza laureata presso l'Università "La Sapienza" di Roma con una tesi in materia di diritto processuale civile in tema di profili processuali dei danni punitivi, con valutazione di 110/110 e lode.
Conferimento del titolo di "laureata eccellente A.A. 2017-2018" da parte dell'Università "La Sapienza" Di Roma e dalla Fondazione Roma Sapienza.
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