Messa alla prova e aggravanti: il punto delle Sezioni Unite
Cass. Pen. Sezioni Unite, 01.09.2016, n. 36272.
La messa alla prova, introdotta con la legge 28 aprile 2014 n. 67[1], è una forma di probation giudiziale che consiste nella sospensione del procedimento penale nella fase decisoria di primo grado, per reati di minore allarme sociale e su richiesta della persona imputata che non sia contravventore e delinquente abituale, professionale e per tendenza.
L’istituto realizza una rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata ed assistita: con la sospensione del procedimento, l’imputato viene affidato all’ufficio di esecuzione penale esterna per lo svolgimento di un programma di trattamento che prevede attività obbligatorie (quali, l’esecuzione di un lavoro di pubblica utilità, l’attuazione di condotte riparative volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché il risarcimento del danno dallo stesso cagionato e, ove possibile, l’attività di mediazione con la vittima del reato) e facoltative ( quali, l’osservanza di una serie di obblighi relativi alla dimora, alla libertà di movimento e al divieto di frequentare determinati locali).
L’esito positivo della prova comporta l’estinzione del reato. In caso, invece, di esito negativo per grave e reiterata trasgressione del programma di trattamento o delle prescrizioni, per il rifiuto opposto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità, per la commissione durante il periodo di prova di un nuovo delitto non colposo o di un reato della stessa indole di quello per cui si procede, il giudice con ordinanza dispone la revoca della stessa e la ripresa del procedimento.
Ai sensi del primo comma dell’art. 168 bis, su istanza dell’interessato, la misura può essere concessa dal giudice, “nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale…”.
Si delimita, quindi, l’ambito operativo della messa alla prova individuando un duplice criterio, quantitativo e nominativo: da una parte ci sono i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva, sola congiunta o alternativa, alla pecuniaria non superiore ai 4 anni e, dall’altro, i delitti indicati dall’articolo 550, comma 2, c.p.p..
La norma non puntualizza, tuttavia, se il tetto posto dal criterio quantitativo vada stabilito considerando le circostanze aggravanti o meno.
Il problema interpretativo, caratterizzato da persistenti contrasti giurisprudenziali e da conseguenti ricadute di carattere operativo, ha richiesto l’intervento della Cassazione, a Sezioni Unite, la quale – con sentenza n. 36272 del 01.09.2016 – ha dato risposta al seguente quesito[2]: “ Se, nella determinazione del limite edittale fissato dall’art. 168 bis, primo comma, cod. pen., ai fini dell’applicabilità della disciplina della sospensione del procedimento con messa alla prova, debba tenersi conto delle circostanze aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale”.
La Corte esamina inizialmente gli argomenti addotti dai differenti indirizzi giurisprudenziali sorti sulla questione.
Secondo il primo orientamento[3] il limite edittale tiene conto delle aggravanti per le quali la legge prevede una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale, per un duplice ordine di ragioni.
In primo luogo, al fine di garantire l’unità e coerenza del sistema, sarebbe indispensabile applicare i medesimi criteri di determinazione della pena specificati all’art. 4 c.p.p. in materia di individuazione della competenza: i suddetti criteri – secondo i quali deve aversi riguardo della pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato senza tener conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze, fatta eccezione delle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa e di quelle ad effetto speciale – sono presi in considerazione da numerose altre disposizioni del codice di rito, quali quelle contenute negli artt. 278 (in materia di applicazione di misure cautelari), 379 (in tema di arresto in fragranza di reato), 550, comma 1 (relativamente all’individuazione dei casi di citazione diretta a giudizio), nonché 157, secondo comma, c.p., in materia di prescrizione.
In secondo luogo, l’applicazione del surriferito criterio di determinazione della pena si porrebbe in armonia con il criterio qualitativo e nominativo di cui allo stesso art. 168 bis c.p..
Si ritiene, infatti, che l’art. 168 bis – individuando i reati tramite il rinvio espresso ai delitti di cui all’art. 550, comma 2 c.p.p., il quale comma, a sua volta, richiama la disposizione del comma 1 del medesimo articolo – implicherebbe l’automatico rinvio anche all’art. 4 del codice di rito, articolo richiamato espressamente dal primo comma dell’art. 550 c.p.p.: tramite questi rinvii duplici si ricomprenderebbero, quindi, anche i reati con aggravanti per i quali la legge prevede una pena di specie diversa e ad effetto speciale. In tal modo si avrebbe una piena coincidenza tra i reati per i quali l’imputato può chiedere la messa alla prova e i reati per cui è attivabile la citazione diretta dinnanzi al tribunale monocratico.
L’orientamento in esame, dunque, nega che la formulazione letterale dell’art. 168 bis sia univoca e chiara e si evidenzia la necessità di ricorrere, in via analogica, ad un principio generale ricavabile dal sistema, postulando l’esistenza di un criterio normativo unitario – quale quello di cui all’art. 4 c.p.p. – in base al quale determinare la pena ai fini dell’applicazione degli istituti processuali.
L’opposto orientamento[4] fornisce, invece, una interpretazione diversa del silenzio dell’art. 168 bis in relazione ai criteri per la determinazione della pena, affermando che se il legislatore avesse voluto che si tenesse conto delle circostanze aggravanti, lo avrebbe espressamente previsto – così come avvenuto per gli artt. 4, 278 379 c.p.p. e 157 c.p. – riportandosi all’intero disposto dell’art. 550 c.p.p.. Invece, richiamando intenzionalmente soltanto il secondo comma dell’art. 550, si è voluto evitare l’esclusione, dal perimetro applicativo del nuovo istituto, di quei reati di competenza collegiale puniti con la pena edittale inferiore nel massimo ai quattro anni.
Si aggiunge, inoltre, che il mancato richiamo alla possibile incidenza delle aggravanti è coerente con la previsione dell’ammissibilità̀ dell’istanza di sospensione e messa alla prova in una fase in cui al giudice non è consentito pronunciarsi sulla fondatezza dell’accusa così come formulata, se non in termini negativi circa la sussistenza delle condizioni per la pronuncia di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p.. .
Le Sezioni Unite aderiscono a questo secondo orientamento, affermando che “Ai fini dell’individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina dell’istituto della sospensione con messa alla prova, il richiamo contenuto all’art. 168-bis cod. pen. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie-base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese le circostanze ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato”.
Si valorizza, in primo luogo, il dato letterale: l’art. 168 bis non contiene alcun riferimento alla possibile incidenza di eventuali aggravanti e tale assenza non costituisce affatto – come supposto dal primo orientamento considerato – un vuoto normativo da colmare in via analogica.
Le Sezioni Unite, infatti, negano che nel sistema esista un criterio normativo unitario in base al quale determinare la pena ai fini dell’applicazione di istituti processuali: i criteri per la selezione dei reati attraverso il riferimento alla quantità di pena sono influenzati dagli istituti a cui si riferiscono e sono utilizzati, di volta in volta, in base a valutazioni discrezionali del legislatore; sebbene moltissime disposizioni del codice di rito tengono conto, per la determinazione della pena, delle circostanze aggravanti per le quali è stabilita una pena di specie diversa e di quelle ad effetto speciale, non per questo esiste una regola generale non derogabile dal legislatore.
Emerge, invece, che il legislatore del 2014, nella legge n.67, quando ha voluto richiamare il criterio di cui all’art. 4 c.p.p., lo ha fatto espressamente (cfr. art. 1, comma 1, lettere c e g), mentre in relazione all’istituto della messa alla prova nessun cenno alle aggravanti è stato fatto.
Tale scelta si giustifica, inoltre, per una coerenza interna del sistema: ci sarebbe una intrinseca contraddizione se, da un lato, ai fini della determinazione della pena, si dovesse tener conto anche dell’incidenza sanzionatoria delle aggravanti (e, conseguentemente, escludere dall’ambito di applicazione dell’istituto i reati aggravati da circostanze ad effetto speciale o con pena di specie diversa) e, dall’altro, ci fosse l’automatica inclusione nel perimetro applicativo dell’istituto di reati – quali quelli espressamente richiamati tramite il rinvio nominativo all’art. 550, secondo comma c.p.p. – che sono già descritti nella loro forma aggravata (lettere c, d, e, f) e sanzionate con pene elevate.
Le Sezioni Unite escludono anche che il richiamo contenuto nell’art. 168 bis al comma 2 dell’art. 550 c.p.p. debba essere esteso anche al comma 1 e, di conseguenza, all’art. 4 c.p.p. ivi menzionato.
Ancor prima di dover ricorrere al criterio storico – e, quindi, al testo della formulazione originaria del testo di legge, ove vi era l’esplicito riferimento alle circostanze speciali e ad effetto speciale, riferimento poi soppresso – è la stessa interpretazione letterale ad essere palese: l’art. 168 bis non evoca il comma 1 dell’art. 550 o l’art. 4 c.p.p., né menziona alcuna circostanza aggravante, limitandosi ad effettuare un mero rinvio al solo comma 2 dell’art. 550 c.p.p., al fine di delineare le fattispecie di reato per le quali l’istituto della messa alla prova è consentita.
Se, invece, il legislatore avesse operato un richiamo all’intero articolo 550 c.p.p. – e, quindi, anche al comma 1, al fine di rendere coincidente l’elenco dei reati per i quali l’imputato può chiedere la messa alla prova e quelli per cui è attivabile la citazione diretta dinnanzi al tribunale monocratico – si sarebbe, irragionevolmente, esclusa l’applicazione della messa alla prova per i reati puniti con pena edittale inferiore nel massimo a quattro anni, ma di competenza collegiale ex art. 33-bis c.p.p..
Che l’intenzione del legislatore non fosse quello di sancire l’operatività dell’istituto della messa alla prova per i soli reati per cui è attivabile la citazione diretta dinnanzi al tribunale monocratico, si ricava anche dall’introduzione dell’art. 464 bis c.p.p., il quale – nel disciplinare il procedimento di sospensione del processo con messa alla prova – stabilisce, quale termine finale entro il quale poter avanzare la richiesta di messa alla prova, la formulazione delle conclusioni in udienza preliminare ai sensi degli artt. 421 e 422 c.p.p.: il novero dei reati è, quindi, più esteso di quelli previsti dall’art. 550 c.p.p.
Da ultimo, le Sezioni Unite, richiamate le finalità specialpreventive perseguite dall’istituto tramite un trattamento sostanzialmente sanzionatorio, sebbene alternativo alla detenzione, ritiene che nulla osta una sua applicazione anche a reati divenuti astrattamente gravi a seguito dell’incidenza delle aggravanti: in tali casi, piuttosto che affidare ad automatismi prefissati legislativamente l’automatica esclusione dell’istituto, il giudice dovrebbe compiere una valutazione sull’idoneità del programma proposto.
In tali casi, l’estensione dell’operatività dell’istituto a reati che presentano un maggior disvalore trova piena giustificazione nella circostanza che la messa alla prova prevede, comunque, un vero e proprio trattamento sanzionatorio a contenuto afflittivo, come confermato dall’art. 657 bis c.p.p., laddove sancisce che, nel determinare la pena da eseguire n caso di fallimento della messa alla prova, si detragga il periodo corrispondente a quello della prova eseguita.
Rosalia Ruggieri
[1] La legge 67/2014 persegue la finalità di contenere l’inflazione penalistica e ridurre la crisi della sanzione penale, razionalizzando e laicizzando il sistema penale attraverso l’incriminazione dei soli reati più gravi, con la consapevolezza che la pena non può essere l’ineluttabile conseguenza di ogni reato.
[2] Ordinanza di rimessione, n. 8014/2016.
[3] Cass. Pen., sez. 6, n. 36687 del 30.06.2015 e n. 46795 del 06.10.2015.
[4] Cass. Pen., Sez. VI, 9 dicembre 2014, n.6483/2015, Sez. II, 14 luglio 2015, n. 33461, Sez. IV, 10 luglio 2015, n.32787.
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