Meritevolezza e adeguatezza: rapporti con la causa, tra contratto e provvedimento amministrativo
Sommario: 1. La causa, tra diritto civile e amministrativo – 2. Tipicità, meritevolezza e causa astratta – 3. Adeguatezza e causa concreta
1. La causa, tra diritto civile e amministrativo
L’ordinamento tende a condizionare, innanzitutto, l’utilizzo di numerosi strumenti giuridici, a disposizione sia dei privati che della pubblica amministrazione, a una ragione giustificatrice. Quest’ultima si fonda sull’opportunità di scegliere un determinato istituto per uno specifico fine, ossia il risultato che l’autore dell’atto intende perseguire attraverso i modelli negoziali o provvedimentali, offerti dal sistema giuridico.
Questa giustificazione, ovvero la causa, attiene alla ragione pratica del contratto o, più precisamente, all’interesse che l’operatore intende soddisfare[1] (la c.d. causa concreta); non sarebbe allora sufficiente individuare, come nelle tesi precedenti[2], una “utilità sociale”[3] o un interesse apprezzabile dalla società, quale metro di giudizio per controllarne la “meritevolezza”. Essa, infatti, secondo la dottrina più recente, può essere vagliata correttamente solo perscrutando l’interesse del singolo contratto – in concreto – e non il generico schema-tipo negoziale.
Comunque, l’elemento causale, non è né esclusivo del solo contratto (sussistendo, più in generale, in tutti i negozi giuridici[4]) né dell’area prettamente civilistica: questo, difatti, può rinvenirsi sia nell’attività negoziale della pubblica amministrazione (es. nei contratti a evidenza pubblica) che nel suo agere provvedimentale.
Sebbene nell’ambito amministrativo la causa sia stata meno frequentemente affrontata dagli studi della dottrina, possono ritenersi in parte applicabili le medesime considerazioni e problematiche collegabili al negozio. La peculiarità, evidentemente, è nell’unilateralità causale del provvedimento, poiché in quest’ultimo lo scopo da ricercare è il perseguimento dell’interesse pubblico di cui l’Amministrazione è portatrice; nel contratto, invece, la causa svolge una funzione almeno “bilaterale”, perché coinvolge nel medesimo scopo due o più parti in senso sostanziale. Gli atti amministrativi, infatti, sono caratterizzati normalmente dall’imperatività, ossia dal potere di produrre effetti nei confronti dei destinatari, a prescindere dal loro consenso.
In verità, la pluralità di soggetti intesi come centri di interesse, e delle rispettive prestazioni, non sono da ricondursi ad altrettante cause: ad oggi, si ammette infatti il carattere “unitario” dell’elemento giustificatore, in quanto riferito all’operazione contrattuale nella sua interezza. Tuttavia, originariamente, in dottrina la causa era intesa come elemento essenziale della singola obbligazione[5], cosicché in un medesimo contratto, potendosi rinvenire una pluralità di prestazioni, comparivano altrettanti elementi causali. In tal senso, del resto, sembrava conformarsi il codice civile del 1865, al cui art. 1119 era previsto che “l’obbligazione senza causa, o fondata su una causa falsa o illecita, non può avere alcun effetto”.
Il codice vigente, per contro, ha accolto la predetta tesi unitaria, poiché, come si è sostenuto in dottrina[6], sarebbe inconcepibile contrapporre la causa delle singole obbligazioni a quella del negozio, in quanto è in quest’ultimo che troverebbero la loro piena giustificazione. Comunque, è stato altresì evidenziato[7] che l’art. 1174 c.c. sembra ugualmente riprendere latu sensu le teorie precedenti, prevedendo il requisito di un “interesse” del creditore all’obbligazione: appare, allora, difficile per l’interprete distinguere tra quest’ultimo elemento e il concetto stesso di causa.
2. Tipicità, meritevolezza e causa astratta
Il codice civile, com’è noto, pur lasciando un ampio margine all’autonomia privata, ha scelto alcuni specifici modelli contrattuali in base alla loro importanza o frequenza[8], tipizzandoli nella struttura e, altresì, attribuendo loro un nomen juris.
Questi, in particolare, sono individuati in un ampio elenco previsto dal Titolo III del Libro IV del codice, dedicato propriamente ai “singoli contratti”, ovvero ai loro c.d. tipi legali. Comunque esistono, e aumentano progressivamente, anche modelli extra-codicistici, individuati dalla legislazione speciale (per esempio nel caso dell’affiliazione commerciale o franchising); inoltre, anche gli stessi contratti, tipizzati (o “nominati”) dal codice, sono sempre più spesso oggetto d’integrazione, rispetto allo loro disciplina, da parte di altre fonti normative.
Tuttavia, esistono anche “tipi sociali”[9], ossia modelli negoziali adottati frequentemente dai privati per determinate operazioni economiche, sebbene – non ancora – disciplinati dalla legge (come nel caso, per esempio, del contratto di ormeggio).
È possibile affermare, allora, che il procedimento di tipizzazione passi attraverso una serie di passaggi: da una fase di “atipicità” in cui lo schema contrattuale è individuato direttamente dall’autonomia negoziale; a una seconda fase caratterizzata dall’uso generalizzato in una determinata realtà sociale o commerciale; a una terza, di accoglimento da parte dell’esegesi giurisprudenziale; fino alla loro previsione da parte del legislatore.
Nel momento finale di questa evoluzione il negozio acquisisce, così, l’approvazione completa da parte dell’ordinamento giuridico, il quale lo dichiara, di fatto, meritevole di tutela. Non è necessario, allora, per il giudice indagare ulteriormente sulla funzionalità astratta: il giudizio sulla meritevolezza è stato offerto direttamente dalla legge.
Al contrario, per quelli ancora innominati – perché creati dall’autonomia delle parti o dalla prassi sociale – è necessario un vaglio giudiziale nel caso della loro impugnazione da parte dei contraenti. Occorre, infatti, che gli stessi rispettino, quanto alla loro struttura, sia i principi dell’ordinamento nonché le regole di validità che la normativa civilistica impone. Questa valutazione sembra attenere, quindi, al concetto di “causa astratta”, quale funzione economico-sociale del contratto.
Questa evoluzione graduale, così descritta, non sembra invece trovare spazio nell’attività della pubblica amministrazione. La fonte del potere amministrativo, nel suo carattere autoritativo e unilaterale è, infatti, la legge: si è giustamente affermato che il suo fondamento non sia da rinvenirsi in una qualità intrinseca o innata degli enti pubblici, come invece si riteneva in passato, bensì nel principio di legalità[10]. Di conseguenza, difettando un concetto di “autonomia provvedimentale” come “speculum” di quella negoziale, manca anche la possibilità di emettere provvedimenti atipici. L’Amministrazione, allora, nell’ambito della propria discrezionalità può solo scegliere tra i “tipi” previsti dalla legge, in base alle sue competenze. Su questi, quindi, non occorre alcun giudizio di meritevolezza da parte del giudice amministrativo, poiché è lo stesso legislatore, anche qui, ad anticipare una tale valutazione.
Un problema, tuttavia, può configurarsi nell’ambito degli accordi sostitutivi o integrativi del provvedimento amministrativo, di cui all’art. 11 l. n. 241/90. Essi, originariamente, erano interpretati dalla dottrina più risalente in chiave prettamente privatistica[11], in virtù dell’espresso richiamo normativo ai principi in materia di obbligazioni e contratti; successivamente, la giurisprudenza ormai consolidatasi[12] ha qualificato i suddetti accordi in termini, per contro, pubblicistici, in virtù di una serie di caratteristiche sintomatiche: quali il perseguimento dell’interesse pubblico, il riferimento al contenuto discrezionale, il regime dei controlli sull’accordo e la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche sulla fase esecutiva ex art. 133 c.p.a.
Dunque, appurata la natura provvedimentale degli stessi, è necessario chiedersi se anche su di essi non debba essere vagliato il profilo della meritevolezza; sul punto, in realtà, occorre rilevare che la l. 11 febbraio 2005 n. 15 ha privato di tipicità gli accordi a carattere sostitutivo, cosicché, a oggi, sono divenuti esperibili dalla P.A. anche in assenza di un’autonoma previsione normativa; tuttavia, si è ritenuto che tal effetto, soprattutto alla luce dell’interpretazione pubblicistica, “debba essere inteso cum grano salis”[13] perché non assimilabile all’atipicità propria dell’autonomia negoziale, per la necessarietà di un potere amministrativo da sostituire. Può, allora, ritenersi da escludere un giudizio sulla base del parametro citato, proprio per le profonde analogie con i provvedimenti emessi dalla stessa Amministrazione.
A una diversa conclusione si deve giungere, invece, per l’attività negoziale in senso proprio della P.A., quale espressione della sua capacità generale di concludere negozi giuridici, sancita dall’art.1, co.1bis, l.n.241/1990[14]. La giurisprudenza, infatti, si è più volte espressa per l’ammissibilità, nei confronti dei soggetti pubblici, alla stipula di contratti pubblici anche atipici, pur nel rispetto delle regole procedurali di evidenza pubblica nella formazione del negozio e nell’individuazione del contraente privato. Queste condizioni, difatti, pur nell’attività di diritto privato, trovano applicazione in virtù del rispetto dei parametri di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 della Costituzione[15].
3. Adeguatezza e causa concreta
Il giudizio sulla meritevolezza ha mostrato, tuttavia, alcuni suoi limiti rispetto a quelle ipotesi nelle quali il contratto non sembrava riuscire a soddisfare – appieno – la funzionalità concreta dell’operazione economica, ossia l’intento delle parti. Nei modelli tipizzati, infatti, si è osservato che il contratto, pure astrattamente meritevole (perché ritenuto tale dallo stesso legislatore), poteva ugualmente risultare “inadeguato” in relazione alla sua causa concreta.
Un primo esempio può essere offerto dai contratti di compravendita cc.dd. “a prezzo vile” e “nummo uno” (lett. dal latino “per un soldo”), in cui la controprestazione economica è, rispettivamente, molto inferiore al valore di mercato dello stesso bene offerto o, nel secondo caso, addirittura meramente simbolica. I negozi in questione sono, almeno nella loro struttura, senz’altro tipici giacché disciplinati dagli artt. 1470 e ss. c.c., tuttavia era dubbio se potessero essere anche adeguati rispetto alla causa concreta (ossia lo scambio di cosa contro un prezzo) e, di conseguenza, se rispettassero la necessaria “sinallagmaticità” dei rapporti tra venditore e acquirente.
Sul punto si è espressa recentemente la Suprema Corte[16], affermando, in primis, che un prezzo irrisorio o vile non determina automaticamente la nullità del contratto per mancanza dell’oggetto, quale elemento essenziale, ex art. 1418, co.2, c.c.; al contrario solo se la controprestazione fosse meramente simbolica o priva, comunque, di un valore effettivo (come per il contratto nummo uno), potrebbe inficiare la compravendita di nullità per mancanza di un elemento essenziale. Tuttavia, nel caso in cui un prezzo – sebbene irrisorio – fosse materialmente presente, sarebbe comunque possibile vagliare la causa concreta del negozio nella sua adeguatezza: in tal modo, infatti, si potrebbe indagare, proficuamente, se il contratto così stipulato possa effettivamente rispondere al reale intento negoziale delle parti.
Un altro caso in cui la giurisprudenza[17] si è di recente espressa in merito alla adeguatezza negoziale, concerne il contratto di assicurazione c.d. on claims made basis (lett. a richiesta fatta) con cui l’istituto assicurativo si impegna a mantenere indenne l’assicurato laddove la domanda di risarcimento del terzo danneggiato giunga mentre è ancora attiva polizza. Al contrario, attraverso la clausola c.d. loss occurance – che costituisce invece la modalità ordinaria di assicurazione – il risarcimento è condizionato, per contro, alla verificazione dell’evento-danno (incident) nel periodo assicurato dalla polizza. Le Sezioni unite, sul punto, hanno da un lato affermato la tipicità (e la consequenziale meritevolezza) delle clausole claims made perché previste in più occasioni dalla legislazione speciale (per esempio, dall’art. 11 l. n.24/2007) nonché dall’art. 1932 c.c.; tuttavia hanno anche precisato che in base alle modalità concrete con cui esse sono stipulate, le stesse potrebbero risultare comunque inadeguate a soddisfare l’interesse per il quale il cliente ha stipulato l’assicurazione. È il caso, in particolare, di quelle “impure”, dove è previsto che sia la richiesta di risarcimento che il fatto che l’ha generata debbano collocarsi in costanza della policy.
La giurisprudenza successiva[18], inoltre, si è occupata di evidenziare i rimedi che l’assicurato può esercitare in via giudiziale contro un contratto così configurato, ossia: l’azione di risarcimento per la responsabilità precontrattuale, laddove abbia stipulato l’assicurazione a condizioni svantaggiose (per la violazione delle cc.dd. regole di condotta); l’azione di nullità, anche parziale, del contratto per difetto di causa in concreto (in quanto, per l’appunto, “inadeguato”); nonché la possibilità di chiedere la conformazione del negozio in presenza di clausole abusive (come il recesso dell’assicuratore in caso di denuncia del sinistro).
Nel diritto amministrativo è stato prima rilevato che il provvedimento non possa mai definirsi “immeritevole”, poiché deve necessariamente essere tipico in virtù di quel principio di legalità che avvince il potere e il procedimento amministrativo, ex art. 1 l. n.241/1990. Tuttavia, è possibile chiedersi se lo stesso possa essere eventualmente “inadeguato” rispetto agli obiettivi che l’Amministrazione si prefigge e, nel caso, interrogarsi su quali rimedi potrebbero essere esperibili contro questo vizio.
L’inidoneità del provvedimento rispetto allo scopo può avere, in realtà, diverse cause: alcune possono attenere, innanzitutto alla fase procedimentale, quale un difetto d’istruttoria, o un erroneo contemperamento degli interessi in gioco. In questi casi, laddove dall’inadeguatezza derivi un danno ai destinatari dello stesso provvedimento, il sindacato del giudice incontrerà comunque i limiti del merito della p. a., a eccezione dei casi di giurisdizione esclusiva di cui all’art. 133 c.p.a.
Un’altra causa può derivare, in sede prettamente provvedimentale, dalla “sproporzionatezza” degli effetti dell’atto adottato rispetto all’obiettivo perseguito (perché, per esempio, insufficienti o eccessivi), o ancora dalla mancanza di ragionevolezza nei motivi del medesimo. Questi elementi sintomatici sono da considerare, pacificamente[19], vizi di legittimità del provvedimento e, in quanto tali, sindacabili dal giudice amministrativo. Infine può risultare inadeguato anche perché proiettato verso uno scopo del tutto diverso rispetto a quello previsto dalla legge; questa circostanza genera il c.d. sviamento di potere[20], anch’esso censurabile nella giurisdizione di legittimità.
In conclusione, i caratteri della meritevolezza e dell’adeguatezza quali espressioni della causa nel suo lato astratto e concreto, fanno supporre che le tesi su questo elemento essenziale non siano antitetiche ed escludenti l’una con l’altra. Difatti, il contratto deve essere oltre che conforme, nella sua struttura genetica, ai principi generali dell’ordinamento, anche essere idoneo a soddisfare l’interesse specifico delle parti che l’hanno concluso; e lo stesso può dirsi del provvedimento amministrativo, rispetto all’interesse pubblico perseguito dall’ente che lo ha emesso. Dunque, si può affermare che queste due anime convivano in una sorta di “causa bifronte” attraverso la coesistenza della funzione economico-sociale e della ragione pratica.
[1] Bianca, Il contratto, in Trattato di diritto civile, vol.3, Giuffré, 2000, pag. 447
[2] Cfr., ex multis, Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Jovene, 2002, pag. 128
[3] Betti, Teoria del negozio giuridico, E.s.i., 2005, pag. 183
[4] Si pensi, per esempio, al fenomeno successorio di cui all’art. 456 c.c. che avviene, per l’appunto, mortis causa.
[5] Battistoni, La causa dei negozi giuridici, Padova, 1932, pag. 69
[6] Cfr. Niccolò, Aspetti pratici del concetto di causa, in Raccolta di scritti, Milano, 1980
[7] Bianca, op. citata, pag. 456
[8] Torrente, Manuale di diritto privato, Giuffré, 2012, pag. 685
[9] Bocchini, Quadri, Diritto privato, Giappichelli, 2018, pag. 937
[10] Chieppa, Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Giuffré, 2018, pag. 459
[11] Manfredi, Accordi e azione amministrativa, Torino, 2001, pag. 108
[12] Consiglio di Stato, 20 agosto 2013 n. 4179
[13] Garofoli, Auletta, in Codice amministrativo ragionato, Nel diritto editore, 2017, pag. 99
[14] in virtù del quale “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato (…)”, e dunque tra le suddette norme privatistiche anche l’art. 1322 c.c.
[15] Cons. di Stato, sez. VI, sentenza 16 luglio 2015, n. 3571
[16] Cass., sez.II, sent. n. 22167/2019
[17] Cass., sez. un., n. 22437/2018
[18] Cass., sez. II, n. 26598/2018
[19] cfr. Virga, Diritto amministrativo, vol.2, Giuffré, 2001, p.126, per il quale “Sotto lo schema dell’eccesso di potere si raggruppano tutte le violazioni di quei limiti interni alla discrezionalità amministrativa, che, pur non essendo consacrati in norme positive, sono inerenti alla natura stessa del potere esercitato”
[20] Dall’istituto francese del “détournement de pouvoir”, consacrato con la sentenza “Pariset” del Conseil d’Etat, 26 novembre 1875 n.47544
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Avvocato Amministrativista.
Già tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso il Tar Lazio, sede di Roma.
Laureato in Giurisprudenza presso l'università La Sapienza di Roma, ove ha conseguito anche il diploma di specializzazione per le professioni legali.
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