Minori: maltrattamenti in famiglia e configurabilità della violenza assistita

Minori: maltrattamenti in famiglia e configurabilità della violenza assistita

La violenza assistita è definita dal Coordinamento Italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso dell’infanzia come: “il fare esperienza da parte del bambino di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulti e minori”.

Si tratta di una forma di violenza domestica a danno dei figli minori  costretti ad assistere a comportamenti violenti di un genitore nei confronti dell’altro o di altri soggetti della famiglia.

Il bambino, assistendo ai comportamenti di un genitore nei confronti dell’altro, acquisisce consapevolezza di ciò che sta accadendo, diventando un vero e proprio silenzioso testimone della violenza.

Violenza che danneggia la quotidianità stessa del minore che assiste a tali episodi.

La violenza assistita, pertanto, può definirsi come una forma di maltrattamento psicologico che riversa i suoi effetti sul minore, sia dal punto di vista fisico e cognitivo, sia dal punto di vista delle sue relazioni sociali.

La Corte di Cassazione ha tracciato, con la sentenza n. 74 del 2021, i confini tra la configurabilità della fattispecie del reato di violenza assistita e il reato aggravato dalla presenza di minori.

La pronuncia trae le sue origini dalla decisione della Corte di Appello di Milano che aveva confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Varese con la quale l’imputato era stato condannato alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento danni nei confronti della ex convivente e della madre della stessa, per il reato di atti persecutori ed il reato di lesioni personali.

Parimenti, però la stessa Corte rigettava l’appello di parte civile sostenendo che i figli della coppia non fossero vittime dirette dei delitti di stalking e di lesioni, seppure avessero assistito a tre episodi di violenza, e che non vi fosse alcun nesso eziologico tra la condotta dell’imputato ed il disagio loro derivato.

La Corte territoriale sosteneva, in motivazione, che “i figli della coppia pur avendo assistito a tre degli episodi ascritti al padre, non sono stati vittime dirette dei reati di stalking e di lesioni e il riconoscimento di un nesso eziologico tra il disagio agli stessi derivato e la condotta dell’imputato non è avvalorata neppure dal decreto definitivo di affidamento del Tribunale per i Minorenni di Milano nel quale si dà atto che gli stessi hanno fortemente risentito della conflittualità genitoriale e familiare cui sono stati esposti”.

Avverso tale decisione, parte civile, nella qualità di esercente la responsabilità genitoriale sui due minori, proponeva ricorso per Cassazione, lamentando la mancata condanna dell’imputato al risarcimento dei danni subiti dai figli vittime di violenza assistita.

Unico motivo di ricorso, dunque, era l’articolo 606 c.p.p., lett. e).

Parte ricorrente sosteneva che i minori avevano assistito a ben tre episodi di violenza e che, per la configurazione del reato di violenza assistita, si era pronunciata anche l’OMS che l’aveva definita “una grave forma di maltrattamento”; inoltre, anche la L. n. 119/2013 che ha introdotto l’articolo 61 c.p., comma 1, n. quinquies la riconosce quale forma di aggravante; la legge sul c.d. “Codice Rosso”, L. n. 69 del 2019, qualifica il minore vittima di violenza assistita quale persona offesa del reato di cui all’art. 572 c.p.; infine, tra i motivi, deduceva, quale ulteriore motivo specifico, che anche il Tribunale per i minorenni di Milano aveva evidenziato le  conseguenze pregiudizievoli della violenza assistita sui minori.

La V Sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata sul tema ripercorrendo l’interpretazione giurisprudenziale prevalente e tracciandone l’ambito applicativo, distinguendo dalla fattispecie di violenza assistita i casi in cui opera la circostanza aggravante comune di cui all’art. 61 n. 11-quinquies c.p., applicabile nei casi in cui delitti non colposi contro la vita, l’incolumità individuale e contro la libertà personale siano commessi in presenza di un minore di anni diciotto.

L’ordinamento penale ha ormai riconosciuto rilievo anche ai minori c.d. “vittime indirette”, nei casi di “violenza assistita”.

La Suprema Corte già precedentemente aveva delineato l’ambito operativo della “violenza assistita”[1]: “Il delitto di maltrattamenti è configurabile anche nel caso in cui i comportamenti vessatori non siano rivolti direttamente in danno dei figli minori, ma li coinvolgano indirettamente, come involontari spettatori delle liti tra i genitori che si svolgono all’interno delle mura domestiche (c.d. violenza assistita), sempre che sia stata accertata l’abitualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica nei minori spettatori passivi o della “violenza percepita[2], qualificabile come maltrattamenti ex art. 572 c.p”

Ricostruendo la tipicità del reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi, la sentenza in esame ha ribadito l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la condotta incriminata dall’art. 572 c.p. ricomprende, non solo la violenza fisica, ma, al contempo, anche tutti gli atti di disprezzo e di offesa della dignità della vittima che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali.

Sulla base di tali presupposti, la giurisprudenza è giunta a ritenere integrato il reato di cui all’art. 572 c.p. anche nei confronti dei figli, e ciò anche se la condotta violenta sia stata tenuta solo nei confronti di un genitore.

Secondo la Cassazione, infatti, lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve essere necessariamente collegato a specifici comportamenti vessatori posti in essere verso un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche dal clima generalmente instaurato all’interno di una comunità, conseguenza diretta di atti di sopraffazione, vessazione ed umiliazione.

Sulla base di tali presupposti e sul rilievo dei consolidati esiti degli studi scientifici concernenti gli effetti negativi sullo sviluppo psichico del minore costretto a vivere in una famiglia in cui si consumino dinamiche di maltrattamento, si è affermato dunque che la condotta di colui che compia atti di violenza fisica contro la convivente integra il delitto di maltrattamenti anche nei confronti dei figli[3].

Perché possa definirsi integrato tale reato anche nei confronti della prole, devono esservi alcuni requisiti.

Per la configurabilità del reato di maltrattamenti nei confronti della prole, ai fini della violenza assistita è necessario, da un lato, che vi siano condotte di violenza ripetute nel tempo, in linea con la natura abituale del reato e con la specifica tutela accordata dalla norma che è finalizzata a proteggere i membri della famiglia da un sistema di vita vessatorio e non dal singolo episodio di violenza, e, dall’altro, che la percezione ricorrente da parte del minore del clima di oppressione sia foriera di esiti negativi nei processi di crescita morale e sociale della prole interessata oggettivamente verificabili, distinguendosi l’ipotesi in cui il minore sia stato solamente presente durante la commissione di una delle condotte delineate, essendo applicabile in tal caso la circostanza aggravante ex art. 61, n. 11 quinquies, c.p., essendo sufficiente che il fatto sia commesso in luogo ove si trovi contestualmente anche un minore[4].

Il bene giuridico protetto dalla norma, infatti, non è solo l’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia da comportamenti vessatori o violenti ma, anche la difesa dell’incolumità fisica e/o psichica dei suoi membri nonchè la salvaguardia dello sviluppo della loro personalità nella comunità familiare.

È proprio l’aspetto relativo ad eventuali pregiudizi che il minore può avere nel suo processo di crescita, a parer della Corte, che è utile a distinguere la “violenza assistita” dalla differente ipotesi in cui il minore sia stato solo presente durante la commissione di una delle condotte integranti il reato di cui all’art. 572 c.p. ovvero altri delitti contro la libertà personale.

Qualora, infatti, non ricorra pregiudizio alcuno, opera l’aggravante ex art. 61 n. 11-quinquies c.p.

Ai fini dell’applicabilità di quest’ultima, è sufficiente che il fatto venga commesso in un luogo ove si trovi contestualmente un minore, anche se questi per età o altre ragioni non sia in grado di percepire ed avere consapevolezza del carattere offensivo della condotta posta in essere da taluno, in danno di terzi[5].

La giurisprudenza di legittimità sembra, dunque, avere distinto l’ipotesi della “violenza assistita” in cui il minore è vittima del reato ai sensi dell’art. 572 c.p. perchè, sebbene non direttamente oggetto delle condotte di maltrattamento, ha comunque subito nella crescita l’effetto negativo causato dall’avere appunto assistito a condotte concretanti una situazione abituale di sopraffazione all’interno del proprio nucleo familiare, dalla differente ipotesi in cui il minore, senza subire un tale effetto, sia stato solo presente durante la commissione di una delle condotte integranti il reato di cui all’art. 572 c.p. o altri delitti contro la libertà personale, affermando l’applicabilità, in tale seconda ipotesi, dell’aggravante disciplinata dall’art. 61 c.p., n. 11 quinquies.

Gli ermellini, nel caso di specie, concludono riconoscendo l’applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 11-quinquies c.p.  anche al delitto di atti persecutori disciplinato dall’art. 612-bis c.p., in quanto “delitto contro la libertà personale” menzionato dalla norma.

Anche tale reato, infatti, può produrre effetti pregiudizievoli ad un minore.

La Corte, con la sentenza in oggetto, accogliendo il ricorso, annulla la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili  in favore dei figli minori e rinvia al giudice civile competente per valore in secondo grado affinchè accerti se, ai soli fini civili: ricorra una fattispecie configurantesi nel reato di “violenza assistita” e quindi produttiva di conseguenze negative sullo sviluppo psicofisico dei figli minori, ovvero ricorra l’aggravante dell’aver commesso il fatto “alla presenza” dei minori, senza che ne sia derivata sofferenza psico-fisica.

 

 

 

 


[1] Tra le sentenze che adoperano questa espressione, Sez. 6, n. 18833 del 23/02/2018, B., Rv. 272985;
[2] Per l’utilizzo di questa espressione, Sez. 6, n. 4332 del 10/12/2014, dep. 2015, T.E., Rv. 262057;
[3] Sez. 5, n. 41142 del 22/10/2010, Rv. 248904, che, in applicazione del principio, ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità dell’imputato, in ordine al delitto di cui all’art. 572 c.p., anche nei confronti dei figli minori, pur riconoscendo che gli atti di violenza fisica erano stati indirizzati solo alla convivente, avendo evidenziato con congrua valutazione di merito, incensurabile in sede di legittimità, le ricadute del comportamento del genitore sui minori, i quali avevano timore persino di andare a scuola per non poter difendere adeguatamente la propria madre e, quindi, assistevano agli atti vessatori del padre, ivi comprese minacce di morte indirizzate alla madre;
[4] Sez. 6, n. 18833 del 23/02/2018, Rv. 272985; Sez. 6, n. 16583 del 28/03/2019, Rv. 275725 – 03;
[5] Sez. 6, n. 55833 del 18/10/2017, Rv. 271670; Sez. 6, n. 27901 del 22/09/2020, S, Rv. 279620, che, con riferimento ad una fattispecie di genitori che avevano fatto assistere reiteratamente una bambina dell’età di un anno agli atti di violenza e minaccia posti in essere nei confronti dei fratelli, ha affermato: “E’ configurabile il reato di maltrattamenti nei confronti di un infante che assista alle condotte maltrattanti poste in essere in danno di altri componenti della sua famiglia, a condizione che tali condotte siano idonee ad incidere sull’equilibrio psicofisico dello stesso”;

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