Metodo mafioso, tra pericolo e danno
Sommario: 1. Introduzione – 2. Gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali – 3. Osservazioni conclusive
1. Introduzione
Il metodo mafioso, nella determinazione dei suoi elementi costitutivi normativi, ha subìto evoluzioni e modifiche, dovute alla natura storicamente e sociologicamente variabile delle sue manifestazioni.
Ad oggi, la nozione è delineata dall’ art. 416bis, comma 3 c.p. : “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva” allo scopo di perseguire determinate finalità. Integra dunque una condotta caratterizzata essenzialmente da un duplice legame eziologico, tra l’esistenza di un vincolo associativo e la conseguente forza di intimidazione, e tra questa e condizioni di assoggettamento e omertà.
La disposizione è idonea a descrivere i fenomeni criminologicamente denominati “mafie storiche”, la cui capacità intimidatoria è solida, affermata, al di là della necessità di atti coercitivi o di minaccia espliciti, per fama, nomea di appartenenza ad una determinata associazione. Ne sono invece più difficilmente sussumibili alcune recenti manifestazioni individuate con l’espressione “nuove mafie”, organizzazioni criminali non ancora stabilizzate in una determinata compagine socio-territoriale, talvolta refrattaria alle loro metodologie criminose, e attuanti forme nuove di infiltrazione nella legalità, non necessariamente idonee ad integrare il requisito tipico dell’ intimidazione, per svariate cause: esse operano in contesti differenti da quelli d’origine, solo in alcuni casi sono immediatamente riconducibili a “filiali”, “succursali” delle mafie c.d. storiche, mentre in altri casi sono dotate di maggior autonomia, indipendenza a livello organizzativo; si evidenziano infine divergenze di condotte, come l’avvalersi dello strumento corruttivo.
Non è quindi immediata l’applicabilità del suddetto art. 416bis c.p. anche a questi casi, per i quali risulta fondamentale individuarne la natura, soprattutto in chiave di ossequio a princìpi penal-costituzionali quali la legalità e la prevedibilità dell precetto penale da un lato, e, peraltro, come conseguenza, la pienezza ed effettività della difesa.
2. Gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali
Le problematiche poc’anzi evidenziate hanno alimentato rilevanti contrasti.
Un primo orientamento tende ad interpretare la norma anticipandone la funzione di tutela penale: le modalità mafiose sono desumibili dall’unitarietà dell’associazione con la c.d. “casa madre”, dall’evidenza di un “marchio” di appartenenza, idoneo di per sé a suscitare quello che la giurisprudenza ha definito come “alone di intimidazione diffuso” . Dunque, non è necessario che gli affiliati alimentino ex novo, nel nuovo contesto in cui operano, tale condizione mediante manifeste violenze o minacce, ma si delinea la rilevanza giuridica anche di una forma di intimidazione solo potenziale: trattasi di un reato associativo puro, integrato dalla mera idoneità del vincolo associativo a pregiudicare il bene giuridico tutelato dalla norma (l’ordine pubblico). Questo è sostenuto, ad esempio, dalla tesi dei “cerchi concentrici”, secondo cui l’art. 416bis c.p. costituirebbe species del genus dell’ art. 416 c.p. , reato di pericolo (riportata nella pronuncia della Suprema Corte, sezione VI, 12 maggio 2016, n. 44667, punto 1.3 del considerato in diritto). Questi elementi hanno portato la giurisprudenza ad attribuire a talune nuove forme associative il nome di “mafie silenti”. Ad esempio, nella sentenza della Cass.Pen., sez. V, 3 febbraio 2015, n.21562, il ricorrente lamenta la superficialità del giudice a quo nell’ affermare l’imputabilità del metodo mafioso alla condotta oggetto di giudizio in quanto sarebbe stata accertata l’assenza di legami di vicinanza con le associazioni mafiose operanti “hic et nunc” sul territorio. Tuttavia, secondo la Suprema Corte, rileva anche la “utilizzazione della forza intimidatoria non ricollegabile a una specifica, attuale condotta, ma a una situazione, creata da una pregressa, vigente, attuale carica intimidatrice dell’associazione. In definitiva, grazie alle precedenti promozioni di assoggettamento e omertà, chi opera non ha più bisogno di ricorrere a specifici comportamenti di violenza e minaccia, di agire sotto la spinta di specifici atti forieri di paura (…) essendo sufficiente avvalersi dell’alto livello di “cattiva fama” raggiunto dall’associazione ” . Alcune di queste citate espressioni promanano da Cass.pen., sez. V, 2 luglio 2013, n. 28531, in cui si è ritenuta sussistente la fattispecie in esame in caso di “spessore qualitativo, territoriale, mediatico tale da conferire una capacità promozionale all’espansione del timore, dell’assoggettamento e dell’omertà nella collettività originaria e in tutte le altre in cui l’associazione abbia deciso di radicarsi e agire”.
Un secondo, opposto orientamento è invece quello che prevede requisiti di attualità e di effettività della capacità intimidatoria, alla luce di tre argomenti: il princìpio di tassatività del precetto penale, ex art. 25 comma 2 Cost. , la lettera dell’art. 416bis c.p., che parla di “avvalersi”, dunque richiedendo una condotta positiva ed esplicita, e infine la strumentalità, e dunque la necessaria esternazione, del metodo intimidatorio rispetto al perseguimento delle finalità illecite. La dottrina ha ricondotto tale tesi al paradigma del reato associativo a struttura mista, per l’integrazione del quale non è sufficiente la formazione dell’associazione, essendo necessario anche il concretizzarsi, almeno parziale, di un programma criminoso. Negando, di conseguenza, la rilevanza giuridica del concetto di “mafie silenti”. Pronuncia a supporto di tale posizione è, ad esempio, Cass.Pen., sez. II, 3 agosto 2012, n.31512, in cui la Suprema Corte accoglie le doglianze dei ricorrenti sostenendo l’illogicità della motivazione della sentenza impugnata in quanto inidonea a dimostrare una “ “esteriorizzazione” quale forma di condotta positiva richiesta dalla norma con il termine “avvalersi”; questa (“esteriorizzazione”) può avere le più diverse manifestazioni (…),ma occorre pur sempre che l’intimidazione (in qualsiasi forma assunta) si traduca in atti specifici, riferibili ad uno o più soggetti, suscettibili di valutazione, al fine dell’affermazione, anche in unione con altri elementi che li corroborino, dell’esistenza della prova del metodo mafioso”; nel caso di specie si richiede alla competente Corte d’ Appello, in sede di rinvio, di riesaminare la natura dei rapporti tra i soggetti interessati al fine di individuare l’effettiva natura continuativa ed ereditaria rispetto ad una precedente associazione non più esistente, gli effettivi atti di spendita del nome della stessa a fini intimidatori, le specifiche condotte riflesso delle condizioni di assoggettamento e omertà che ne derivino. Altro caso è quello della sentenza Cass.Pen., sez. V, 20 dicembre 2013, n. 14582, in cui vengono censurate le motivazioni di Corte d’Appello in relazione ad un’organizzazione presentante alcuni indizi di collegamento con la “casa madre” , imponendo il “doveroso accertamento che i fenomeni in questione si inquadrino in un contesto organizzato su quella base territoriale” . Tale pronuncia richiama anche una giurisprudenza più risalente, come Cass.Pen., Sez.5, n.19141 del 13 febbraio 2006, in cui si legge che “in presenza di un’autonoma consorteria delinquenziale, che mutui il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche, è necessario accertare che tale associazione si sia radicata in loco con quelle peculiari connotazioni”.
La Cassazione ha cercato di mediare tra i due indirizzi nella, divenuta nota, sentenza della V sezione del 3 marzo 2015, n. 31666. In tale pronuncia, viene sottolineato il nucleo della problematica: la sufficienza, per ricondurre le “nuove mafie” nell’alveo dell’art. 416bis c.p. , dell’esistenza di un vincolo associativo con organizzazioni mafiose storiche oppure, al contrario, la necessità di una riaffermazione ulteriore, mediante esplicite forme di coazione, di una posizione di dominio e prevaricazione. L’elemento discriminante risulta essere il seguente: nel caso in cui l’associazione sia di nuova costituzione, originale, che semplicemente si proponga di avvalersi di metodi similari a quelli tipicamente mafiosi, risulta necessario “che si accerti se la neoformazione delinquenziale si sia già proposta nell’ambiente circostante, ingenerando quel clima di generale soggezione, in dipendenza causale dalla sua stessa esistenza”. Viceversa, nel caso in cui il sodalizio sia espressamente una mera delocalizzazione di un’associazione storica, sarà sufficiente la dimostrazione di tale nesso funzionale, considerando che questo comporterebbe automaticamente la mutuazione dei medesimi metodi tipici e caratterizzanti. Invero tale approccio aveva già trovato avallo nella pronuncia della Cassazione Penale, sez. I, 14 febbraio 1998, n.6933, c.d. caso Rasovic, che sancisce la possibilità per il giudice di valutare la sussistenza della fattispecie in base alle condizioni sociologiche e antropologiche rilevate nel contesto geografico e culturale in cui i fatti oggetto di regiudicanda si sono verificati.
Anche la dottrina ha cercato di dirimere la questione, per esempio con l’orientamento intermedio della c.d. “tesi sincretistica” , che individua un reato a struttura mista e a condotta multipla (riportato, ad esempio, da Fernanda Serraino in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.1, 2016, pag. 264, nel suo scritto intitolato “Associazioni ‘Ndranghetiste di Nuovo Insediamento e Problemi applicativi dell’art. 416-bis c.p.”). Un primo momento è individuato nel passaggio da una fattispecie riconducibile alla semplice associazione per delinquere all’associazione di tipo mafioso mediante l’assunzione di una carica intimidatoria autonoma, derivante dal vincolo tra gli affiliati; di ciò si richiede l’effettività. Un secondo momento, che invece può anche rilevarsi solo come potenziale, è lo sfruttamento attivo, mirato, per l’attuazione del programma criminoso premeditato, delle condizioni di assoggettamento e di omertà conseguenti alla prima “fase”.
Con riguardo alle critiche sollevate nei confronti delle due posizioni contrapposte, è da rilevare che la tesi maggioritaria è quella che richiede l’effettività del metodo mafioso, la sua esteriorizzazione: la tesi opposta rischia di trovare legittimazione, più che nella lettera della norma, in ottica invece general-preventiva, di politica criminale, di competenza legislativa e non giurisdizionale. Tale argomentazione è stata posta a sostegno, per esempio, della non individuabilità della fattispecie nel caso c.d. Mafia Capitale: è stato espresso il dubbio che un sistema diffuso di corruzione, di un reato-contratto, dunque di un accordo stipulato in condizioni di parità, più che di squilibrio, coercizione, intimidazione e assoggettamento, possa integrare la norma in esame (“Rilievi critici sulle pronunce di “mafia capitale”: tra l’emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica”, Andrea Apollonio, in Cassazione Penale, fasc.1, 2016, pag.125). Osservazione, peraltro,a sostegno della tesi del reato associativo puro è quella secondo cui un approccio relativistico porterebbe con sé il rischio di legittimare una “presunzione di mafiosità” nelle aree geografiche notoriamente colpite dal fenomeno, in lesione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. .
3. Osservazioni conclusive
La sentenza della Corte di Cassazione n. 31666 del 2015 ha certamente aiutato a delineare con più precisione i criteri di riconducibilità del fenomeno alla norma penale in esame, con l’importante conseguenza di limitare l’arbitrarietà degli organi giudicanti.
Qualche ultima osservazione.
Ad avviso di chi scrive, nel richiedere la necessaria estrinsecazione del metodo mafioso, qualunque fenomeno differente da quelli “tradizionali” non sarebbe punibile prima di giungere ad uno stadio avanzato, di contro alla volontà del legislatore che sembrerebbe invece indirizzata ad anticipare il più possibile la rilevanza penale delle condotte considerate, coerentemente con la natura di pericolo del reato associativo: vedasi ad esempio l’art. 416ter c.p. , che punisce una condotta idonea a porsi in progressione criminosa rispetto all’associazione mafiosa. Legittimare la pretesa punitiva dello Stato ex post rispetto al pregiudizio arrecato all’ordine pubblico rischia di convertire la fattispecie in reato di danno; l’organizzazione interna di questo tipo di consorteria criminale, con tutte le sue abituali caratteristiche identificative (riti di affiliazione, partecipazione a specifici incontri, forme di riconoscimento, attribuzione di ruoli, gerarchie, … ) dovrebbe essere prova sufficiente del modus operandi dei soggetti agenti.
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Lara Gallarati
Avvocato presso il Foro di Milano.
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