Mente o cervello: chi è il colpevole?
L’imputabilità è, da sempre, la categoria giuridica più complessa e controversa del diritto penale.
La sua intrinseca “fluidità scientifica”, che la pone al confine tra il diritto e la scienza psicologica, ha destato non pochi problemi, acuiti a tutt’oggi, dal possibile utilizzo delle neuroscienze come nuove alleate nella risoluzione delle difficoltà interpretative legate al concetto di vizio di mente e, dunque, di imputabilità.
Il “postulato giuridico” secondo cui chi sia sofferente psichico debba essere considerato meno o per nulla responsabile dei propri atti è principio di antica data e di quasi universale accettazione storica e geografica: dal diritto romano al diritto penale germanico, dall’epoca oscura del potere dell’Inquisizione medievale al diritto laico successivo all’anno Mille fino a giungere al Codice penale Napoleonico del 1810, che informò tutta la successiva codificazione europea in tema di imputabilità.
Identificata generalmente come la capacità di intendere e di volere, la nozione di imputabilità viene descritta, più puntualmente, attraverso le sue cosiddette cause di esclusione di cui agli articoli 88 e seguenti del codice penale. Nel volgere in chiaro il dettato normativo, la capacità di intendere è la capacità di rendersi conto del valore sociale dell’atto che si compie; mentre la capacità di volere è l’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, ovvero la facoltà di volere quello che si giudica doversi fare. Il contenuto sostanziale dell’imputabilità va ravvisato, dunque, nella maturità psichica e nella sanità mentale consistendo in un modo di essere dell’individuo, in uno status della persona che deve sussistere nel momento in cui il soggetto ha commesso il reato. Difatti, benché il codice non lo specifichi, la prassi e la dottrina psichiatrico-forensi sono poi univoche nel rapportare l’esistenza dell’incapacità di intendere e di volere non solo ad un criterio cronologico (“nel momento in cui ha commesso il fatto”), ma anche ad un criterio di relazione col fatto specifico, il cosiddetto principio di criminogenesi e criminodinamica: non basta, cioè, la presenza di una qualsivoglia, ancorché grave infermità, ma l’infermità deve presentare caratteristiche tali da aver partecipato alla genesi ed alla dinamica di quel particolare reato.
Si assiste, di tal guisa, alla formazione di un sistema “bifronte” normativo-psicopatologico.
Posto quanto precede, è significativo spiegare quali siano le ragioni per cui il codice penale richiede la capacità di intendere e di volere del soggetto ai fini della determinazione della pena.
Nei secoli sono state prospettate molteplici teorie di marca ideologica diversa (l’indirizzo del libero arbitrio, la teoria dell’intimidazione, la concezione della Scuola Positiva). Oggi a fondamento del sistema della non imputabilità per incapacità di intendere e di volere sono poste le funzioni retributive e preventive della pena: “la legge penale è norma coattiva di condotta e dunque ha funzione intimidatoria, ma questa portata non potrebbe sussistere se, nella maggior parte degli uomini, non vi fosse la capacità o la possibilità di subire la coazione psicologica della legge penale per la capacità di comprenderne il significato e con la facoltà di conformare ad essa la propria condotta”. Analogamente rispetto alla funzione risocializzativa e specialpreventiva, si è argomentato che in colui che fosse stato giudicato incapace di comprendere il disvalore dell’atto o di opporvisi con libera volontà non potrebbe trovarsi finalismo rieducativo: un processo di reinserimento o di riappropriazione dei valori conculcati dalla condotta criminosa non può che rivolgersi alle motivazioni ed alle scelte libere e consapevoli della persona. Ripercorrendo il cammino descritto con altre parole, l’imputabilità costituisce il perno attorno al quale ruotano le esigenze socialdifensive e generalpreventive, da un lato, e le istanze individualgarantistiche, dall’altro: è presidio di tutela fondamentale che pone al riparo l’individuo dal rischio di dover rispondere di un fatto di cui non è concretamente in grado di cogliere il disvalore penale o anche solo sociale.
Ma il nodo gordiano della “questione definitoria” si risolve solo allorquando si chiariscono i termini del rapporto con la nozione di colpevolezza, quale insieme delle condizioni necessarie per l’attribuzione psicologica del fatto al soggetto.
Trattasi dell’annoso problema della collocazione dell’imputabilità nella sistematica del reato: la dottrina, infatti, non è pacifica nel considerarla come presupposto della colpevolezza in quanto attuali sono ancora gli orientamenti che la identificano con una condizione soggettiva, per cui questa ben può essere presente nei soggetti non imputabili. Al di la di ciò, accantonate le divergenze di opinione su questo primo snodo concettuale ritenute, peraltro, superate a seguito dell’arresto della Corte di Cassazione (secondo cui l’imputabilità, come capacità di intendere e di volere e la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, esprimono concetti diversi ed operano anche su piani diversi sebbene la prima, come componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda, propendendo per la tesi che la configura come presupposto della colpevolezza), di difficile soluzione risultano anche i rapporti tra l’imputabilità ed il vizio di mente, che ne rappresenta la principale causa di esclusione totale o parziale.
Il vizio di mente ha destato, da sempre, problemi definitori, sia in punto di individuazione dei suoi criteri generali che per il suo accertamento fenomenico. Ciò dipende dall’intreccio che determina tra scienza giuridica e scienze sociali, in particolare tra diritto e scienza psichiatrica, mondi contrapposti che debbono per volontà del legislatore raggiungere un punto di equilibrio. I problemi identificativi, sia di natura giuridica che squisitamente nosologica, dipendono dalla considerazione che la scienza, oggi, non appare più “illimitata, completa ed infallibile” come, invece, era considerata nel secolo scorso (cosiddetta visione positivistica) e questo, di conseguenza, si riverbera sulla sfera del diritto. Viene a mancare quel sicuro punto di riferimento a cui era solito rivolgersi il giudice al fine di trovare ausilio in tema di vizio di mente. A tutt’oggi, pertanto, le incertezze scientifiche si riflettono nel processo penale quando l’interrogativo è capire se un soggetto era capace di intendere e di volere al momento in cui ha commesso una fattispecie criminosa.
Tanto la crisi si è fatta sentire, tanto da trasformarsi in vera e propria crisi dell’imputabilità, al punto di giungere alla proposta di eliminarne dal nostro codice il concetto stesso. Proposta inaccettabile attesa la sua valenza costituzionale (come presupposto della colpevolezza, secondo la oramai dominante concezione normativa) e l’inevitabile contrasto con i principi di tassatività e di determinatezza che governano la disciplina penale.
Su questo terreno di incertezza scientifica oggi i neuroscienziati propongono l’utilizzo delle recenti tecniche di neuroimaging in tema di perizia psichiatrica. Negli ultimi anni è maturata la convinzione che sia oramai possibile, attraverso la neuroanatomia applicata, misurare la struttura del cervello e la sua funzionalità, potendo notare le alterazioni cerebrali e i problemi strutturali nelle aree temporale e libica, come l’ippocampo, l’amigdala ed il lobo frontale. Trattasi di un gruppo di discipline scientifiche che studia il funzionamento del cervello e del sistema nervoso: vengono analizzati la comprensione del pensiero umano, le emozioni ed i comportamenti biologicamente correlati, attraverso cui si manifesta o non manifesta il pensiero stesso. Le tecniche neuroscientifiche, quindi, spiegano come funziona, si sviluppa e degenera il sistema nervoso. Il riferimento dell’analisi tecnica diviene il cervello, non è più la comprensione dei rapporti con la mente, ma lo studio di come la mente emerge dal suo substrato organico. La mente risulterà oggetto di studio in quanto processo derivante dall’attività cerebrale: la mente è il risultato dell’attività del cervello; se il cervello è ferito anche la mente deraglia.
Le moderne neuroscienze cognitive rappresentano, pertanto, l’espressione di una visione complessiva della natura umana, partendo dal dato organico per giungere, poi, ai contenuti intellettuali e “spirituali” dell’individuo.
Orbene la scienza giuridica sarà costretta ad un profondo ripensamento: “l’ intelligenza artificiale” degli esami diagnostici per immagini protrebbe assoggettare l’Homo Sapiens sancendo, così, la cosiddetta terza domesticazione, dopo quella dell’uomo sugli animali e dell’uomo sull’ uomo.
Queste nuove metodologie hanno permesso di giungere a scoperte davvero rivoluzionarie: si pensi alla correlazione tra comportamento aggressivo e geni o alla possibilità di prevedere le scelte che il paziente farà grazie all’osservazione del funzionamento dei suoi neuroni. In pochi anni le nuove tecniche Brain-imaging hanno permesso di vedere il cervello in azione, di fare luce sulle radici organiche dei comportamenti e delle scelte: si pensi alla Tomografia ad emissione di positroni (Pet) ed alla risonanza magnetica funzionale (fMRI) con cui è stato studiato il meccanismo del pensiero nel suo rapportarsi con il mondo esterno.
Alla luce di queste premesse, l’esperto chiamato a valutare il vizio di mente deve pronunciarsi su quanto il libero arbitrio sia conservato o quanto eventualmente la malattia lo abbia ridotto: a tal punto che ruolo possono avere le neuroscienze? Il paradigma su cui si fonda la responsabilità penale è dato dalla verifica del libero arbitrio, della colpevolezza e della imputabilità del soggetto agente, sempre che egli abbia agito con coscienza e volontà. Se il soggetto è libero, può agire; se agisce, ci saranno delle conseguenze consapevoli, di cui sarà responsabile. L’incapacità di intendere e di volere rappresenta un motivo rilevante per escludere o ridurre la pena. Ma se il soggetto non era libero nel suo agire o nel suo omettere di agire, è responsabile da un punto di vista penale? Proprio su questo punto si inseriscono le neuroscienze, le quali possono aiutare a capire quando l’individuo sia veramente libero e responsabile delle proprie azioni o determinato nel suo agire. In termini estesi, le tecniche di neuroimaging oggi disponibili consentono un’analisi approfondita del cervello umano rendendo possibile la formulazione di alcune ipotesi di connessione tra attività fisiche e attività mentali: si può dire che se i processi mentali assumono rilievo ai fini giuridici, l’individuazione e l’accertamento del loro correlato neurale può essere un’efficace prova di essi. Parlare, quindi, oggi di neuroscienze significa comprendere come il cervello realizzi i comportamenti umani, espressioni intellettuali del substrato biologico di cui è composto l’uomo.
E’ giocoforza sottolineare che le neuroscienze hanno acceso i riflettori sulla possibile correlazione tra alcune aree cerebrali e particolari tipi di comportamento con l’approdo ad una nuova immagine di uomo non più divisa tra anima e corpo: “non più un essere libero e razionale in grado di autodeterminarsi, bensì un uomo molto meno libero di quanto si è portati a ritenere a causa dei condizionamenti genetico-cerebrali”. Le neuroscienze, in sostanza, stanno appalesando l’idea di un uomo dominato dalle passioni, irrazionale, istintivo e soggetto a condizionamenti più biologici che traumatici o patologici con l’inevitabile riformulazione del secolare dibattito filosofico sul libero arbitrio. L’essenza rivoluzionaria degli studi di neuroanatomia applicata sta negli esperimenti da ultimo condotti: le intenzioni coscienti dell’uomo non sarebbero propriamente le cause delle nostre azioni perché l’operatività causale è anticipata da processi cerebrali che le precedono con un margine temporale ben quantificabile. Le intenzioni sono causalmente inefficaci e, dunque, rappresentano una sorta di epifenomeno: altrimenti detto il cervello deciderebbe prima di quando il soggetto matura la consapevolezza della decisione; difatti mediante la risonanza magnetica funzionale (fMRI) con la quale si visualizza un’area precisa del cervello che anticipa di alcuni secondi la decisione (prima che su questa si formi una coscienza), è stato possibile predire quale scelta il soggetto avrebbe operato di lì a poco, analizzandone i relativi segnali luminosi. Tutto ciò per dire che il cervello sembra agire in modo autonomo dando impulso all’azione prima che l’individuo acquisisca coscienza della stessa.
Ne consegue che l’idea che la libertà possa essere soltanto un’illusione si fa forte, minando pericolosamente il fondamento normativo e pratico della punibilità. A tal punto si impone una precisazione: nessun esperimento ha dimostrato con certezza l’inesistenza della libera volontà, ma ha offerto indizi a favore di una certa qual forma di determinismo bio-antropologico. Sebbene una correlazione temporale tra attività neuronale e azione volontaria non equivale ancora ad una correlazione causale questa relazione è un’ipotesi rafforzata dagli studi più recenti. “Decidere non sarebbe un atto causato dalla volontà ma da una memoria esperenziale che si forma a sua volta per effetto dell’interazione di varie parti del sistema nervoso: noi non facciamo ciò che vogliamo, ma vogliamo ciò che facciamo”.
Se, come è, le questioni quotidiane sono il riflesso dell’attività cerebrale, lo diventerà anche il modo con cui gli uomini creano ed osservano i precetti normativi: la scienza giuridica diventa ancella del cervello tant’è che le tecniche di neuroimaging hanno modificato anche il modo di valutazione dei disturbi psichici avviando una nuova stagione classificatoria delle categorie patologiche tradizionali. Le Brain-imaging, pertanto, sono un momento scientifico e culturale topico ed il loro apporto per migliorare il tasso di oggettività e la scientificità delle perizie è da giudicarsi come pienamente convincente in un’ottica di modulazione e personalizzazione del trattamento criminale.
Sebbene gli approdi siano rivoluzionari non tutti i giuristi le hanno accolto come nuove alleate processuali temendo un ritorno ad una sorta di “neo-lombrosismo”: il timore è che si cancelli il libero arbitrio quale fondamento del diritto penale della colpevolezza e che si possa arrivare all’assurdo di considerare gli uomini come tutti inimputabili perché dominati dal cervello ed incapaci, quindi, di autodeterminarsi nel mondo esterno. In un solo colpo si spazzerebbero via secoli di battaglie per l’affermazione dell’idea della responsabilità umana come dato costante dell’esperienza della nostra coscienza morale e della nostra vita sociale. In altri termini il diritto penale come strumento di controllo sociale non può attendere la dimostrazione scientifica della libertà del volere, anche se si trattasse di una finzione il diritto punitivo fa proprio il principio della responsabilità umana come un presupposto necessario della vita pratica.
Ma come ci insegna la storia, il punto di vista mediano è il più corretto: le neuroscienze non realizzano nessuna rivoluzione copernicana, l’uomo resta sempre l’essere libero e capace di muoversi tra motivi opposti operando scelte consapevoli, senza essere dominato dal suo sistema nervoso. Le tecniche di neuroimaging, però, e questo non lo si può e non lo si deve negare, apportano un grande ausilio nella redazione della perizia psichiatrica. La complessità e particolarità dei nuovi test introdotti permette di avere una visione più completa e più attendibile sulle condizioni mentali dell’individuo. Se accostate ai metodi tradizionali, il giudice potrà fruire di una perizia più attendibile senza essere mai sostituito nella sua attività ermeneutica, ma certamente aiutato in questa straordinaria sfida neuroscientifico-giuridica.
Il punto è quindi se mantenere un’interpretazione tassativizzante ma superata, oppure se preferirne una detassativizzante ma ammodernatrice. Questo è il dilemma.
Sicuramente nell’approccio al tema trattato, che parte dall’accoglimento di una nozione integrata della malattia mentale, i punti di osservazione del fenomeno non possono che essere molteplici. Non sono cioè possibili spiegazioni monocausali del disturbo psichico. Piuttosto, anche l’eventuale riscontro di una patologia di tipo organico potrà essere un utile indicatore nel giudizio di imputabilità, ma non ancora da solo sufficiente ad emettere una decisione finale. In altre parole, “la valutazione comportamentale e clinica non può essere sostituita dalla valutazione del cervello tramite le tecniche di neuroimaging cerebrale e le tecniche neuropsicologiche e neuroscientifiche dovrebbero, per il momento, essere viste come metodologie di approfondimento e di supporto”. In questo modo non si corre il rischio di trasformare anche le neuroscienze in un “mito risolutore”, ma si è pronti, semmai, ad ascoltarne alcune fondamentali indicazioni, utili in un’ottica di completamento della perizia. Gli esami diagnostici per immagini diventano il mezzo per andare oltre le attuali categorie diagnostiche, al fine di meglio comprendere i rapporti tra il cervello e la disfunzione psicologica, come è accaduto nella formulazione delle sentenze della Corte d’Appello d’Assise (18 settembre 2009) di Trieste e del Tribunale di Como (20 maggio 2011) prime ed uniche pronunce in cui la decisione si è avvalsa dei risultati della genetica comportamentale il cui utilizzo ha aumentato la certezza di trovarsi di fronte ad un’ infermità mentale. Queste pronunce dimostrano come sia possibile fruire delle neuroscienze senza mettere in discussione il principio del libero arbitrio dell’uomo. Esse costituiscono un valido esempio di quale sia la prospettiva da cui osservare i risultati scientifici ed entro quali limiti poterne usufruire.
Pertanto, si può concludere che inevitabili riflessi di indeterminatezza si riverberano sui criteri di imputazione della responsabilità penale e che per poter rispettare il principio di legalità bisogna pretendere il rigore che solo il metodo scientifico assicura. Pertanto, se i tempi non appaiono maturi per una rinuncia al concetto di imputabilità, il problema è di procedere ad una sua ridefinizione attraverso la valorizzazione delle più aggiornate acquisizione scientifiche. In tale contesto le neuroscienze sembrano particolarmente indicate ad evidenziare soggetti in cui, a causa di una lesione del cervello, permanga la capacità conoscitiva, ma non quella volitiva, empatica ed emotiva per cui l’esito giudiziale sarà il riconoscimento del vizio parziale di mente: si apre, a questo punto, il problema di determinare l’efficacia del trattamento sanzionatorio riservato in questi casi e della inevitabile necessità di una generale riforma del settore.
In conclusione si può condivisibilmente affermare che la scienza giuridica non è un dato immobile e perfetto per cui la sua apertura, ancorché “monitorata”, alle neuroscienze è ineludibile affinché la comprensione fenotipica e genotipica della mente possa contribuire all’incessante esplorazione dell’uomo, a maggior ragione al cospetto della legge.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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